Maurits Cornelis Escher (1898-1972) – Bond of Union -1956
Breve riassunto di Idee azioni e risultati della sinistra e della ditta post-comunista e pre-renziana
1° puntata: D’Alema e l’Ulivo
Traumi di fine novecento: Gorbaciov, caduta del muro di Berlino, dissoluzione dell’Unione Sovietica. In Italia la Bolognina, il Partito Comunista italiano ufficialmente si scioglie. Nei fatti cambia nome: diventa Partito Democratico della Sinistra, PDS, dopo annose interminabili discussioni teoriche, la passione che non lascerà mai i suoi dirigenti e non pochi militanti.
Poi tangentopoli e dopo quell’esplosione giudiziario/politica/popolare le elezioni politiche nel 1994: le vince Berlusconi, a sorpresa, con quasi il 43% dei voti. Spaccia il suo movimento per liberale – e qualche sparuto liberale in Forza Italia c’è davvero - ma in realtà cavalca alla grande l’antipolitica. I favoriti dell’alleanza “progressisti” a base PDS (la gioiosa macchina da guerra) e a guida Occhetto chiudono attorno al 34%. Tra i numerosi leader che affiancano Occhetto ci sono sindacalisti (Benvenuto, Carniti, Del Turco), comunisti non post (Bertinotti) e figure ondivaghe come Carlo Ripa di Meana coniugato Marina.
E’ andata male ma alle europee, tre mesi dopo, va peggio: il PDS scende sotto il 20%. Invece del PCI stavolta si scioglie il maquillage che doveva ringiovanirlo e riappaiono le rughe. Del PDS si capisce che vorrebbe essere post, ma rimane misterioso cosa vorrebbe diventare: socialista; socialdemocratico; un po' più a sinistra, non troppo; riformista, con cautela; non marxista, in linea di massima; Craxi Dio ne scampi. Solite discussioni teoriche insomma, che continueranno fino al PD dei giorni renziani. E oltre, temo.
Occhetto si dimette. Per la successione sono in competizione D’Alema e Veltroni. Si decide di affidare la scelta ad un referendum tra i dirigenti del partito, che purtroppo sono la bellezza di 19.000. Votano in 12.000: Veltroni vince il referendum e a D’Alema, forse per consolazione, va la segreteria.
I risultati vengono infatti considerati poco probanti. O sgraditi. Meglio cambiare sistema. La decisione viene trasferita ad un organo più piccolo. Oddio, relativamente: 480 membri. E’ il Consiglio Nazionale, e lì D’Alema la spunta. Il malumore di chi aveva votato Veltroni rimane soffocato, probabilmente dalla cultura non aggiornata, nemmeno quella, del centralismo democratico.
Nel frattempo Berlusconi governa alla peggio, tentando subito dei colpi di mano di suo personale interesse; intanto accoglie volentieri in maggioranza, altrimenti insufficiente, alcuni il cui fiuto politico incoraggia a lasciare i perdenti per soccorrere i vincitori. Uno di questi, il fantasioso commercialista Giulio Tremonti, diventa subito ministro.
Il Berlusconi 1° dura poco per la nota faccenda dell’avviso di garanzia. La Lega già prima di allearsi con lui dava di Berlusconi una valutazione non lusinghiera, espressa senza garbo dai titoli e dagli articoli del giornale del partito, la Padania. Di fronte ad un avviso di garanzia sceglie la purezza e lascia la maggioranza.
Nasce così nel 1995 il primo governo tecnico della Repubblica, presieduto da Lamberto Dini – già ministro del Tesoro del governo Berlusconi ma politicamente duttile - e sostenuto esternamente anche dal PDS, all’interno del quale nel frattempo si sviluppa l’idea Ulivo.
L’Ulivo, che dopo vent’anni è ancora nelle nostalgie non motivate di Bersani, è stato di fatto l’accozzaglia di una quindicina tra partiti movimenti raggruppamenti gruppuscoli e cani sciolti di varia natura e idee. Una eterogenea coalizione elettorale, suggerita dalla prospettiva del bipolarismo che avrebbe caratterizzato le elezioni del 1996. Due punti fermi però ci sono: a) battere Berlusconi b) Romano Prodi candidato presidente del consiglio. Sul programma in caso di vittoria meglio non approfondire. La frase che dovrebbe apparire più spesso e invece non appare mai è: “poi si vedrà”.
Alle elezioni anticipate del 1996 la spunta effettivamente l’Ulivo, però in virtù di due aspetti numericamente (e poi anche politicamente) decisivi: la Lega non entra nella coalizione di centrodestra e Rifondazione Comunista resta fuori dall’Ulivo ma non ne contrasta i candidati nei collegi del maggioritario. Si capisce cioè che pur avendo vinto l’Ulivo la maggioranza degli italiani vota a destra. Polo e Lega sommati prendono infatti più del 50% dei voti. Sintesi: è rimasta la voglia di Berlusconi.
L’Ulivo, all’interno del quale al PDS vanno qualcosa meno di 8 milioni di voti, cioè il 21% circa, non governa neanche male, per certi aspetti; soprattutto quel primo governo Prodi ha compiuto il mezzo miracolo di agganciare l’area euro al primo giro, come i Paesi virtuosi, tra i quali l’Italia non figurava né si riteneva fosse in grado di figurare qualunque sforzo facesse. La cosa è costata pesanti sacrifici e operazioni combinate in fretta e furia, come la privatizzazione di Telecom realizzata da Carlo Azeglio Ciampi, eccellente ministro del Tesoro in quel governo. Con più calma quell’operazione avrebbe potuto svilupparsi diversamente, ma la necessità di sistemare immediatamente il bilancio in chiave Euro ha imposto compromessi che daranno problemi in futuro.
L’euro però in quel momento rappresentava il nuovo, il simbolo di un’Italia in grado di farcela anche dopo avere accumulato debiti in piena incoscienza e dopo la devastazione provocata, più ancora che dalla corruzione in sé, dalla sua (parziale) scoperta e rivelazione ai cittadini, che per tangentopoli si erano entusiasmati.
C’era un clima positivo nel Paese, al di fuori della politica. Gli italiani assumevano i magistrati del pool mani puliti come campioni del servizio allo Stato, della rettitudine; in larghissima maggioranza vivevano quella fase come la svolta irreversibile che chiudeva definitivamente un’era politica segnata da incapacità e corruzione e ne apriva una nuova, più trasparente e più aperta alla società civile, della quale i cittadini auspicavano il contributo nella gestione della cosa pubblica. Il centrosinistra, che si trovava casualmente al governo in quel momento, poteva cavalcare l’onda, giocare le carte del rinnovamento, della diversità, della politica “diversa”, credibile. Non lo fece. Non lo fece affatto e gli elettori, delusi, intuirono benissimo il perpetuarsi delle pratiche che speravano superate. E anche l’inettitudine e l’opacità che caratterizzavano certi personaggi.
Ciampi colse il clima perfettamente: “occorre un rinnovamento complessivo del Paese, capace di investire anche la cultura, i costumi, gli stili di vita”. D’Alema stroncò con acutezza le aspettative: “L’idea che si possa eliminare la politica come ramo specialistico per restituirla ai cittadini è un mito estremista”, disse. “Io non conosco questa politica che viene fatta dai cittadini e non dai politici”. Autorete.
Il governo Prodi, pur condizionato da posizioni stravaganti (e da nemici) al suo interno e dall’appoggio di Rifondazione Comunista all’esterno, diede una sistemata ai conti pubblici anche con interventi impopolari, ma quando Bertinotti lo decise, per ragioni sue, la maggioranza alla Camera venne a mancare. Secondo molti però Bertinotti accese solo la miccia; l’esplosivo lo avevano piazzato altri.
Prodi pretese, prima volta in Italia, di essere disarcionato con voto del Parlamento anziché nei corridoi, nei quali però D’Alema – saltata per aria qualche mese prima senza risultati la bicamerale per le riforme che aveva presieduto - si muoveva con costrutto. Infatti non si farà trovare impreparato.
Rimandato alle Camere dal presidente della Repubblica Scalfaro “il mortadella”, come era chiamato Prodi da avversari palesi e occulti, fu bloccato da Cossiga che per i suoi voti gli chiese l’impossibile: rinnegare l’Ulivo. E Prodi capì. Lui sarebbe stato per nuove elezioni ma le Camere il presidente le scioglie se non c’è maggioranza: in quel caso invece c’era. Baffino D’Alema ne aveva una nuova bell’e pronta con i voti messigli a disposizione proprio da Cossiga. I voti erano quelli di un gruppetto parlamentare formato da transfughi dall’alleanza berlusconiana. I cossighiani, si diceva allora. Come oggi i verdiniani, diciamo.
E il celebrato sistema maggioritario? Pinzillacchere, direbbe Totò. Aumentano le poltrone di ministro e sottosegretario e D’Alema diventa il primo – e finora unico - ex (?) comunista presidente del consiglio. Un Governo, il suo, tutt’altro che nato dalle urne, come pretenderebbero i puristi. Governo che era condizionato da Cossiga invece che da Bertinotti, il che oggi farebbe scandalizzare i piddini nemici di Renzi. Un’altra “prima volta” del governo D’Alema fu la concessione delle basi italiane per consentire il primo intervento NATO in uno Stato sovrano: il Kosovo.
D’Alema però anche al governo fa e disfa, la sua passione. Tra la privatizzazione delle Autostrade a beneficio Benetton e l’apertura delle sale Bingo, dopo poco più di un anno “pilota” una crisetta e nasce il suo secondo governo. Il primo è durato 14 mesi, il secondo resisterà solo per 4.
Nel 2000 infatti si vota per le regionali: i DS (nuova sigla del PDS, l’ultima prima del PD) rimangono sotto il 18%, ma ci sono qua e la alcune liste “simpatizzanti”. Alle amministrative è sempre difficile fare i conti. Il dato finale comunque è che 4 regioni nelle quali governava il centrosinistra passano al centrodestra. Una quinta, il Molise, seguirà l’anno dopo nella ripetizione del voto imposta dal TAR. E “passa di là” anche Bologna la dotta e poi la rossa. Un simbolo. Vince un bravo cristo ma non un incendiatore di anime. Bologna più che premiare lui, il rispettabile signor Guazzaloca, ha inteso punire una sinistra che non è più comunista ma non è ancora niente altro di definito. Così almeno interpretano i politologi.
D’Alema lascia e viene sostituito al governo da Giuliano Amato, quello del prelievo forzoso dai conti correnti nel 1992, il momento più tragico dell’economia italiana negli anni recenti. Amato opererà dignitosamente ma la legislatura si concluderà con un’altra bruttura: la riforma del titolo V della Costituzione, una mossa buttata lì all’ultimo momento, con i voti del solo centrosinistra e con il chiaro intento di anticipare le istanze di tipo “federalista” portate avanti con la solita violenza verbale dalla Lega. Una mossa maldestra, anche stupida, se vogliamo, che non mancherà di far pesare i suoi effetti sul centrosinistra ma anche sul Paese.
E ad errore segue errore, secondo molti. In previsione delle elezioni l’Ulivo decide che non è bene candidare come presidente del consiglio designato quello uscente, Amato, che anzi azzoppa per tempo annunciando Rutelli, già radicale, già verde, già sindaco di Roma. E già bollito, dice qualcuno. Ma tanto si sa che le elezioni per il centrosinistra sono perse. Quello dell’euro, quel po' di risanamento del bilancio e qualche tentativo di introdurre accenni di concorrenza nel Paese (le lenzuolate di Bersani) sono fatti passati nel dimenticatoio, usati anzi dalla destra per bollare il centrosinistra come il partito delle tasse. Centrosinistra che, nel mormorio scarsamente interpretabile delle solite beghe interne, comunica poco e malissimo, al contrario degli avversari.
Elezioni politiche del 2001: il centrodestra, con la Lega rientrata in coalizione, fa il pieno: appena sotto il 50%, mentre l’Ulivo bis si ferma al 35. I DS, nel proporzionale, sotto il 17. Un punto in meno la Margherita, che poi confluirà con i DS nel PD.
Berlusconi torna al governo e ci resterà fino alla fine della legislatura. Ha in mano tutte le carte, a cominciare da una solida maggioranza, per attuare quella riforma liberale che ha promesso. Niente da fare. Niente riforma, né liberale né di altro orientamento.
La sinistra troverà coesione in quella che sarà la cifra – e il limite – della sua azione politica in quegli anni e in quelli a venire: l’antiberlusconismo. Che di per se non comporta un’opposizione di qualità. Anzi, nessuna opposizione pregiudiziale è di qualità. Mai.