Ben Mosley (UK, 1981 - ) - Paralympic Spirit
Sport e disabilità
di Marco Filippazzi
Il gravissimo incidente occorso pochi mesi fa ad Alex Zanardi ha sollevato l’interesse e l’attenzione nei confronti di una persona che ha fatto della sua disabilità una bandiera per dimostrare che una invalidità anche pesante (la perdita delle gambe) pone limiti fisici ma non ferma la voglia e la capacità di reagire.
Artisti, scienziati, musicisti hanno dato prova di grande forza interiore, stimolati dal desiderio di superare i limiti delle loro disabilità. Tra i più famosi:
Ludwig van Beethoven continuò a comporre anche quando divenne sordo; Frida Kahlo creò uno stile inconfondibile come pittrice; Louis Braille, cieco, inventò il metodo di lettura per ciechi; Django Reinhardt, musicista e chitarrista inconfondibile, poteva suonare pur avendo solo 3 dita; Helen Keller, sordocieca, imparò a leggere da una insegnante ipovedente, con un alfabeto tattile che l’aiutò a comunicare, diventando una celebrità mondiale; Franklin D. Roosevelt, paraplegico, fu presidente USA per 4 mandati; Stephen Hawking, sclerosi laterale amiotrofica (malattia muscolare progressiva), fu scienziato di fama mondiale e grande divulgatore.
Anche altri, meno noti, hanno saputo superare le limitazioni imposte da una disabilità, diventando un esempio per tutti; ma l’impatto maggiore sulla gente, soprattutto sui giovani, viene dai campioni dello sport grazie alla risonanza sulla stampa e i media. Chi non ha mai sentito parlare di Bebe Vio, Alex Zanardi, di nuotatori plurimedagliati come Federico Morlacchi, Simone Barlaam, Manuel Bortuzzo?
Ma come è nata l’idea di utilizzare l’attività sportiva come trattamento riabilitativo con portatori di handicap?
Ludwig Guttmann, un medico tedesco rifugiatosi in Gran Bretagna per sfuggire alle persecuzioni razziali in Germania, fu il primo a sperimentare nel 1944 l’attività sportiva come trattamento riabilitativo con portatori di handicap (prevalentemente feriti di guerra, con amputazioni o lesioni al midollo, costretti a vivere sulla sedia a rotelle).
Egli notò che l’utilizzo di sport come tiro con l’arco, il gioco delle bocce e il basket in carrozzina aiutava il disabile a migliorare l’equilibrio del corpo e il controllo della carrozzina.
Nel luglio 1948 venne inaugurata a Londra la prima edizione dei Giochi di Stoke Mandeville (dal nome della cittadina sede della struttura riabilitativa di Guttmann), riservata agli atleti in carrozzina. Quattro anni dopo nascevano, sempre nel Regno Unito, i primi “Giochi internazionali per disabili”. Da allora il dottor Guttmann viene considerato il padre dei giochi paralimpici, come De Coubertin è considerato il padre dei giochi olimpici moderni.
Il termine Paralympic (paraplegico+olimpico) fu coniato da un paziente paraplegico. Il prefisso “para” stava, inizialmente, per “paraplegici” (i primi a sperimentare questo tipo di terapia); ora invece significa “parallelo”, a sottolineare che lo sport praticato da atleti, con e senza disabilità, ha lo stesso valore, la stessa importanza, e richiede lo stesso spirito di sacrificio e la stessa costanza.
I Giochi del 1948 ebbero grande risonanza e dimostrarono che lo sport è un metodo diretto, attivo, in cui si è protagonisti in prima persona, che permette di conoscere i propri limiti, ma anche le proprie capacità, di socializzare, superare le proprie paure e favorire una migliore integrazione, nonostante le difficoltà.
La disabilità riguarda tutti: ciascuno di noi può essere temporaneamente disabile, ad esempio per un braccio o una gamba rotta …
Classificazione
Per consentire a tutti gli atleti disabili di gareggiare alla pari è stato creato il metodo delle classificazioni. Un team di specialisti (ortopedici, neurologi, ecc.) verifica non solo i limiti reali dell’atleta disabile, ma soprattutto le sue capacità residue, perché nello sport paralimpico non si gareggia per le comuni capacità perse, bensì per le comuni capacità e possibilità residue.
Le principali capacità che vengono verificate sono:
1) la FORZA muscolare;
2) la RESISTENZA, cioè quanto a lungo l’atleta riesce a mantenere una prestazione o una contrazione muscolare;
3) la VELOCITA’: quanto velocemente l’atleta riesce a contrarre/rilassare un muscolo o a ripetere un esercizio;
4) l’AUTONOMIA: quanto l’atleta è autonomo (se fa tutto da solo, con o senza ausili, o se ha bisogno dell’aiuto di un’altra persona).
Si gareggia per categorie e tempi simili.
Nel nuoto le categorie vanno da S1 a S14 (S sta per “swimming). Più il numero è basso, maggiori sono le difficoltà della persona. Da S1 a S3 sono atleti che fuori dall’acqua si muovono in carrozzina e hanno gravi forme di spasticità a braccia e/o gambe; S4 ed S5 comprendono atleti con la spina bifida, ma con maggior forza nelle braccia e migliore scivolamento sull’acqua.
Dalla categoria S6 sono in grado di camminare; S9 e 10 hanno amputazioni o disabilità muscolari più lievi; da S11 a 13 hanno disabilità visive; S14 sono le disabilità mentali.
Anche per l’atletica ci sono classificazioni specifiche (“sitting” o “standing” a seconda che l’atleta debba gareggiare seduto o possa farlo stando in piedi). Per le amputazioni si distingue se a mancare è un arto superiore o inferiore, se sopra o sotto il gomito/ginocchio: ad esempio, un atleta con due braccia e una gamba sola ha una spinta maggiore di un atleta con due gambe ma un braccio solo.
Per le squadre (ad esempio basket in carrozzina), ogni atleta ha un punteggio a seconda del tipo di disabilità e capacità rimanenti, e la somma dei punteggi singoli non deve superare un totale fissato dalla Federazione.
Il logo dei Giochi Paralimpici è composto da tre “virgole”, una rossa, una blu, una verde, i colori più comuni a tutte le bandiere del mondo: un segno di unione e condivisione.
Il motto è “Spirit in movement” (spirito in movimento): la volontà degli atleti di non fermarsi alle prime difficoltà, ma di impegnarsi per raggiungere livelli di eccellenza secondo le capacità di ciascuno.
Special Olympics è il movimento sportivo per atleti con difficoltà intellettive e sindrome di Down. Il suo motto: “Che io possa vincere, ma se non riuscissi, che io possa tentare con tutte le mie forze”.
Oggi si salvano vite, ma ci si dimentica che è altrettanto importante farle vivere: lo sport può aprire la via al distacco dalla famiglia, a una migliore autonomia e farci sentire parte integrante della società.
Stare insieme ad altre persone, (disabili e non) è la migliore terapia per maturare e rendersi conto che nella disabilità non bisogna soffermarsi su quello che si perde ma su quello che resta e si può fare per essere parte a pieno titolo della società. Lo sport paralimpico aiuta a far diventare normale una situazione (la disabilità), che in anni non lontani era considerata (e compatita) solo per le sue difficoltà.
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“Non conta quanto è difficile la sfida: conta l’energia che ci metti”
( Bebe Vio, medaglia d’oro olimpica fioretto)
“La nostra felicità più grande non sta nel non cadere mai, ma nel risollevarci sempre dopo una caduta” (Confucio)
“A volte un vincitore è semplicemente un sognatore che non ha mai mollato” (Nelson Mandela)
”C’è una crepa in ogni cosa: è da lì che entra la luce” (Leonard Cohen)
“L’unica disabilità è pensare di non farcela” (Rudy Garcia-Tolson, bi-amputato)
“Essere differente è normale, anche nello sport” (Vividown)