Aggiornato al 25/04/2024

Non sono d’accordo con quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo

Voltaire
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Giovanni Segantini (1858 - 1899) – L’angelo della vita - 1895

Riflessioni sulla madre: modelli autobiografici, storici, psicodinamici ed oltre…

 

Non è possibile essere una madre perfetta. Ma ci sono milioni di modi per essere una buona madre.
(Jill Churchill)

 

L’autobiografia

Dopo aver “riflettuto” in un altro mio lavoro per “Nel futuro” sulla figura del padre, inquadrandone i modelli storici, culturali e psicodinamici, ora tocca alla madre. Sono stata spinta in questo da una mia cara amica che mi ha raccontato di aver avuto un rapporto splendido ed intenso con sua madre, per cui la prima tentazione è stata quella di dirle di scriverlo lei, perché, specularmente a quello che io ho avuto con mio padre, credo sia più facile, quando le cose stanno in questi termini,  riuscire a “raccontare e raccontarsi”. Comunque, ci proverò. Partendo, appunto da me.
Quando morì mio padre, credevo non potesse esserci dolore più forte ed intenso. La nostra unione era unica: Lui, il “primo” uomo della mia vita era quello nella relazione con il quale prevalevano i silenzi. Ma non il silenzio come, semplicemente, “non detto”. I nostri silenzi erano densi di parole e di sguardi. Per ogni mia “marachella” di cui potevo anche non rendermi conto, il suo sguardo era punitivo pur nella sua dolcezza. Per ogni mio successo il suo sguardo valeva di più di mille “brava”.
Così, quando morì, mi sembrò di aver perso tutto, non solo chi mi aveva donato affetto, ed inculcato l’amore per la cultura, ma ogni mio punto di riferimento. Quando si ha la fortuna di avere un rapporto così esclusivo si è felici per sempre, perché anche quando lo si perde rimane dentro di noi non solo il ricordo, ma frammenti d’anima abbarbicati ai tuoi. Un’ anima fatta di due persone distinte e comunicanti in vita, fuse ed indissolubili dopo la morte. Ed è un’eredità pesante per chi viene dopo. Tutti o quasi gli uomini della mia vita hanno dovuto subire il confronto con mio padre e quasi nessuno è riuscito ad avvicinarsi.

Quando, dopo qualche anno, morì mia madre, sapevo che avrei sofferto, ma credevo meno. Il dolore più grande era già stato sperimentato, la perdita più atroce provata, l’equilibrio del “ricominciare” trovato. Il lavoro e la vita, nel frattempo, mi avevano condotto lontano, troppo lontano per poter tornare spesso a trovare quella donna ormai anziana ma sempre “terribile”.
La donna dei miei silenzi che non erano i silenzi paterni, parlanti, nostri, erano solo miei. I silenzi di una bambina che aveva una madre che, quando le venivano fatte delle domande, rispondeva al posto suo. Una bambina cresciuta timida e goffa, che doveva dimostrare, pur nella sua timidezza e tra un rossore sul viso e l’altro, di essere, comunque, la prima almeno nella classe, non importava se nella vita. Ecco, era questo il rapporto con mia madre.
Fatto anche di cose belle, per carità: non elemosinava certo carezze ed abbracci ma a volte era come se io fossi una sua proprietà. I figli vanno lasciati liberi di “volare” lontano. E, se io l’ho fatto, è stato perché ad un certo punto ho reciso il cordone. Io, non l’ostetrica prima, non mia madre, poi. Per questo quando poi toccò a lei la morte non credevo di poter soffrire così tanto.  Mi sbagliavo. Eccome se mi sbagliavo.
La morte di una madre, soprattutto se tale morte comporta la cristallizzazione di un “non detto”, porta via un pezzo di te, è come un’amputazione dell’anima, ma, a differenza di quella del corpo, la “sindrome dell’arto fantasma”, in cui provi all’inizio la sensazione che quell’arto ci sia ancora, nell’amputazione dell’anima, la vita è irrimediabilmente tranciata, sin da subito. E’ come se avvenisse l’esatto contrario: nell’arto fantasma ti abitui poco per volta all’assenza, nell’amputazione dell’anima, l’assenza precoce non simula la presenza. Solo dopo, ma molto dopo, te ne fai una ragione ed impari a “camminarci senza”.

 

Modelli storici e psicodinamici

Nelle pagine del libro della storia dell’umanità la femmina era considerata “proprietà” del maschio, che, dal canto suo, ha sempre tollerato questa “gelosia” perché significava sicurezza e cibo, per lei ed i suoi figli, dunque necessaria alla sopravvivenza (1).

La cultura patriarcale è quella che relega la donna al ruolo di madre, essere madre è il ruolo ineluttabile dell’essere donna: non può esserci una donna senza che essa non sia una madre, ma “solo la figura della madre poteva sancire una versione socialmente accettabile, benefica, positiva, salutare, generativa della femminilità” (2).

Tale tipo di cultura è stato superato da una maternità vissuta come una scelta e non come un modo di affermare la propria femminilità. Se l’uomo nasce con, e cresce su un punto fermo e gia presente e ben identificabile, il fallo, simbolo della mascolinità, la femminilità non ha un oggetto specifico con cui affermarsi nel mondo, la sua crescita deve proseguire giorno per giorno, ma non può basarsi né esclusivamente sulla maternità, né sulla propria affermazione sociale.

Gli studi etologici sul padre (3) condotti su alcune famiglie di pesci e di invertebrati, hanno messo in evidenza un tipo di famiglia “paterna”, dove è il maschio adulto a prendersi cura della prole.

Comunque, i comportamenti materni degli animali sono più stabili, meno influenzati dalle circostanze, ma laddove il padre ha contatti precoci con i piccoli alla nascita, il loro sviluppo sarebbe più precoce.

La presenza del padre favorisce la differenziazione dei comportamenti sessuali. Il padre facilita anche l’inserimento sociale dei piccoli e incoraggia l’acquisizione delle competenze motorie essenziali per l’interazione sociale.

Nella storia e nella cultura comuni, l’enfasi data alla diade madre-bambino, spesso confusi in un impasto fusionale, appare quasi una risposta che tende a semplificare l’incertezza dei sentimenti per l’infanzia, e quanto questi possano essere influenzati dalle mutevoli condizioni storiche.

Gestazione e nascita sono “mistero”, “trascendenza” che si materializza, che si accoglie (4).

Nell’arte appaiono alcune raffigurazioni del “mistero della gravidanza”, come, ad esempio, in Pier della Francesca che pone il padre sempre ad un lato, come figura marginale: è raro vedere grandezza nelle sue rappresentazioni.

In una coppia l’evento della gravidanza è fra tutti il momento di maggiore impatto per l’uomo con la ritmica, ma misteriosa processualità della natura femminile, dove ciò che la donna sente, l’uomo può solo, eventualmente, constatare. Con l’inizio della gestazione, infatti, emerge la sottile ma fondamentale differenza tra l’universo senso-percettivo femminile e quello maschile, il primo caratterizzato da una sensorialità prevalentemente cenestesica, intima e diretta, il secondo da una sensorialità soprattutto visiva, uditiva, tattile, ma imprescindibile dalla presenza della donna in attesa.

In questo senso, il primo padre che ogni bimbo conosce è quello che gli viene trasmesso e modulato dalla madre e tale immagine è il frutto della qualità del rapporto che lei ha con se stessa, a sua volta imprescindibile dal proprio partner. 

La Klein, nella Psicoanalisi dei bambini (5) affermò che il padre è innanzitutto un oggetto della madre, è da lei incorporato ed è simbolizzato come pene nel ventre materno.

Madre e bambino sono un’unità corporea: nella donna gravida cambia la relazione con se stessa e con il partner, concentrandosi su di sé e sul bambino che le cresce dentro e, nell’attesa, sviluppa gioie, speranze, fantasie, la “preoccupazione primaria”. (6)

La funzione materna si fonda su basi biologiche precise e che coinvolgono madre e bambino in una vicinanza corporea  caratteristica del loro rapporto.

Freud (7)  identifica il volto della madre per il suo bambino come la prima ( ed ultima) possibilità di salvezza. La parola “mamma” è la prima che il bambino riesce a pronunciare ma è anche l’ultima che sussurra il morente: inizio e fine di vita, àncora verso la vita ed àncora che possa strappare dalla morte.

La madre è, dunque, quella figura di salvezza e di perdono. Mi viene in mente la “Parabola del figliol prodigo”: nella tradizione biblica era stato un padre a far uccidere il vitello grasso per festeggiare il ritorno del figlio, ma se, al suo posto, ci fosse stata una madre, cosa sarebbe stata capace di donare in premio al figlio? Forse avrebbe potuto sacrificare se stessa.

Con un volo pindarico, ripenso alle “depressioni post-partum”, che noi psichiatri definiamo come le incapacità materne di prendersi cura dei propri figli, di accudirli, di esserci per loro come dovrebbero. Ripenso, parallelamente, alla capacità di una madre di “deprimersi”, a partire dalla lacerazione per la perdita, che segnala la fine di una continuità dei corpi, fino alla impotenza avvertita per un incerto futuro del figlio, soprattutto ai nostri giorni.

Dunque, non solo incapacità o timore dell’incapacità di prendersene cura nell’oggi, ma possibile infermità anche per il domani. La maternità è la più alta forma di attesa, attesa di dare, il capezzolo, il latte, il miele.  “La madre del seno è la madre dell’avere, è la madre che non opera con quello che le manca, ma con quello che possiede” (8). Ma la madre non è solo quella del seno, del dono, del latte, dell’esserci. La madre è anche quella che sa regalare la sua assenza, perché divenga presenza, che riesce ad abituare il bambino al suo non esserci: una madre non può e non deve esserci sempre. Deve saper riempire il vuoto lasciato dalla sua assenza, con una costante “presenza”.  E’ la madre del “segno” (9), quella in grado di donare la propria mancanza, che sa trasformare la propria assenza in dono d’amore. Amare è donare all’altro quello che non si ha. Amare è, durante la gestazione, quando la madre non espelle il figlio riconosciuto come un intruso dalle sue difese immunitarie, ma che arriva a riconoscere  ed accogliere l’estraneo come parte di sé. Per questo diventare davvero “madre” implica una evoluzione non solo del proprio sistema immunitario, ma anche una evoluzione e separazione dalla propria madre. E’ difficile che una madre ancora troppo “figlia” possa essere una buona madre.

Solo in tempi relativamente recenti la ricerca psicoanalitica ha riconosciuto l’importanza della figura del padre in relazione alle fasi precoci dell’interazione madre-bambino.

Winnicott(10) sostiene che il padre “diventa l’agente protettivo che libera la madre in modo che possa dedicarsi tutta al bambino” e che ad ella “impegnata dalla gravidanza, dal parto e dall’allattamento…sia risparmiato di doversi volgere all’esterno per far fronte alle cose circostanti, in un momento in cui ha tanto bisogno di volgersi verso l’interno”.

Nato il bambino, rimane forte l’unità simbiotica, diadica, e la madre è la figura primaria nella relazione oggettuale del piccolo, con la quale egli ha un rapporto di tipo “indifferenziato”, non solo durante la gravidanza ma anche nelle fasi successive di “dipendenza”.

A partire da questa indifferenziazione si svolgono i movimenti di affermazione del Sé, tendenti a superare la “con-fusione”: gradualmente avviene la separazione-individuazione, nel bambino si fondono esperienze positive e negative con la madre, si mescolano impulsi affettivi ed aggressivi, nascono le angosce che sfociano nella cosiddetta “crisi dell’ottavo mese” (11).

In questa fase l’unità simbiotica si allenta, ed appare essenziale la presenza maschile, che facilita il processo di separazione-individuazione e l’adattamento al nuovo “codice cognitivo” offerto dal padre, in cui affettività e conoscenza si integrano (12).

La relazione con la madre acquista una nuova dimensione quando la fusione cessa, ma per il bambino ( oltre il confine del primo anno) la madre conserva una qualità soggettiva, perché la sua funzione consiste nell’essere disponibile per un ritorno allo stadio di fusione nei momenti in cui il bambino ne ha bisogno.

Il padre, dunque, nasce come “oggetto” intero, sin dall’inizio distinto e separato dal Sé del bambino, favorisce l’individuazione e stabilizza l’identità.

A differenza infatti della madre (o del seno) che il bambino vive dapprima come parti del Sé, il padre rappresenta un “primo oggetto d’amore collocato fuori dallo spazio del suo originario rapporto con la madre” e verso il quale il bambino non mette in opera ricerche mirate (il capezzolo/seno) ma oscillazioni tra scariche di eccitazione e momenti di quiete.

La comunicazione affianca e sostiene una ricerca dell’oggetto non tanto legata alla soddisfazione dei bisogni di accudimento, quanto a quelli dell’incontro esplorativo con l’oggetto.

Se la madre rappresenta l’oceano in cui il bambino si immerge (13),  il padre rappresenta le norme, i valori sociali, l’autorità, l’elemento di raccordo principale tra norme familiari e sociali o, come voleva Winnicott (14), se alla madre appartiene “la stabilità della casa”, al padre appartiene “la vivacità della strada”.

Secondo Fromm (15), l’amore materno presenta due aspetti, quello di tutte le cure necessarie perché il bambino viva e cresca e quello di infondergli l’amore per la vita, la gioia di vivere ( i “biblici” latte e miele). Molte sono le madri in grado di dare il latte, poche quelle che sanno dare anche il miele, perché il latte è nutrimento, necessario per la vita, ma è il miele quello intriso di felicità: solo una madre felice sa trasmettere felicità al proprio figlio. Un fattore importante che sostiene l’amore materno è il bisogno di “trascendenza”: la madre trascende se stessa nell’amore per il proprio bambino. Il compito materno più difficile è forse quello di accettare la vera “separazione”: che, cioè, il figlio cresca e si separi da lei. Continuare ad amarlo ed a sostenerlo, nonostante, anzi,  proprio attraverso questa separazione, che rappresenta il tratto più “creativo”, adulto, della relazione madre-figlio, in quanto comporta la prevalenza del dare sul ricevere. Un amore materno non possessivo predispone i figli ad una sana capacità di amare, un amore possessivo al desiderio di possedere completamente il proprio oggetto d’amore e a non riuscire a separarsene.

Un “trauma”, dunque, che innesca la ripetizione. L’amore materno è un dono, una grazia, non una conquista, secondo Fromm. Il figlio nulla deve fare per meritarlo. Ed è un amore naturale, anche se decisamente più facile ed immediato, a mio avviso, quando i figli nascono “belli” e sani, forse naturale ma non così immediato allorquando i figli sono affetti da patologie, soprattutto invalidanti. E lì va “costruito”. Forse può essere individuata nella difficoltà o timore di evanescenza di questa ricerca, la scelta di rinunciare ad un figlio che si sa destinato ad una malattia, sin da prima della nascita, piuttosto che nell’egoismo di alcune madri (o coppie genitoriali) di sentirsi liberi da problemi. 

A volte, ancora, purtroppo, anche avere figli sani può essere vissuto come un handicap da parte della donna che vuole affermarsi socialmente.

 

Altri ritratti di madri

Struggenti il ritratto della madre di Cecilia nei Promessi Sposi, di Maruzza la Longa ne I Malavoglia, di Fantine, la madre di Cosette, ne I Miserabili, della madre di Ombretta in Piccolo mondo antico.

La figura della madre ha ispirato scrittori e artisti di tutti i tempi, pittori, scrittori, musicisti, commediografi…

L’arte in generale ha sempre tributato un ruolo centrale alla figura della mamma, così centrale che moltissimi artisti hanno provato a raccontarla, rappresentarla, musicarla, infondendo nelle loro opere tutta la dolcezza, l’amore e la grandezza che il soggetto stesso ha ispirato loro.

E così, a seconda dei casi, la Madre è stata incensata, odiata, considerata protettrice, santa, od, al contrario, omicida, sensuale e “sessuale”.

Per alcuni scrittori la madre è fonte di ispirazione.

Per altri, è spesso vista come minaccia, una specie di mostro dalle dimensioni mistiche e mitiche, e questa mutazione non è solo in base al contesto storico-culturale in cui gli artisti hanno vissuto ed operato, ma anche in base alla loro specifica individualità culturale e caratteriale. Raccontare come i poeti e gli scrittori hanno “raccontato” la “Madre” è praticamente impossibile.

Andromaca, moglie di Ettore e madre di Astianatte, fu, forse, la madre più triste e infelice, il simbolo di maternità violata, della madre, cioè, che si vide uccidere il figlio sotto gli occhi e nel modo più barbaro, secondo quanto narra la leggenda (da Sofocle a Euripide, passando attraverso Racine e Chateaubriand, in molti hanno scritto di lei e del suo dolore immenso).

Coraggiosa, invece, la figura di Cornelia, madre dei Gracchi che, rimasta vedova in tenera età, rifiutò di sposare Tolomeo Fiscone, re d’Egitto, per consacrarsi alla crescita e all’educazione dei figli.

Figure di madri sono presenti nella poesia epica e nella tragedia classica, come

Achille e la madre Teti.
Nel primo libro dell’Iliade l’eroe, adirato con Agamennone che gli ha portato via la schiava Briseide, si reca in riva al mare per sfogare la sua rabbia e il suo dolore. Invoca la madre e dalle acque emerge la ninfa, che siede accanto al figlio, lo accarezza e lo conforta. Il rapporto tra Teti e il figlio è reso ancora più triste dal fatto che entrambi sanno che Achille è destinato a morte prematura.
Teti non è una madre qualsiasi: è una divinità, che gode di molto credito presso Zeus e, ogni volta che il figlio è in difficoltà, va in suo soccorso recandosi dal re degli dei, perché intervenga. Nonostante sia una dea, soffre come qualsiasi madre per la consapevolezza della morte non lontana del figlio.

Una madre “umana” è, invece, quella che incontriamo nel IX dell’Eneide: la madre di Eurialo, il giovane troiano che, nel corso della guerra che si combatte sul suolo italico tra Troiani e Latini, incontra la morte, insieme all’amico Niso, durante una sortita notturna nel campo dei Rutuli; dopo aver compiuto una strage di nemici, i due s’imbattono in una squadra di cavalieri latini, che, cacciandoli tra i boschi, li scovano, li uccidono, fanno scempio dei loro cadaveri, issano le loro teste su delle picche e vanno sotto le mura del campo troiano ad esibirle. La notizia giunge alla madre di Eurialo. La donna compiange la sorte del figlio morto in terra straniera e la propria sorte di madre, rimasta sola, che non ha potuto accompagnare il figlio nella morte, chiudergli gli occhi, lavargli le ferite, coprirlo con il mantello da lei tessuto e dargli sepoltura.

Un’altra figura di madre, che, pure umana, appartiene alla sfera del divino è la Vergine Maria, a cui Dante, attraverso S. Bernardo, indirizza la preghiera che si legge nel canto XXXIII del Paradiso: un elogio della Madonna, la donna che ha perfezionato a tal punto le sue qualità umane da essere prescelta da Dio come sua madre; per questo la Madonna è la protettrice dell’umanità e la mediatrice della grazia divina, cioè il tramite per eccellenza tra l’uomo e Dio.

Nella poesia del passato, epica o drammatica, dunque, la figura materna era esemplata su un modello “universale”, fissa nel suo ruolo: vive in funzione del figlio, lo protegge come fa Teti con Achille o, nell’Eneide, Venere con Enea; è disposta ad annullarsi del tutto per lui tanto che, se il figlio muore, come accade alla madre di Eurialo, perde ogni scopo di vita.

Virgilio, nelle Bucoliche, dà alla madre un ruolo di primaria importanza nella vita dell’uomo che è esortato a sorridere a colei che tanto ha sofferto per metterlo alla luce:

"Incipe, parve puer, risu cognoscere matrem,

matri longa decem tulerunt fastidia menses"...

"Comincia, o piccolo fanciullo, a riconoscere col sorriso la madre:

alla madre nove mesi arrecarono lunghi travagli"...

Raramente nella letteratura classica troviamo madri feroci e spietate: suscita scandalo la figura di Medea che, accecata dalla gelosia per la rivale e dal desiderio di vendetta nei confronti di Giasone che l’ha tradita, arriva ad uccidere i figli avuti da lui.

Per tutto il Medioevo e fino al Seicento la figura della madre si confonde ed è rappresentata con l’immagine sacra della Madonna, madre di tutte le madri.

Tra l’Otto e il Novecento cambia, invece, il ruolo della donna.
Innanzitutto per effetto di una mutazione socio-culturale, la figura femminile, e quindi anche quella materna, esce lentamente dal cono d’ombra che l’aveva avvolta per secoli e acquista una fisionomia più reale.

Cambia anche il rapporto tra l’autore e il soggetto: la madre diventa colei alla quale viene dedicata una poesia da parte del “figlio” poeta che si rivolge a lei per lo più in modo diretto, con il “tu”; acquista, perciò, una sua individualità e caratteristiche intrinseche; le madri diventano più concrete, più vere, anche se conservano alcuni attributi del ruolo tradizionale.

Il poeta rifiuta il ruolo di vate, che appartiene ancora a Carducci e anche a poeti moderni come D’Annunzio e in parte a Pascoli, per rifugiarsi nei temi della quotidianità, nella dimensione del privato; la poesia non sembra più destinata ad un uso sociale; i toni diventano più intimi.

Una poesia dedicata alla madre costituisce la messa a fuoco di un rapporto; molte di queste liriche sono dedicate ad una madre ormai morta o vecchia o lontana; ecco perché acquistano il senso di un “bilancio”quello che il distacco impone e sollevano i temi della lontananza, del rimpianto, della nostalgia, del rimorso.
Nel ricco repertorio di poesie dedicate alla madre compaiono i testi di autori,  come, tra altri,  U. Saba (1883-1957), con la sua “Preghiera alla madre” del 1929 : i temi sono attinti alla quotidianità; l’attenzione è rivolta all’interiorità, ma non per questo viene reciso il legame con la realtà esterna; la sostanza della sua poesia ha carattere autobiografico e affonda le radici nelle traumatiche esperienze infantili, chiudendosi con un anelito alla morte, ed il desiderio di raggiungere la madre morta.

La madre di Umberto era una donna inasprita dalle difficoltà della vita, che assunse una linea educativa piuttosto rigida. Le esperienze infantili, contrassegnate da abbandoni e separazioni, lo sfondo familiare attraversato da conflitti tra culture diverse, sono all’origine dei gravi disturbi psichici, che esplosero con crisi ricorrenti nella vita adulta del poeta. L’incontro con la Psicoanalisi fu fondamentale non solo per la vita, ma anche per l’opera di Saba e nella poesia dedicata alla madre si avverte molta della esperienza psicoanalitica dell’autore.

G. Ungaretti (1888-1970) scrive “La madre” nel 1930, un tributo d’affetto alla madre morta da poco e, al tempo stesso, una preghiera rivolta a Dio tramite lei: il poeta immagina che, al momento della propria morte, la madre, che è già in cielo e depositaria di un amore che va oltre la morte, lo guiderà presso Dio.

"E il cuore quando d’un ultimo battito

avrà fatto cadere il muro d’ombra

per condurmi, Madre, sino al Signore,

come una volta mi darai la mano"...

 S. Quasimodo (1901-1968), passando dalle “parole” alle “cose”, scrisse “Lettera alla madre” nel1949. Dal Nord, in cui risiede, il poeta scrive alla madre anziana e malata, che vive lontano da lui. La lettera assume la forma di un colloquio e attorno alla figura della madre si intrecciano i ricordi di un passato ormai lontano: la partenza da casa, avvenuta in età molto giovanile a causa dei disagi economici, su cui si ricompone il paesaggio siciliano, con i suoi elementi inconfondibili, la stazione di Licata dalla quale partì, a cui la distanza spaziale e temporale conferisce una struggente nostalgia, mitigata solo leggermente dalla “ironia mite”, che lei gli ha trasmesso e che lo ha protetto dalle sofferenze della vita.
La lettera si chiude con un’invocazione alla morte perché non tocchi l’orologio di cucina a fiori che ha scandito tutte le ore dell’infanzia del poeta; egli prega la morte “gentile”, “pietosa” di risparmiare la madre, anche se è ben consapevole dell’inutilità della sua preghiera.

"Mater dulcissima, ora scendono le nebbie,

il Naviglio urta confusamente sulle dighe,

gli alberi si gonfiano d'acqua, bruciano di neve"...

Completamente diversa, quasi in opposizione a quella di Ungaretti, è la poesia che Montale (1896-1981), dedica alla madre. Anche per Montale, vincitore del premio Nobel nel 1975, riesce difficile trovare una definizione, una formula cioè che definisca un’esperienza complessa come la sua ed è difficile stabilirne la collocazione precisa nel panorama della ricca produzione novecentesca. Pur essendo riconosciuto tra i padri dell’Ermetismo, non è riconducibile in senso stretto a tale corrente: nella sua poesia la realtà non perde i contorni, la razionalità non viene meno. La poesia che leggeremo, tuttavia, è tale che, nonostante qualche punto non risolto, se ne può cogliere il significato fondamentale.

In “A mia madre” del 1943, il poeta si rivolge alla madre, seppellita sul promontorio ligure del Mesco, e riprendendo con lei il colloquio interrotto dalla morte, la prega di non voler rinunciare, alle cure dei vivi: il corpo, per il poeta, non è una parvenza; è, invece, l’unica realtà di cui l’uomo disponga ed è il solo tramite a cui sia affidata la memoria dei morti presso chi resta. Egli non crede ad altre forme di sopravvivenza che non siano quelle del ricordo della fisionomia individuale, dei gesti concreti e degli atteggiamenti tipici che rendevano inconfondibili le persone care quand’erano in vita. Se viene meno la forza delle impressioni concrete, si perde tutto.
G. Caproni (1912 – 1990), la cui poesia si caratterizza per la semplicità di linguaggio e per l’adesione alla quotidianità, scrisse “Preghiera” nel 1958, tratta dalla raccolta “Il seme del piangere”, che il poeta ha dedicato alla memoria della madre. Egli immagina di parlare alla propria anima come a un’entità staccata dal corpo, rivolgendole una preghiera: le chiede di andare a Livorno, sua città natale, a cercare la madre, Anna, a vedere se è ancora tra i vivi: vi è appena stato e non l’ha trovata; per questo, deluso, si rivolge alla propria anima, che ha, certo, una memoria migliore della sua.
In realtà, al momento della richiesta, la donna è già morta, dunque una poesia che tenta di violare le leggi del tempo, le leggi cioè della vita e della morte, come solo può accadere nel miracolo o nel sogno.

Dunque, salvo poche eccezioni, la figura materna non era molto trattata nelle letterature classica, medioevale e romantica, visto che gli autori e i letterati non potevano ancora conferirle quella rilevanza psicoanalitica che poi l’avrebbe caratterizzata solo con l’avvento della filosofia di Freud. Dal ‘900 in poi il tema della madre assume invece un’importanza fondamentale, sia per quanto riguarda la personalità della stessa che gli spesso conflittuali e profondi rapporti con i figli. Molti letterati decideranno di scrivere opere, saggi o lettere alla propria madre, specialmente dopo la sua morte.

Una di costoro è la famosa scrittrice Simon De Beauvoir che nel 1964 compone Une mort très douce. (16). La scrittura della De Beauvoir è ancora oggi ritenuta una delle più stilisticamente ricercate, ed è proprio con il suo stile inconfondibile che la romanziera racconta gli ultimi tre mesi di vita della madre e ne rievoca la figura da una prospettiva freudiana, analizzando aspetti come la rivalità, i meccanismi psicologici ed emotivi, le relazioni con i figli e facendo riferimento al mito di Edipo. E’ in questa prospettiva che la scrittrice dichiara che la sua biografia deve essere letta come “la storia di una conversione interiore” ed è proprio in questo frangente che si manifesta il richiamo alle Confessioni di S. Agostino. L’opera agostiniana è forse l’unica eccezione dell’antichità in cui si tratta questa tematica (precisamente nella seconda parte del nono libro) e sarà presa come modello dalla De Beauvoir. La differenza sostanziale tra le due opere è che la scrittrice francese concepisce la conversione come una sorta di allontanamento dalla fede, un cammino alla rovescia. Per Simon De Beauvoir la madre ha sempre rappresentato la via spirituale, contrariamente alla via intellettuale personificata dal padre, ed è sempre stata quella figura impositiva, che abituava i propri figli alla preghiera e alla fede.

La madre è, dunque,  il passato da cui è difficile staccarsi. Un rapporto che esclude qualsiasi altra presenza. E’ colei che dà coraggio e conforto nei momenti di pianto e dolore.

Ma quanti di noi hanno o hanno avuto la forza di ringraziare la madre per ciò che ci dà, ci ha dato, per ciò che ha saputo comunicarci, per i sorrisi che, spesso, ci ha donato, pur tra le lacrime? Non siamo, forse, noi figli, pronti più a puntare il dito che a tendere la mano?

 

Bibliografia

 

  1. Pasini W, Gelosia L’altra faccia dell’amore, Arnoldo Mondatori Editore S.p.A., Milano 2003
  2. Recalcati M, Le mani della madre, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano 2015
  3. Nordis S, Piazza G, Stefanini P, in Diventar Padri. La famiglia che si estende, i suoi simboli, il pediatra. Franco Angeli, Milano, 1983
  4. Bimbi A, a cura di, La funzione paterna nella formazione dell’Io, Edizioni del Cerro, Pisa, 1993
  5. Klein M, in Scritti 1921-1958, Boringhieri, Torino, 1978
  6. Winnicott D W The maturational processes and the facilitating environment N. Y. International Universities Press 1965
  7. Freud S, Progetto di una psicologia, in Opere, a cura di C.L. Musatti, Boringhieri, Torino 1982, vol.II, p. 223
  8. Recalcati M, op. cit.
  9. Spitz RA, il primo anno di vita del bambino, Giunti, Firenze 2009
  10. Winnicott DW, Op. cit.
  11. Spitz R, Relevancy of Direct Infant observation, Psychoanalytic Study of the Child, 1950
  12. Fornari F. In Psicoterapia Psicoanalitica, SIPP, Anno VI, Num. 2, Servizi Tipografici Caravaggio, Luglio-Dicembre 1999
  13. Fromm E, L’arte d’amare, Il Saggiatore, Milano 1963
  14. Winnicott D W, op. cit.
  15. Fromm E Op. cit.
  16. De Beauvoir, Una morte dolcissima, Einaudi, Torino 1966

 

 

Inserito il:08/02/2016 10:43:34
Ultimo aggiornamento:22/02/2016 12:38:51
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