Vasundhara Tolia (Bloomfield Hills, Michigan) - A World United
Cosa ci ha insegnato la pandemia
di Cesare Verlucca
Cari amici,
vi càpita mai di leggere qualcosa che avreste voluto scrivere voi, ma qualcuno ci ha pensato prima?
A me è caduto l’occhio su un brano di Don Sergio Messina che mi ha coinvolto; per cui, citando la fonte, mi permetto di diffondere quel testo che m’è parso degno di essere diffuso e sul quale è lecito intrattenersi.
Per la verità, stavo scrivendo un brano sulle parole tronche, piane, sdrucciole, e bisdrucciole, e sull’opportuna esigenza, almeno secondo me, di apporvi gli accenti débiti. Per me, infatti, scrivere “capita” senza capire se si tratta di qualcosa che sta succedendo (càpita), o se indica che una parola qualsivoglia sia entrata nel cervello di una persona incerta (capìta). Ma su questo argomento magari ritornerò, sempre che me ne ricàpiti l’occasione.
Qui, per contro, il discorso riguardava una malattia diffusa a livello mondiale, afflitta da un virus influenzale particolarmente contagioso. Una pandemia influenzale può colpire un numero enorme di persone e, conseguentemente, avere effetti sulla società, sull'economia e, ovviamente, sulla vita di coloro che purtroppo la pérdono.
Per fronteggiare la situazione sarebbe necessaria la predisposizione tempestiva di un piano d'azione strutturato a livello internazionale e regionale, nel quale vengano definiti chiaramente, e ad ogni livello, còmpiti, azioni e misure che siano indirizzate al raggiungimento dello stesso obiettivo.
Ma ritorniamo a don Sergio usando i suoi ragionamenti.
Affrontare il tema della pandemia, – sostiene il saggio sacerdote, – significa mettere in luce le ripercussioni fisiche, psichiche e sociali che essa ha avuto, e continua ad avere, sulla società in generale.
La pandemia, infatti, ha evidenziato la scarsa propensione degli umani a conoscere e a confrontarsi col passato, per riuscire a capire il presente e a orientare il futuro. La storia chiede di stare attenti alle parole, perché poi diventano vita. Quante parole inutili, inappropriate, vuote, contradditorie. La storia chiede di rimanere umani, memori di quella pregnante espressione di Publio Terenzio Afro che così affermava: «La vera saggezza consiste non solo nel vedere ciò che ci sta davanti al naso, ma anche nel prevedere ciò che potrebbe accaderci».
La pandemia ha messo a nudo chi siamo nel più profondo di noi stessi. Per natura e per scelta noi umani non siamo molto interessati a conoscere noi stessi; siamo più propensi a confrontarci con gli altri e a sentirci migliori.
Con ragione Fernand Pessoa affermava: «Chi ha detto: conosci te stesso, ha proposto un compito più grave delle fatiche di Ercole e un enigma più oscuro di quello della Sfinge».
La pandemia ha accentuato la preoccupazione per i problemi che riguardano l’eventuale rischio di contagio per noi e i nostri cari. Ma ci sono tanti aspetti sanitari di cui si è meno parlato che sono la diretta conseguenza delle misure messe in atto nel tentativo di contrastare la pandemia.
Esse per contro vanno prese in considerazione perché rischiano di protrarsi più a lungo e di avere gravi ripercussioni sulla società: dal peggioramento della salute mentale, con riferimento particolare al suicidio, alla perdita delle occasioni di socialità così importanti per tutti; dai posti di lavoro persi e ai disagi psicologici che tutto questo comporta, all’aumento della violenza domestica e dei femminicidi.
La pandemia ha acuito l’arroganza di non accettare che ogni essere umano è una realtà fragile, limitata, condizionata e, soprattutto, a termine. Si è umani solo se non nascondiamo la testa sotto la sabbia, ma ci assumiamo la responsabilità di chiamare le cose col proprio nome, impegnandoci a gestirle, nella buona e nella cattiva sorte, con coraggio e determinazione, sapendo che è un passaggio obbligato a cui non si può sfuggire.
Smentire il reale non è segno di saggezza, né tanto meno di furbizia, ma solo di illogicità.
Tutti gli amici che in quest’occasione mi leggono, intento a commentare un discorso che mi assomiglia, converranno che non potevo dir meglio io stesso, prendendomi naturalmente per i fondelli, abituato come sono a diffondere da quasi un secolo, dall’alto della mia età veneranda, a prendere il mondo per quello che è, e che tale conviene mantenerlo a futura memoria.