Corsi e ricorsi sindacali.
Chi oggi si stupisce delle posizioni di Landini non conosce a sufficienza la storia del sindacato in Italia.
Con la nascita del Partito socialista iniziò il connubio sindacato partito il quale fortunatamente non creò grandi problemi in quanto i socialisti, di governare, proprio non pensavano.
In generale, il sindacato in quegli anni fu su posizioni riformiste e solo dopo la prima guerra mondiale, quando la sinistra voleva fare come in Russia, sposò le neonate teorie gramsciane. Nel ‘19, “lo sciopero delle lancette” (contro l’ora legale) e poi l’occupazione delle fabbriche, diedero vita a quel famoso biennio rosso che non solo segnò la sconfitta del sindacato, ma soprattutto fu propedeutico all’avvento del fascismo.
Nel ventennio, non è esatto quello che una certa storiografia sostiene: che le corporazioni fossero del tutto pleonastiche ed asservite al Regime. Bottai, il fascista che elaborò le leggi sullo Stato corporativo, era un intellettuale di prim’ordine; come Gentile per la riforma della scuola, anche Bottai, pur rispettando il tatticismo Mussoliniano, riuscì, in un regime che non prediligeva certo gli scioperi, a elaborare un sistema sindacale dove la rappresentanza dei lavoratori non venne completamente frustrata. Va detto inoltre che Mussolini praticava volentieri il “divide et impera” e quindi si serviva del sindacalismo per condizionare gli industriali.
Nel ‘45, liberata l’Italia, le sinistre piazzarono i loro quadri nel nuovo sindacato unitario. Per più di un anno fu estremamente difficile placare gli entusiasmi rivoluzionari. Protagonista la Fiat.
A furore di popolo Valletta che la dirigeva fu epurato. Battista Santhià, ex commissione interna, ex ordine nuovo, ex internazionale comunista, poi partigiano in Liguria ed esponente PCI, fu nominato presidente di un Consiglio di gestione il quale, nell’immaginario proletario, avrebbe dovuto dirigere la più grande fabbrica italiana. La cosa durò pochi mesi, pena il fallimento dell’azienda; Valletta fu richiamato in pianta stabile, non solo dai partiti moderati ma dalle stesse sinistre che per l’occasione ammisero che il ragioniere di Torino, oltre che i nazi fascisti aveva aiutato pure gli anglo americani e la Resistenza.
Il Sindacato, dopo quella prima sconfitta, tornò a fare il suo mestiere e a leccarsi le ferite poiché la reazione Vallettiana fu terribile. Mentre assumeva migliaia di immigrati per le catene di montaggio della “seicento”, licenziò qualche centinaio di attivisti comunisti, altri li confinò nel reparto SR (eufemisticamente chiamato Stella Rossa) perché non potessero nuocere.
All’inizio degli anni sessanta, la FIOM torinese fece autocritica, considerando un errore la troppa politicizzazione e quindi tentò di ricostruire la propria forza sindacale sia pur tra mille difficoltà, ripartendo dai problemi di fabbrica. A fare la differenza, furono i socialisti che, ritrovata la propria autonomia dal frontismo, diedero il via all’esperienza di centro-sinistra.
Nonostante la scissione dello PSIUP avesse portato via numerosi quadri (tra cui Vittorio Foa), i socialisti rimasero nel sindacato di sinistra. Piero Boni, segretario aggiunto della FIOM (il segretario generale era Trentin) rafforzò e svecchiò la componente socialista con l’immissione di nuovi quadri sindacali. Diede battaglia su due tematiche: l’unità sindacale con la CISL e la UIL e la partecipazione del sindacato al processo di riforme che i socialisti stavano faticosamente portando avanti a livello governativo.
Il Partito comunista, dal canto suo, non era più quello monolitico degli anni cinquanta. Al suo interno esistevano tre posizioni: una sinistra guidata da Ingrao che era per un’apertura democratica nel Partito ma contemporaneamente era antisocialista e antiriformista; una destra guidata da Amendola che invece, sul piano del dibattito interno, non disconosceva il “centralismo democratico” ma era per l’apertura ai socialisti e più in generale al riformismo del Centro Sinistra; infine, c’era il corpaccione della vecchia guardia del PCI, ancora dominata dai Togliatti, dai Terracini, e da Secchia, l’uomo che teneva i collegamenti (soprattutto finanziari) con l’URSS.
Nella CGIL, ci furono più o meno le stesse divisioni, a riprova che il vizio partitico era vivo e vegeto: il segretario della FIOM Trentin a sinistra, Il vicesegretario della CGIL Lama a destra e al centro Agostino Novella che allora dirigeva il Sindacato generale.
Il congresso nazionale della FIOM del ‘64, fu il terreno dello scontro.
Piero Boni, era uno di quei socialisti che non aveva complessi di inferiorità e diede battaglia con i suoi nuovi quadri sindacali. L’esito sarebbe stato scontato sul piano numerico in quanto i socialisti avevano una discreta rappresentanza nei quadri dirigenti (si adottava un Cencelli sindacale), ma a livello di base erano pressoché ininfluenti, soprattutto dopo la scissione PSIUP.
La battaglia sui temi dell’Unità sindacale e delle riforme fu serrata, i socialisti sarebbero risultati minoritari se, a sorpresa, non fosse intervenuto Luciano Lama che ribaltò le posizioni di Trentin dando praticamente ragione ai socialisti: ciò avvenne naturalmente perché il centro comunista aveva deciso di uscire in qualche modo dall’isolamento politico.
Iniziò così una nuova fase sindacale. Il primo risultato fu che a Torino la Fiat ricominciò a scioperare, e il sindacato nella sua nuova veste unitaria tornò a fare il sindacato.
Purtroppo l’esperienza di centro-sinistra si logorò, un po’ per i tatticismi democristiani, un po’ perché le riforme proposte dai socialisti erano velleitarie e sostanzialmente stataliste.
Nonostante ciò, ci furono anche due riforme importanti: lo Statuto dei lavoratori e il Servizio sanitario nazionale, destinate, nel bene ma anche nel male, a rappresentare un vero cambiamento.
Contemporaneamente ci fu “il sessantotto”: sotto le spinte studentesche, l’Italia si spostò a sinistra, la forza sindacale crebbe al punto che il sindacato divenne il convitato di pietra di ogni trattativa governativa. Nelle fabbriche proliferarono gli attivisti e la conflittualità raggiunse livelli tali che la produzione industriale ne risentì fortemente. Ancora una volta furono i socialisti a tentare di mettere una pezza.
Con la segreteria Craxi cercarono, contemporaneamente, di sfidare sul piano del potere (e del sottogoverno) la DC, sul piano ideologico, il PCI che, morto Togliatti, si stava smarcando dall’URSS lanciando lo slogan “della via Italiana al socialismo”.
Gran parte dei problemi economici odierni sono il frutto dei compromessi politici e sindacali degli anni ottanta, dove con l’incredibile beneplacito anche della Confindustria, si diede tutto a tutti. Lo Stato comprò le aziende in crisi, creando paurosi carrozzoni improduttivi. Sul piano pensionistico si arrivò a legare le pensioni al salario d’uscita. I prepensionamenti, soprattutto nel settore pubblico, furono concessi a piene mani.
Craxi tentò in qualche modo di arginare tali fenomeni, non esitando a scontrarsi con il Sindacato e il PCI sulla contingenza, battaglia che fu vinta anche a livello popolare nonostante un referendum abrogativo perso, non solo dal PCI, ma soprattutto dal Sindacato.
Il solco tra socialisti e comunisti si approfondì ulteriormente quando Berlinguer propose alla DC “il compromesso storico” mascherato da “dialogo con i cattolici”. In realtà fu il tentativo (fuori tempo) di rilanciare un Centro Sinistra con protagonista il PCI. Il tutto fu accompagnato “dalla questione morale” rivolta soprattutto ai socialisti.
Il PCI, fu appoggiato dalla stragrande maggioranza dei giornali che aspiravano di salire sul futuro carro dei vincitori. I socialisti furono tacciati di ogni sorta di nefandezze, dimenticando che i DC erano di gran lunga più clientelari e che gli stessi comunisti, da sempre, si autofinanziavano tramite il potere locale (sindaci, presidenti di regione, coop, ecc.); per giunta mantenevano i finanziamenti sovietici, non più sotto forma dei vecchi dollari portati dalle borse diplomatiche, ma da più sicure provvigioni commerciali legate all’interscambio commerciale con l’URSS.
Il Sindacato, perpetuando i soliti ritardi ideologici, non si accorse che i nuovi processi di automazione stavano cambiando gli assetti occupazionali nell’industria, innalzarono le barricate quando la Fiat chiese migliaia di licenziamenti. Invece di entrare nel merito per cercare una via d’uscita comune, la FIOM si impegnò in una lotta sindacale senza sbocchi che culminò nella trovata di Berlinguer, novello Gramsci, di non escludere un’occupazione della fabbrica. Dopodiché ci fu la marcia dei quarantamila e l’ennesima sconfitta sindacale.
La caduta del muro di Berlino e i giudici fecero il resto. Furono praticamente liquidati tutti i vecchi partiti, meno il PCI che prudentemente cambiò nome. Per la CGIL sarebbe stato quello il momento giusto per recidere la storica cinghia di trasmissione, ponendosi su posizioni autonome tra destra e sinistra, per dare vita finalmente a un Sindacato moderno.
Le organizzazioni sindacali nel ‘92, anno in cui Berlusconi vinse le elezioni, erano ricche e potenti ma avevano perso molto del loro smalto sindacale e rivendicativo. Se a livello di fabbrica ormai c’era poca ciccia da spolpare, a livello politico furono l’unica forza popolare uscita indenne da mani pulite. Non ne hanno approfittato.
In questi anni, dominati in economia dalla globalizzazione che ha messo in crisi il nostro sistema industriale causando gravi problemi occupazionali, il sindacato si è chiuso in difesa delle conquiste dei “gloriosi trent’anni”, a scapito di tutti coloro che non potendo entrare nel processo produttivo sono stati condannati alla precarietà. Non solo, dimenticando le critiche che i progenitori CGIL rivolsero allo Statuto dei Lavoratori, ne hanno fatto un totem pari solo a quello contro le riforme costituzionali.
Landini, ultimo erede FIOM, è convinto di fare una battaglia di avanguardia. Essendo probabilmente digiuno di storia italica (ahimè, anche di quella sindacale) sta portando il sindacato, più o meno, a ripetere il dejà vu del ‘19, del ’45 e dell’ ‘80 (marcia dei quarantamila); allora almeno c’era la sponda del “glorioso”, oggi, solo quello della “Ditta”.