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Politica e classi dirigenti
di Maurizio Merlo
Sono le classi dirigenti, non il popolo, non le piazze, non i movimenti, che operano per segnare la strada della storia di una comunità. Non esiste pagina di Storia che non certifichi questo ruolo. Ciò è vero fin dall’antichità, fin dalla civiltà classica, dal passaggio dalla storia dei miti e delle celebrazioni alla nascita della storiografia, che segna un nuovo inizio della storia umana e delle sue classi dirigenti, da Erodoto di Alicarnasso (485-425 A.C.) ai greci Tucidide, Senofonte, e Polibio (206-124 A.C.), passando per Machiavelli (1469-1527) arrivando ai contemporanei.
La società umana è sempre stata storia di classi dirigenti alla guida di un popolo, non è mai stata storia di anarchia, capace quest’ultima soltanto di costituirsi in cantiere di idealità astratte, suggestioni, violenza, in caos che deflagra incapace di trovare ordine, spesso con derive centralistiche di interessi particolari, fino al totalitarismo.
Populismi e movimenti dal basso esprimono nient’altro che spinte ed energie sociali, figure leaderistiche che al meglio possono rappresentare fenomeni di impegno e organizzazione di traiettorie di domanda sociale, in assenza dei quali potrebbero manifestarsi fenomeni di violenza e irrazionalità.
La regola è elementare: Democrazia altro non è che quella forma di governo che sancisce la libertà di scelta di un popolo ma che in assenza di una classe dirigente forte, visionaria, capace di progettualità, è destinata al declino del suo civismo fino all’esito di una deriva totalitaria.
La prassi della colpevolizzazione delle classi dirigenti avverse, nella ricerca delle cause dei conflitti sociali del fallimento delle politiche pubbliche e industriali equivale ad ammettere l’impotenza della propria parte politica; giusto e legittimo l’esercizio della critica ma partendo da un progetto e dall’organizzazione di forze promotrici, in assenza di ciò il destino è la sconfitta della comunità, non di un gruppo di personalità, di cui poco o nulla può esservi di rilevante.
Una classe dirigente impotente passerà alla storia come corresponsabile di un declino, e a seconda dei fatti della Storia potrà essere considerata addirittura corresponsabile dell'avversario politico, della sua presa del potere, del suo ruolo rovinoso nel destino del popolo e della sua comunità.
È attuale in Italia la vicenda grottesca di un noto comico che si è spinto a pretendere la proprietà privata di un movimento politico da lui fondato; movimento dal quale ha preteso un lauto stipendio, a remunerazione di un preteso marchio, di imprecisate consulenze d’immagine e dell’esercizio di autorità sul movimento, di natura autorizzativa nell’assunzione di decisioni politiche considerate dallo stesso fondatore di sommo interesse e quindi personalmente a lui riservate.
Questa scena non è la rappresentazione teatrale di un racconto del mondo primitivo pastorale, ma vicenda reale della “politica” italiana di inizio di questo millennio.
All’ambiente culturale e politico di questa scena e a questa sua dialettica interna altri gruppi dirigenti di altri soggetti politici dell’area democratica e progressista si sono collegati per proporre, con una qualche velleità, una sorta di idea di governo dell’Italia, viatico che è stato necessariamente fallimentare e che ha concluso la sua fantasiosa traiettoria con il consegnare, alle elezioni politiche del 2022, il governo del Paese ad una Destra a leadership cosiddetta afascista, divisa in tutto, anche sull’antifascismo (da cui il neologismo “afascista”) ma unita nell’esercizio del potere.
“Almeno questo!” ha commentato un osservatore dotato di stimolante umorismo.
Quindi già dalla descrizione di questo contesto è possibile concludere: quando una comunità non funziona per prima cosa vanno ricercate le responsabilità delle proprie classi dirigenti, e questa ricerca prescinde dalla natura del regime, anzi, nient’affatto paradossalmente, è in democrazia che le responsabilità sono più corali perché è noto, a chi ha dimestichezza con lo studio della storia e agli uomini che curano rapporti abituali con il potere di qualsiasi tempo e luogo, che la Democrazia è altresì fragile. Democrazia e Politica insomma, vanno acculturate, organizzate, curate, difese per garantire continuità nella legalità, nella pace e nella libertà; in caso contrario si apre il viatico del declino. E allora non resta che augurare di non intraprendere direzioni rovinose, come accadde, fra poco vedremo, nella scena seconda di questo articolo, il fascismo, deriva dalla quale emergerà la corresponsabilità di tutte le classi dirigenti nazionali dell’epoca.
Scena due, il fascismo. È concepibile pensare che il fenomeno “fascismo” fosse stato frutto di sè medesimo? Della propria stessa sottocultura? Della propria violenza imbellettata a patriottismo, nazionalismo, imperialismo?
No! I fautori naturali del fascismo furono, pur fra concause epocali, sicuramente da considerare, i suoi avversari politici: i socialisti, i liberali, i cattolici.
Fu poi decisiva la Corona che, desiderosa di equilibrio e stabilità, scelse di affidare il futuro del Paese all’avventura di un movimento liberticida e violento, rinunciando di fatto a intervenire a difesa della legge, delle istituzioni, delle libertà. Soltanto venti anni dopo la Corona seppe intervenire, ma l’Italia era già stata distrutta.
Senza queste conclamate, manifeste incapacità di protagonismo il fascismo sarebbe stato un mero movimento di sbandati, capeggiati da un mascalzone, dedito al tradimento e al malaffare, capace soltanto di interpretare tragicamente le sofferenze di un popolo, le fragilità di una nazione, l’inconsistenza degli avversari politici.
I vertici militari al servizio del Re ben sapevano che intervenire e reprimere sarebbe stato non solo possibile ma doveroso per la difesa della patria, lo prospettarono, mancarono gli ordini regali.
“C’è, e c’è sempre stato, un culto dell’ignoranza. Il ceppo dell’anti-intellettualismo è stato un filo costante intessuto attraverso la vita politica e culturale, alimentato dalla falsa convinzione che la democrazia significhi che la mia ignoranza valga quanto la tua conoscenza” (Isaac Asimov, 1920-92).