Frank Shepard Fairey (Charleston, South Carolina, 1970 - ) – Universal Dignity
Ripartire da dentro di noi
di Alessandra Tucci
Ho sempre più l'impressione, da ben prima dell’avvio di questa seconda decade del nuovo millennio, che siamo alla fine di un'era, al crollo di un impero. E, come ci dice Cicerone, più la caduta di un impero è vicina, più le sue leggi sono folli.
Lo stiamo vedendo. (A mio avviso) Da troppo tempo.
L'era, ed uso qui una eccellente sua sintesi letteraria e letterale ascoltata tempo fa da Marco Guzzi, egoico-bellica. L’era del penetrare. Missili pallottole armamenti vari rendono molto bene, anche visivamente, l'idea. Del conquistare, del controllare, dell'imporre, dell’emergere, del prevaricare soggiogando. Del guardare dall’alto, e non in una necessaria anzi urgente visione d’insieme, guardare dall’alto, di un podio effettivo o virtuale o solo bramosamente mentale, in basso l’altro essere umano, l’altro popolo, l’altro credo, l’altro pensiero, l’altro essere animale o vegetale. L’altro.
L’era della verticalità. Molto maschile, dunque.
E non ci si veda in questa considerazione alcun riferimento, con annessa critica, alla plurisecolare predominanza dell’uomo rispetto alla donna nella gestione sociale, politica, collettiva, aziendale. In quella – ahi tutti noi – bellica. Non è più il tempo delle etero dirette ed etero funzionali guerre tra i sessi o tra i diversi in senso lato, non c’è più tempo. Non è più il tempo del banalizzare per mandarla in caciara. Non c’è più tempo per giocare tra noi a battaglia navale. Così si affonda e basta.
Nel leggere di iniziative o manifestazioni sull’onda del la donna risorgerà o magari vincerà, sorrido ogni volta, è un sorriso amaro. E sbavato oltre che plastificato mi appare ogni volta il rosa di quelle quote che, a guardarle bene, sembrano dividersi in due macro-gruppi, il primo pacchetto riconosciuto per autocelebrante approccio compassionevole o pietistico o buonista o eticistico o inclusivo da parte del sistema che sembra aver dimenticato che l’inclusività solidaristica, quella effettiva che non dorme neanche la notte, è ben altra cosa e dovrebbe essere costante e trasversale e scevra da giudizi moralizzanti e a ben leggerli ghettizzanti, il secondo pacchetto sembra chiedere in cambio (non sempre ma) troppo spesso il rinunciare ai tratti femminili (nel senso di essere, non l’apparire) in una sorta di (mal) dissimulata cooptazione. La par condicio, poi, par(e) posta lì a negare se stessa, ciò che è non deve esser proclamato, quel che si proclama mostra e consolida l’assenza. La donna vincerà, quote rosa, par condicio e l’illusione continua, a continuare è il noi contro voi dentro l’arena del nulla.
Dicevo.
Nel parlare di era maschile al collasso, faccio riferimento ad un sistema basato (quasi) esclusivamente sul maschile che è in ognuno, anche nelle donne, senza integrare il femminile che, ugualmente, è nelle donne come è negli uomini. E so bene che qui dovrei far seguire il politically correct elenco dei vari(opinti) generi, chi legge li dia per citati tutti, l’essenza di ogni essere per me è cosa sacra e non intendo soffocarla per comprimerla in tendenze del momento che non dovrebbero neanche esistere se davvero si volesse rispettare il diritto di ognuno ad essere chi è senza bisogno di etichette che qualcun altro gli riconosce. Maschile e femminile sono insieme in ogni essere vivente, basti questo a non agitare le acque a spostare l’attenzione dall’urgenza di (re)integrare in ognuno e nel sociale il femminile. L’orizzontale.
Integrare, non sostituire. Affiancare ai tratti del maschile quelli del femminile, al verticale l'orizzontale. Per costruire una figura armonica e completa servono entrambi. A noi serve essere armonici.
Prima di affiancarli, magari rianimarli. Ampliarsi insomma, singolarmente e, dunque, collettivamente. Diventare esseri (più) completi, tutti.
Abbiamo poteri e facoltà inimmaginabili, mi chiedo perché buona parte siano deposti a prendere polvere.
Ovunque io mi giri vedo dita puntate. Fuori. Visivamente, molto maschile.
Ovunque legga, trovo sferzanti saettate. Sempre fuori. Ah, il caro vecchio Zeus e i suoi strali.
Ovunque tenda l'orecchio, ascolto urla e voci che si parlano addosso insultandosi magari con sorrisi appiccicati e finti. Tutti verso fuori.
Questo è il maschile, ripeto, presente anche e in egual misura nella donna.
Questo impero, questa era, si stanno sbriciolando, siamo quindi nel periodo più folle, caotico, distruttivo.
Che fare?
Magari cominciare a costruire una realtà che finalmente quadri usando entrambi, in perpendicolare e in longitudinale dunque, il beneficio sarà trasversale ed esponenziale se l’approccio si eleva in una visione d’insieme. Dicevano gli antichi che il quadrato – due linee orizzontali e due verticali - rappresentasse l’(essere) umano, il cerchio disegnato su tre punti manifestasse divino. Il sette, lo sappiamo, è un numero sacro o comunque fortunato: in esso l’umano si fonde col divino. Senza divisione.
Costruire, dunque, insieme.
Prima ancora, sapere cosa e come. Per arrivare pronti e per la gioia che genera il costruire in sé. A prescindere.
Da dove cominciare?
Da noi. Ciascuno da sé innanzitutto. Spostando lo sguardo da fuori a dentro. Ed esplorare lì, lì intervenire. Perché se c'è una legge universale che, procedendo nella vita ed ammaccandosi, prima o dopo si arriva a comprendere è che è cambiando il dentro che cambia anche il fuori. Che l’esterno è il riflesso di ciò che alberga nell’interiorità di ognuno. Quello singolo, il collettivo.
Ieri parlavo con il Prof. Galloni: "Ale, sarebbe così semplice." Eh.
Impostare la gioia e la bellezza e la solidarietà e l’empatia e l’accoglienza, impostarle dentro. Così, proiettarle fuori. Impostare l'abbondanza e non aver timore di un qualche programmat(ic)o pensiero di egotismo o peccato, no. Un pensiero di abbondanza genera ampiezza, l’ampiezza abbraccia, da lì la fratellanza comincia a fluire spontanea e con essa la solidarietà, è così che esplode la ricchezza.
Diversamente, un concetto di scarsità è generatore di quell' homo homini lupus magari rampante ma infelice che stiamo vedendo. Ripeto, (a mio avviso) da troppo tempo.
Siamo tanto e tutti concentrati sulla legge giusta/ingiusta, sulla Costituzione più bella/più brutta del mondo, ne siamo ossessionati: il vero punto, quello dolente, non è quello. Il punto è (nel)lo sguardo che la legge interpreta applica, se l’impostazione interiore è prevaricare il prossimo per emergere o anche solo sopravvivere non c'è legge che non presenti un cavillo che gli consenta di sviarla. Il punto è lì ed è culturale, umano, è spirituale.
Il punto è ripartire dalla dignità dell'essere umani. Dignità propria, la dignità dell'altro.
Questa mia riflessione avrei preferito non pubblicarla, sono sincera, per il rischio che possa essere letta come l’ennesima sterile critica tra le infinite che vorticano nell’aria. Ad agitare. Mai vorrei contribuire anche con un solo rigo a gonfiare il fiume in piena di giudizio in tacchi a spillo, nichilismo da bar, catastrofismo da salotto, allarmismo incravattato che ci ha travolti e ci sta portando alla deriva. (Anche qui) Da troppo tempo.
Perché l’ho pubblicato, dunque?
Il mio scrivere – romanzi, storie mitologiche e favolistiche, riflessioni – è autonomo da me, ha una vita propria. Quando si avvia arriva a conclusione, che il mio maschile lo voglia oppure no.
Il pubblicare, invece, il suo vaglio – quello del verticale che ne controlla opportunità e pro/contro e rapporto costi/benefici e incisività e ottimizzazione – rischia sempre di doverlo attraversare.
Per non predicare bene e razzolare male, quindi, per questo. Provo a dare l’esempio: Blocco il maschile che è in me come tutti. E libero il femminile.
Buona ripartenza a tutti noi.