Il suicidio d'Israele e il buio di Gaza (2/2)
di Vincenzo Rampolla
Hamas viene fondata nel 1987 da un gruppo di Fratelli Musulmani, con la complicità d’Israele e per indebolire Arafat. La loro guida spirituale e politica era Ahmed Yassin che fin dal 1993 aveva proposto tregue per arrivare a concludere un vero armistizio, senza rinunciare ai propri principi. Israele le ha sempre snobbate. Il 22 marzo 2004 un elicottero sopra Gaza fulmina Yassin con 9 palestinesi all’uscita della moschea sulla Spianata, dopo la preghiera del tramonto.
Dopo Hamas, il Jihad Islamico Palestinese (JIP) è il principale gruppo armato di Gaza. Fondato nel 1981, svolge un’attività più militare che politica. È responsabile di vari attentati in Israele, anche suicidi. A fianco di Hamas negli scontri militari, il JIP e i suoi leader sono stati l’obiettivo principale dei raid aerei israeliani contro Gaza del 2022 e a maggio 2023.
Il JIP riceve finanziamenti e armamenti dall’Iran ed è cresciuto negli ultimi anni in Cisgiordania, specie nei campi profughi di Jenin e Nablus. La sua ala armata ha nome Brigate al-Quds.
È difficile giustificare il lancio di migliaia di razzi su una popolazione inerme, l’uccisione come in un tiro al bersaglio di centinaia di giovani partecipanti a un concerto, l’invasione di case freddando coloro che vi abitano, il sequestro di cittadini per farne ostaggio o addirittura scudo umano. Il fine è terrorizzare, rendere impossibile la vita quotidiana, ripulire la Palestina dalla presenza ebraica, esattamente come recita lo statuto di Hamas che da anni viene osannato dal regime di Teheran, principale fornitore di armi e finanziamenti ad Hamas e alla Jihad islamica.
Invocare le numerose e reali ingiustizie subite in questi anni dai palestinesi, come la continua estensione di colonie in Cisgiordania o i soprusi delle autorità militari, non può diventare la giustificazione. Eppure questa guerra segna un salto di qualità, radicalizzando ancora di più uno scenario già pesantemente compromesso.
E se nelle prime ore - anche grazie a un’inaudita incapacità dei Servizi di Sicurezza israeliani - Hamas ha cantato vittoria, la realtà sta dimostrando il carattere suicida di una guerra che non produrrà gli obiettivi immaginati. Se Hamas si propone di sbarrare la strada alla normalizzazione delle relazioni tra Israele e Arabia Saudita, da Riad è venuta la conferma di un processo che, ampliando gli Accordi di Abramo, apre una prospettiva di dialogo e cooperazione tra Paesi da decenni nemici.
Se si proponeva di conquistare la leadership palestinese, mettendo nell’angolo Abu Mazen e Al Fatah, oggi mai così deboli, la violenta radicalità dello scontro vanifica qualsiasi riconoscimento di quel ruolo. Hamas infliggendo a Israele una sconfitta militare umiliante, obbligherebbe Tel Aviv a negoziare la liberazione degli ostaggi israeliani in cambio della liberazione dei leader palestinesi detenuti nelle carceri israeliane e la reazione israeliana sarebbe così dura da infliggere ad Hamas una sconfitta devastante. E se invece Hamas si propone di liquidare ogni ipotesi di soluzione negoziata al conflitto israelo-palestinese, l’esito nell’immediato è conseguito, facendo però pagare un alto costo al popolo palestinese che rischia di vivere ancora per anni senza patria nè futuro. Che cosa incassa Hamas dal suo intervento se non il rischio di una regionalizzazione del conflitto?
A poche centinaia di chilometri da Gaza, prosegue intanto la guerra civile che da 14 anni sconvolge la Siria. E a nord, Israele deve fare i conti con un Libano la cui forza rilevante è Hezbollah, con l’Iran protettore. Sono trascorsi 30 anni da settembre 1993 quando alla Casa Bianca, Clinton, Arafat e Rabin si sono stretti la mano sottoscrivendo un accordo che avrebbe dovuto portare in 5 anni a una soluzione di pace fondata sul principio 2 Popoli, 2 Stati. Anno dopo anno il progetto si è smagliato esaurendo la fiducia reciproca. La leadership palestinese, rifiutando le proposte israeliane, dal piano Barak alla piattaforma di Annapolis fino alle proposte di mesi fa del Primo ministro Lapid, ha minato la credibilità dell’ANP a vantaggio dell’affermarsi di Hamas.
Pesanti le responsabilità di Nethanyahu e della destra israeliana: sfruttare la lunga presenza al potere per svuotare le prospettive di una soluzione. La continua estensione di insediamenti di coloni in Cisgiordania, il rifiuto di avviare negoziati, l’inclusione in posti di responsabilità governativa di esponenti contrari alla creazione di uno Stato palestinese hanno depauperato Abu Mazen e ANP, aprendo la strada al radicalismo di Hamas.
Altre responsabilità piovono dalla comunità internazionale e dai suoi primi attori. Il poker ONU, UE, USA, Russia incapace di imprimere un reale impulso a soluzioni di pace, ha visto Washington e Mosca su fronti contrapposti nella prima guerra civile in Siria, mentre la guerra ucraina ha paralizzato qualsiasi intesa. E il forte condizionamento dell’Iran su Hamas e Jihad, nonché la loro crescente influenza sulle generazioni palestinesi più giovani, riducono ulteriormente lo spazio per iniziative di mediazione.
Il conflitto dimostra che il decorrere indolente del tempo non porta alla pace. Emerge crudele il verbo stupire, monotona nenia nelle cronache di guerra: stupiti per la rapidità dell’attacco di Hamas, increduli per la massiccia offensiva militare dei terroristi palestinesi, sbalorditi per la loro penetrazione nei territori di Israele, meravigliati per le avanzate tecniche militari utilizzate, disorientati per la cattura in ostaggio di decine di giovani civili e militari israeliani. Nulla a che vedere con le due precedenti Intifada fatte di sollevazioni palestinesi a colpi di pietra e coltellate contro i militari israeliani. Ma anche spaesati per l’inefficienza dell’imbattuto esercito Tsahal, e per le voragini dell’intelligence ormai affidata agli strumenti dell’Intelligenza Artificiale e della superiorità tecnologica di Gerusalemme.
Dov’è finita la forza d’investigazione umana sul territorio?
Stupiti o che altro? Forse la parola giusta è sbagliare: trascurare l’aumento della violenza con 200 palestinesi uccisi dall’inizio dell’anno, oltre ai 30 israeliani morti per vendetta; provocare con l’inutile e arrogante visita alla Spianata della Moschea di Al Aqsa, sacra agli islamici, del nuovo Ministro della Sicurezza Nazionale israeliano Ben Gvir. Hamas ha chiamato l’attuale guerra Al Aqsa, esattamente come la seconda Intifada scoppiata il 28 settembre 2000, dopo l’analoga visita provocatoria di Sharon, capo del Likud, accompagnato da un scorta armata di alcune centinaia di uomini; dimenticare l’irrisolto problema dei palestinesi dopo decenni di tentativi di soluzione pacifica, da Oslo ai tempi di Arafat e Begin (entrambi Nobel per la pace, premi da brivido) fino a una decina d’anni fa quando si sono tentati gli ultimi tentativi di compromesso; abbandonare la questione palestinese, incancrenita e congelata, priva di veri rischi; sottovalutarne la gestione, confinata a quasi normale problema di sicurezza; vaneggiare, credendo di potere vivere in un Eden, pur essendo immersi nella Geenna in ebollizione all’interno di Gaza; ignorare la rete capillare di tunnel, veri luoghi di rifugio, deposito di armi e viveri, via di fuga e di comunicazione tra palestinesi e terroristi, fucina sotterranea del vulcano jadista.
In effetti l’ennesimo governo di Benjamin Netanyahu (quello più a destra della storia israeliana) si è focalizzato su tre elementi. Il primo, vegliare soprattutto sulla sicurezza ad Est, in Cisgiordania, per proteggere gli insediamenti dei coloni israeliani, favorito dall’accordo con il vecchio e screditato Abu Mazen capo di Fatah, l’originaria autorità palestinese. Il secondo, mettere mano alla riforma del sistema giudiziario, arrivando a spaccare il Paese in due (perfino con l’opposizione delle forze armate). Il terzo, riavvicinare Israele all’Arabia Saudita per completare gli accordi di Abramo del 2020, fortemente sponsorizzati dagli Usa. Nella piccola striscia di Gaza non ha colto lo scalpitare per la voglia di rivincita di Hamas, gruppo militante islamico-sunnita considerato da Usa e UE un vero e proprio gruppo terroristico, al pari dell’Isis e di Al Qaeda. L’obiettivo dichiarato di Hamas è di annientare Israele ereditato dall’Iran che lo coccola.
Che fare? Utilizzare i tipici metodi del terrorismo mediorientale: cattura di ostaggi, uccisione indiscriminata di civili, utilizzo di social e video per dimostrare la propria efferatezza. Dal 2007 in poi Hamas è riuscita a impadronirsi del governo di Gaza e a scalzare il debole e corrotto Abu Mazen di Fatah che si è di fatto ritirato in Cisgiordana. In questi anni, che vantaggio ha tratto la popolazione palestinese di Gaza dalla crescente potenza di Hamas? La disoccupazione è al 62%, la più alta del mondo e per alimenti, medicine e beni di prima necessità i civili vivono degli aiuti internazionali in uno stato di perenne assedio da terra e da mare succube del severissimo controllo israeliano. Nella popolazione è quindi maturato uno stato di disperazione e di dipendenza dai voleri di Hamas, maestra nel fare digerire, in parte, la tolleranza popolare di un regime totalitario e estremista come quello messo in opera dai terroristi.
Insisto: che fare? Per l’UE si tratta della seconda guerra alle porte e i successi e la propaganda di Hamas possono trovare adepti fra le minoranze islamiche in Europa, riportandoci al buio del tempo degli attentati del Bataclan a Parigi o a quelli di Nizza. Perfino alcune forze politiche possono esserne contagiate, come France Insoumise di Malenchon che si è spinto fino a sostenere le ragioni di Hamas. L’Europa non può che condannare il metodo terrorista dei gruppi di fanatici. Come si è unita all’America per battere le atrocità di Al Qaeda e dell’Isis, allo stesso modo aiuta Israele a battere il terrorismo suicida di Hamas. Suicida perché la forza militare e politica di Israele è determinata ad andare fino in fondo a questa ennesima sfida, assolutamente risoluta, ferma e decisa, in apparenza totalmente ignara e incurante dei rischi.