Qualche parola semplice sulla riforma del Senato.
Incominciamo dal titolo. Il nuovo senato si dovrebbe chiamare SENATO DELLE AUTONOMIE.
Che vuol dire? Che le autonomie, regioni, provincie e città, che ora non hanno meccanismi di rappresentanza diretta a livello nazionale, ma che ricorrono a organismi di incontro tramite conferenze con il governo centrale, dovrebbero avere un luogo istituzionale ove discutere dei propri problemi e interagire con il governo centrale.
Teniamo ben presente questo punto, che a me pare decisivo per il disegno del nuovo organo.
Quindi il nuovo senato non delibera su temi nazionali, ma su questioni che interessano e coinvolgono le autonomie. E ovviamente su temi che riguardano realtà più ampie e che devono davvero tener conto delle necessità e delle opportunità dei territori. (finalmente!)
Chi deve rappresentare le autonomie in questa istituzione?
A me sembra quasi banale dire che dovrebbero essere sindaci e presidenti di provincie e regioni, in quanto titolari della responsabilità di gestire queste autonomie. Del resto sono proprio questi che partecipano alle attuali conferenze con il governo centrale.
E allora come mai si insiste a dire che i nuovi senatori devono essere eletti direttamente dai cittadini? E in quale rapporto starebbero con sindaci e presidenti, questi sì eletti direttamente? E se fossero di due partiti diversi per la stessa autonomia? E come si concilia la responsabilità assegnata dai cittadini per la gestione dei territori ai rappresentanti eletti con quella dei senatori, anch’essi eletti direttamente e quindi dotati di autonomia di decisione?
Insomma un bel pasticcio.
A meno che non si voglia fare solo il Senato delle Autonomie, ma una copia più piccola del senato attuale, cioè non fare la riforma annunciata. E magari mettere un serio intralcio al monocameralismo, cha sta alla base di questo disegno.
Il problema pare quindi esistere per motivi diversi da quelli addotti ufficialmente.
Il rischio, come al solito è di fare una riforma a metà, il solito compromesso che accontenta le parti e scontenta i cittadini e la logica stessa del cambiamento.
Si dice che una riforma istituzionale deve essere consegnata al parlamento, non al governo. E che dentro al parlamento quando si vuole modificare la costituzione non valgono vincoli di appartenenza.
Bene, se il risultato è questo prendiamo atto che il parlamento non vuole la riforma, e che di conseguenza la maggioranza di governo non c’è più.
Con le conseguenze del caso.
Ancora una parola sull’articolo 2, quello della non elezione diretta dei nuovi senatori, votato e approvato già due volte da Camera e Senato, cioè dal parlamento.
Che si fa, si ricomincia? Andando contro anche al regolamento, che non prevede (giustamente, e per coerenza) di rivotare quanto già votato?
Pare di essere tornati indietro di anni, quando non si riusciva a decidere nulla, come ad esempio la riforma del Senato delle Regioni (non elettivo), già nel programma dell’Ulivo del 1996.