I coloni in Israele
di Vincenzo Rampolla
Un piccolo gruppo di ebrei devoti, coraggiosi e innamorati della terra d’Israele, affitta poche stanze dell’hotel A-Naher Al-Khaled nel centro di Hebron per celebrare con le famiglie la Pasqua ebraica del ‘68. Al governo laburista di Levi Eshkol la cosa non è gradita, ma chiude gli occhi e si gode la strepitosa vittoria del giugno ‘67: ordine tassativo di non toccare i territori occupati sottratti a Siria Giordania e Egitto (esclusa Gerusalemme Est, subito annessa), per poterli ridare immacolati agli arabi, in cambio della pace e del pieno riconoscimento di Israele. Il veto arabo rompe l’incanto.
Le trattative vanno per le lunghe, con il neonato OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) che parte in quarta con attentati conditi da violenti slogan. Non manca l’euforia della vittoria e il virus molto allettante di colonizzare la terra, tutto sommato patrimonio del primo sionismo, quello delle ondate migratorie degli inizi ‘900.
Irrompe in scena una trasformazione radicale nell’impronta religiosa dei nuovi coloni. Guidati da rav Mosge Levinger, nato a Gerusalemme nel ’35, lontano un miglio dal sionismo socialista che predicava la necessità di lavorare la terra per creare l’ebreo nuovo capace di difendersi da solo, lui vuole a tutti i costi riportare gli ebrei ai lidi dei Regni d’Israele, quelli di prima della distruzione del Secondo Tempio e coltiva l’idea in chiave teologica. Agguanta l’occasione per realizzare l’Eretz Israel, la Terra d’Israele, a indicare la regione che sarebbe stata promessa ai discendenti di Abramo per volontà divina, secondo il Tanakh e la Bibbia: una missione voluta da Dio.
Caldeggiato da Levinger c’è anche un secondo piano che solletica nel profondo le sensibilità di leader politici e militari laburisti come Golda Meir, Ytzhak Rabin e Moshe Dayan: vuole portare i suoi adepti a Hebron, dove nel 1929 la popolazione palestinese aveva ucciso 69 ebrei, e nella vicina Kfar Etzion, località simbolo della guerra del 1948, dove l’esercito giordano e i palestinesi avevano trucidato 127 combattenti dell’Haganah (Difesa - struttura militare sionista durante il mandato britannico) e i membri dei kibbutz locali, già in fase di resa (v.foto, scontro esercito - coloni). Due massacri che nella modalità, non si scostano da ciò che si è visto il 7 ottobre per mano di Hamas.
Quella Pasqua ebraica nell’hotel è stata un passo storico, irreversibile. Si apre un lungo braccio di ferro con il Governo e alla fine Levinger abbandona Hebron e si sistema in una base militare sulla collina della città. Nasce l’insediamento di Kiriat Arba, che dal 1970 diventa il cuore pulsante dei coloni radicali. Qui, nel 1974 Levinger pone il quartier generale dei Gush Emunim (nucleo dei fedeli), con prima missione ebraicizzare la terra con ogni mezzo, a qualunque costo, anche con minacce, derubando, arrivando a far fuori i palestinesi. Quando si proclama che Dio lo vuole, non ci sono scuse nè compromessi.
Uno storico locale ha detto: La maledizione per il nostro popolo è stata la vittoria del 1967, quando il nazionalismo sionista laico, impadronendosi dei luoghi santi ebraici, si è sposato con la destra religiosa xenofoba. Per molti osservatori, l’assassinio di Ytzhak Rabin nel 1995, che voleva la pace in cambio della resa di parte delle terre, è frutto di quel connubio. Ma ritorniamo a quella “Pasqua della vittoria”. Dopo 10 anni, con il consolidamento di Kiryat Arba, nel 1979 rav Levinger decide che è giunto il momento di rientrare a Hebron. Base di partenza è un nucleo di donne, fedelissime devote, attorno cui si forma una cerchia di famiglie ebraiche. Occupano alcuni appartamenti.
Gli israeliani si danno da fare e inizia la moltiplicazione degli insediamenti, concentrandoli nelle aree con maggiore densità di palestinesi e attorno alle poche risorse naturali della zona, pur di confinare gli arabi verso le aree più aride e impedire ogni forma di rientro ai confini di prima della vittoria del ‘67. Con questi colpi di mano, la tensione con la popolazione palestinese si accende e lo scontro è destinato a sfociare in una conflittualità quotidiana, tuttora in vita. Nel 1988 una pietra colpisce l’auto con rav Levinger al volante.
Partono colpi d’arma da fuoco: un palestinese è ucciso, un altro ferito. Nel 1990 rav Levinger è condannato a 3 mesi di prigione, incriminato per disimpegno. Nel 1992, chiuse le sue pendenze giudiziarie, si presenta alle elezioni per il nuovo Parlamento a capo di Torah VeHaaretz, ma non ce la fa.
Nel 2005, con l’evacuazione di 21 insediamenti nella Striscia di Gaza, invita tutti coloro che condividono le sue idee a insediarsi in modo sempre più incisivo e massiccio in Cisgiordania. Muore nel 1980. La scomparsa di mio padre, all’alba dello Yom Yerushalaim, giorno in cui si festeggia la nascita di Gerusalemme, testimonia in modo simbolico il suo amore per la terra di Israele. Il suo spirito continuerà a vivere in noi. Parole del figlio Malachai, capo del Consiglio di Kiryat Arba.2023
Negli anni ‘70 la colonizzazione prosegue in modo semiclandestino sullo schema del Piano Allon, che prevedeva di annettere la valle del Giordano e la dorsale di Gerusalemme con Gush Etzion e altre terre. I coloni si intrufolano nelle basi militari, che poi lentamente diventano loro. La svolta avviene con la mapach, la rivoluzione alle elezioni del 1977, quando il Likud di Menachem Begin sale al Governo, prima volta, scalzando l’egemonia laburista. Da allora la colonizzazione del Golan e più ancora della Cisgiordania diventa prioritaria: in queste terre si deve investire il meglio.
L’idea di imporre ai popoli vicini il diritto di Tel Aviv a controllare interamente l’Israele biblica diviene centrale per la politica del Likud, il partito che oggi è alla guida del Paese con Benjamin Netanyahu.
Prima dell’Intifada, la grande rivolta palestinese scoppiata nel dicembre 1987, i coloni erano circa 200.000. Le violenze arabe non li hanno intimiditi, neppure l’avvio del lungo processo di pace tra Rabin e Yasser Arafat nel 1993. Sostenuti anche dalle organizzazioni ebraiche americane, i coloni continuano a moltiplicarsi, proprio in quelle terre che avrebbero dovuto costituire lo Stato palestinese.
Nel 2005 Ariel Sharon ritira da Gaza 15.000 coloni, lasciando trapelare che la Cisgiordania è tutta loro. I governi di Netanyahu li hanno sostenuti con ogni mezzo: oggi sembrano una presenza irreversibile. Secondo il censimento Onu del marzo 2023 sono circa 700.000 (di cui 230.000 a Gerusalemme Est) e le colonie in Cisgiordania sono 279; dei residenti nella regione circa un quarto sono legati alla fede religiosa, gli altri a incentivi economici del Governo (v.grafico con dati 2023).
In sintesi, dall’ascesa dei Governi di destra, in un decennio, i 40 insediamenti iniziali sono balzati a 210 e i coloni passati da 5.000 a 55.000; negli anni ‘90 i coloni erano saliti a 136.000 e oggi più di 630.000 israeliani risiedono negli insediamenti della Cisgiordania.
Dunque gli insediamenti sono frutto di un lungo processo di colonizzazione sostenuto da una politica imperialista e espansionista. Ammettiamolo. Le violenze e le violazioni dei diritti umani compiute nel processo coloniale, sempre attivo, sono state condannate anche dall’UNHCR (Alto Commissariato per i Diritti Umani dell’ONU) e vengono riconosciute come una delle ragioni che hanno portato alla radicalizzazione dei miliziani di Hamas, come sostenuto dal segretario Antonio Guterres. Inoltre, la loro creazione è totalmente illegale, in palese violazione delle disposizioni del diritto internazionale.
L’articolo 49 comma 6 della quarta Convenzione di Ginevra, ratificata da Israele, sancisce che la potenza occupante non potrà procedere alla deportazione o al trasferimento di una parte della sua popolazione civile nel territorio da essa occupato. A questa si aggiunge la Risoluzione 446 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU del 1979, che ne ha ammesso esplicitamente l’illegalità.
Ma chi vive in Cisgiordania? Altrimenti detta West Bank, è il territorio Cisgiordano a ovest del fiume Giordano, controllato dal principale avversario politico di Hamas, il partito Fatah, nato da fuoriusciti di Hamas stesso e teatro di decenni di violenze dei coloni israeliani sui palestinesi. La colonizzazione ha assunto diverse forme negli anni. I primi coloni furono i creatori dei kibbutz, forme associative volontarie basate sui valori di proprietà collettiva e eguaglianza, in regime di democrazia diretta e condivisione dei beni.
Poi sono arrivati i fondamentalisti Gush Emunim di Levinger e infine, tramite riforme e investimenti pubblici, il trasferimento nei territori occupati si evoluto in una maschera economicamente allettante: il Governo offre case, istruzione, servizi e agevolazioni fiscali a chiunque voglia diventare colono. Tali cambiamenti sono stati accompagnati da una nuova visione politica: salire a missione nazionale, per plasmare un'identità e una nazione esclusivamente israeliana e svilire la Palestina, relegarla a comunità arretrata e poco affidabile, sotto le ali di Israele. Politica che quadra con le visioni del sionismo. Gli insediamenti presso villaggi e città si sono sviluppati attorno alle uniche risorse naturali della Cisgiordania, le fonti d’acqua, le zone fertili e pochi giacimenti di gas, per monopolizzarle.
È opinione diffusa che il conflitto odierno, senza ricorrere alla preistoria, risalga al 1947, quando l’ONU ha votato, sotto l’impulso dell'Olocausto, per una spartizione del mandato della Palestina in 2 Stati: uno ebraico (Israele) e uno arabo (mai decollato). A maggio 1948, nasce lo Stato d’Israele e la lotta tra palestinesi e gruppi armati ebraici, alcuni considerati terroristici dai britannici, si intensifica e esplode scatenando una guerra con i paesi arabi confinanti: Egitto, Transgiordania, Siria, Iraq. Durante la guerra almeno 700.000 palestinesi sono espulsi o fuggono, pari a 85% della popolazione araba del territorio conquistato e occupato da Israele. Mai autorizzati a ritornare, i palestinesi chiamano nakba (catastrofe) l'esodo e lo sradicamento di gran parte della loro società. Degli arabi rimasti in Israele come cittadini, si conosce la situazione, da almeno due decenni soggetti a discriminazioni e privati di numerosi diritti civili fondamentali.
40 anni dopo, il 15 novembre 1988, nasce lo Stato di Palestina. È uno Stato a riconoscimento limitato da parte di 138 dei 193 Stati membri dell’ONU e osservatore permanente presso l’ONU, senza diritto di voto. Occupato da Israele, reclama la sovranità su Cisgiordania e striscia di Gaza e designa capitale Gerusalemme Est. In realtà è uno Stato che non esiste, fondato su rivendicazioni e illusori riconoscimenti. E in Cisgiordania, chi comanda?
Nel 1959 in Kuwait, un certo Yasser Arafat, con 20 attivisti palestinesi, dà vita a al-Fatah, organizzazione che diventerà il nucleo della lotta armata contro Israele. Inserita nella Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), nel 1994, con gli accordi di Oslo, controlla la neonata Autorità Nazionale Palestinese (ANP), unica istituzione governativa palestinese riconosciuta internazionalmente con sede nella West Bank destinata a governare i territori palestinesi a Gaza e Cisgiordania. Arafat è stato il primo Presidente. Morto nel 2004, gli è succeduto Mahmoud Abbas (detto Abu Mazen), oggi 87enne, ambigua figura di riferimento per i palestinesi nei rapporti tra Cisgiordania e Israele e unanimemente considerato inadatto al ruolo.
Attualmente è Presidente di OLP, di ANP e dello Stato di Palestina. Pur essendo il mandato di Abu Mazen scaduto il 15 gennaio 2009, è sempre in carica, inamovibile ne ha prorogato la durata al 15 gennaio 2010, valendosi di una clausola costituzionale ma resta inchiodato al suo posto. Vive nel terrore delle libere elezioni che non rinnova ormai da 15 anni, temendo di dover passare il testimone a Hamas. Gestione la sua fitta di ombre, ha goduto sempre della diffidenza occidentale, districandosi tra rifornimenti militari e finanziamenti per lo più occulti; ospite di riguardo a Teheran e Mosca stringe le mani ai grandi e regna. Hamas governa. Continua a dirigere le sue operazioni asserragliato nella sede di Ramallah.
Questo è tutto. Il resto è cronaca.
(consultazione: giornalisti paolo armelli;lorenzo cremonesi – attualità; kevin carboni; paolo mossetti; francesca salvatore - il giornale; jerusalem post; andrea aversa – l’unità)