Robert Tanenbaum (USA, 1936 - Illustrator) – The Green Berets, John Wayne
Il mio ’68 è cominciato nel ‘67
di Nazzareno Lasagno
Gli altoparlanti della caserma diffondono con perseveranza “The Ballad of the Green Berets” (La ballata dei berretti verdi), un inno patriottico uscito nel ’66 che glorifica la guerra del Vietnam ed esalta le Forze Speciali statunitensi, quelle che indossano il tipico basco verde. Il testo della canzone è grondante di retorica e conservatorismo, ciononostante balza subito in testa alle classifiche americane, proprio nel momento in cui l’opposizione alla guerra sta diventando più forte. Nel 1968 l’inno diventerà la colonna sonora del film Berretti verdi, prodotto, diretto e interpretato da John Wayne, film che subirà parecchie critiche e contestazioni.
Il mio berretto non è verde ma nero, è quello dell’artiglieria corazzata. Non lo indosso volentieri, al contrario di molti ufficiali di carriera che in quel 1967 si eccitano alquanto per la “Guerra dei sei giorni”, ammaliati dall’efficienza bellica d’Israele che in un lampo mette in ginocchio Egitto, Siria e alleati vari.
Mentre in caserma imperversa l’apologia dei Berretti verdi, durante la libera uscita io posso disintossicarmi con “Sognando la California”, cantata dai Dik Dik, versione italiana di California dreamin’ dei Mamas & the Papas, e ascoltare dai jukebox le indimenticabili canzoni di quel periodo, e tra queste una in particolare: “Mettete dei fiori nei vostri cannoni”, presentata dal complesso I Giganti al Festival di Sanremo. Sembra fatta apposta per noi artiglieri corazzati, spesso impegnati in esercitazioni dove si spara con grandi obici.
A dispetto dell’entusiasmo dei graduati guerrafondai, affascinati dai numerosi focolai bellici sparsi per il mondo, fra i giovani spira un vento fresco e vitale che vuole spazzare via il militarismo e la guerra.
Molti di noi si stanno orientando a sinistra, ma non è molto salutare dimostrare tali tendenze politiche in caserma. Me ne rendo conto il giorno in cui un ragazzo calabrese, studente universitario, mi chiede di comprargli un giornale durante la mia libera uscita, facendomi una raccomandazione che mi suona un po’ strana: “Però quando rientri nascondilo sotto il giubbotto e non farlo vedere”.
Gli manifesto la mia perplessità: “Ma che razza di giornale vuoi? È un giornale porno?”.
Lui si fa una gran risata, poi mi spiega: “Ma cosa vai pensando? Il giornale che devi comprarmi è l’Avanti!”.
“L’Avanti?”, chiedo stupito. “Tutto qui? E che male c’è a leggere il giornale del Partito Socialista? Nella biblioteca Olivetti sono disponibili anche quelli molto più a sinistra …”.
“Sarà, … ma qui fa come ti dico io, per precauzione non farlo vedere”.
Che la prudenza del mio compagno di naia non fosse esagerata divenne evidente qualche tempo dopo, quando un ragazzo della nostra compagnia – uno dei pochissimi laureati fra i militari di truppa - fu sbattuto di ramazza per giorni e giorni, e a lungo gli fu impedito di uscire dalla caserma, soltanto perché aveva partecipato a una manifestazione di protesta durante la licenza.
Sotto le armi ogni comportamento anomalo poteva essere pericoloso e lo verificai in varie occasioni, come quella volta che tutta la truppa rimase intossicata dal cibo.
Per richiamare l’attenzione sulla qualità di quel che ci veniva propinato decidemmo di non consumare il pranzo, una sorta di innocente sciopero della fame.
La cosa non fu per niente gradita dal maggiore il quale ci radunò per stigmatizzare con enfasi il nostro comportamento, ricordandoci che rifiutare il rancio era considerato un atto d’insubordinazione passibile di punizione.
Da quel giorno l’insofferenza per l’autorità dispotica aumentò, mentre il vitto migliorò un tantino.
In estate mi congedai, tornando a respirare il profumo della libertà e quello di limatura di ferro poiché ero tornato al mio reparto di attrezzaggio.
Dopo tredici mesi di testa rasata e divisa grigioverde, il primo atto libertario è riacquistare una chioma degna di appartenere alla schiera dei “capelloni” e vestirsi da hippie, indossando abiti senza preclusioni cromatiche.
L’irrequietezza e l’aspirazione al cambiamento diffuse nel mondo giovanile contagiano anche me. Sento il bisogno di dare una svolta alla mia vita e decido di riprendere gli studi, non solo per trovare un lavoro più gratificante ma soprattutto per un’esigenza di crescita umana e culturale. Come primo passo m’iscrivo a una scuola serale a Ivrea.
Così divento uno studente lavoratore come molti altri ragazzi, o meglio un lavoratore che studia, un ibrido né carne né pesce, una sorta di centauro con una duplice natura: ammirato dagli studenti che ancora mitizzano un prototipo di “colletto blu” scaturito dall’iconografia del realismo socialista, ma allo stesso tempo un po’ invidiato dagli operai più anziani che forse vedono in chi studia un privilegiato, destinato a un futuro migliore del loro.
Per contro lo studente lavoratore vive le sue contraddizioni: da un lato prova un sottile complesso d’inferiorità verso gli studenti che frequentano scuole di seria A, dall’altro un senso di colpa nei confronti degli operai per aver deciso di abbandonare “la Classe”, quella che “va in paradiso”.
Nel ’68 e negli anni seguenti la condizione di studente lavoratore comporta il coinvolgimento sia nelle lotte operaie che in quelle studentesche. Disagi, ma anche vantaggi: gli scioperi dei lavoratori concedono tempo per studiare, le manifestazioni studentesche offrono buone opportunità di socializzazione… specie con l’altro sesso.
Ottenuto il diploma, l’azienda mi propone un interessante lavoro nel settore delle nuove tecnologie, proiettandomi nel mondo dell’informatica ai suoi albori.
Prossimo alla laurea lascio l’Olivetti per entrare in una società di consulenza.
È il 1975 e né io né l’Azienda siamo più quelli di tredici anni prima, quando avevo iniziato a lavorare.
Il ’68 che avevo amato, quel periodo scanzonato, ironico, colorato, gioioso e libertario pare tremendamente lontano, schiacciato e annichilito sotto la cappa lugubre degli infausti “anni di piombo”.
L’immaginazione non è andata al potere ma forse qualche traccia in noi l’ha lasciata.