George Schill (Contemporaneo - Pittsburgh, PA - USA) – Crossroads
Qualche nota esplicativa sul referendum costituzionale del 20-21 settembre 2020
di Alberto Tedoldi
- Costituzione rigida e disciplina delle modifiche costituzionali (art. 138 Cost.)
L’incalzante e strumentale disinformazione propagandistica intorno alla riduzione del numero dei parlamentari e al referendum costituzionale del 20-21 settembre 2020 induce a qualche nota esplicativa, volta a chiarire il quadro complessivo e le coordinate giuridiche di riferimento. Lo faremo in forme didascaliche, chiedendo sin d’ora venia ai lettori già informati e consapevoli.
Ai sensi dell’art. 138, comma 1, Cost., le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali sono adottate da ciascuno dei due rami del Parlamento (Camera dei deputati e Senato della Repubblica) con due successive deliberazioni a intervallo non minore di tre mesi, e sono approvate a maggioranza assoluta dei componenti di ciascun ramo nella seconda votazione.
Si tratta di un procedimento che, secondo un modello di Costituzione rigida, impone tempi e modalità di approvazione delle modifiche costituzionali da parte dei rappresentanti eletti dal popolo ben superiori a quelli adottati per le leggi ordinarie, prevedendo:
- la doppia approvazione da parte di Camera e Senato (per le leggi basta, come noto, un’approvazione sola del medesimo testo da parte di ciascun ramo del Parlamento);
- un intervallo temporale di tre mesi tra la prima e la seconda votazione (o lettura, che dir si voglia);
- un quorum deliberativo che richiede sempre, in seconda votazione, la maggioranza dei componenti (non dei presenti in aula) di ciascuno dei due rami del Parlamento.
Chiaramente si vuole garantire particolare ponderazione e vasto consenso dei rappresentanti eletti dal popolo sulle modifiche da apportare alla Carta fondamentale, adottando cautele e attenzioni ben superiori rispetto a quelle richieste per le leggi ordinarie.
Inoltre:
- se in seconda votazione in ciascuno dei due rami si raggiunge la maggioranza ulteriormente rafforzata dei due terzi dei componenti, non si fa mai luogo a referendum (art. 138, comma 3, Cost.), sull’evidente presupposto che la volontà di gran parte degli eletti coincida con quella di gran parte degli elettori e tanto basti, nel nostro sistema di repubblica parlamentare, a rendere immediatamente operativa la riforma costituzionale;
- se non si raggiunge in ambedue le Camere la maggioranza ulteriormente rafforzata dei due terzi in seconda votazione ai sensi del comma 3, ma comunque la maggioranza dei componenti di ciascuna Camera ai sensi del comma 1, la riforma costituzionale può essere sottoposta a referendum popolare quando, entro tre mesi dalla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, ne facciano domanda un quinto dei membri di una Camera o cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali (art. 138, comma 2, Cost.): la legge costituzionale sottoposta a referendum non è promulgata, se non è approvata dalla maggioranza dei voti validi, senza quorum costitutivo di validità della consultazione, come è previsto invece per i referendum abrogativi delle leggi (cfr. l’art. 75 Cost.).
Il referendum ha dunque funzione di completamento eventuale dell’iter di approvazione della modifica costituzionale e possiede natura “oppositiva”, anziché propriamente “confermativa”: è proponibile solo quando non si raggiunga in seconda lettura, in ciascuna delle due Camere, la maggioranza rafforzata dei due terzi, ma solo la maggioranza qualificata dei componenti e, in quest’ultimo caso, va proposto entro un termine perentorio di tre mesi. In mancanza di richiesta di referendum, la riforma entra in vigore.
- Il contenuto della legge costituzionale per la riduzione dei parlamentari
Seguendo il procedimento dianzi descritto, il 12 ottobre 2019 è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il Testo di legge costituzionale approvato in seconda votazione a maggioranza assoluta, ma inferiore ai due terzi dei membri di ciascuna Camera, recante: «Modifiche agli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione in materia di riduzione del numero dei parlamentari».
La legge costituzionale si compone di quattro brevi articoli, ciascuno formato da un solo comma, con i quali ambedue i rami del Parlamento hanno approvato le seguenti modifiche al testo della Costituzione, che riportiamo di seguito con evidenza delle modifiche per darne più immediata contezza:
quanto alla Camera dei deputati,
- l’art. 56, comma 2, Cost. diviene: “Il numero dei deputati è di
seicentotrentaquattrocento,dodiciotto dei quali eletti nella circoscrizione Estero”; - conseguentemente, l’art. 56, comma 4, Cost. diviene: “La ripartizione dei seggi tra le circoscrizioni, fatto salvo il numero dei seggi assegnati alla circoscrizione Estero, si effettua dividendo il numero degli abitanti della Repubblica, quale risulta dall'ultimo censimento generale della popolazione, per
seicentodiciottotrecentonovantadue e distribuendo i seggi in proporzione alla popolazione di ogni circoscrizione, sulla base dei quozienti interi e dei più alti resti”.
Quanto al Senato della Repubblica,
- l’art. 57, comma 2, Cost. diviene: “Il numero dei senatori elettivi è di duecento
trecentoquindici, quattroseidei quali eletti nella circoscrizione Estero”;
conseguentemente,
- l’art. 57, comma 3, Cost. diviene: “Nessuna Regione o Provincia autonoma può avere un numero di senatori inferiore a
settetre; il Molise ne ha due, la Valle d’Aosta uno”; - e l’art. 57, comma 4, Cost. diviene: “La ripartizione dei seggi tra le Regioni o le Province autonome,
fatto salvo il numero dei seggi assegnati alla circoscrizione Estero, previa applicazione delle disposizioni del precedente comma, si effettua in proporzione alla loro popolazionedelle Regioni, quale risulta dall'ultimo censimento generale, sulla base dei quozienti interi e dei più alti resti”). - Infine, nell'art. 59, comma 2, Cost. è aggiunto un periodo che chiarisce che i senatori a vita in carica non possono mai superare il numero di cinque, mentre sinora si tendeva a ritenere che ogni Presidente della Repubblica potesse nominare cinque senatori a vita, anche se alcuni di quelli nominati in precedenza erano ancora in carica, rendendo in tal modo variabile il numero complessivo dei senatori: “Il Presidente della Repubblica può nominare senatori a vita cinque cittadini che hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario. Il numero complessivo dei senatori in carica nominati dal Presidente della Repubblica non può in alcun caso essere superiore a cinque”.
Si tratta di modifiche assai circoscritte, con cui:
- i deputati scendono da 630 a 400;
- i senatori scendono da 315 a 200, oltre a 5 (mai più di 5) senatori a vita.
L’art. 4 della legge costituzionale sottoposta a referendum precisa che la nuova composizione delle Camere varrà a partire dalla prossima tornata elettorale, in ossequio al principio di continuità degli organi costituzionali, che restano in carica e pienamente funzionanti in base alle regole vigenti nel momento in cui vennero a costituirsi, secondo il principio tempus regit actum. Perciò, la riduzione del numero di deputati e senatori si applica “a decorrere dalla data del primo scioglimento o della prima cessazione delle Camere successiva alla data di entrata in vigore della presente legge costituzionale e comunque non prima che siano decorsi sessanta giorni dalla predetta data di entrata in vigore”.
- L’iter parlamentare della legge costituzionale sottoposta a referendum
Questo l’iter di approvazione della legge costituzionale, nei passaggi prescritti dall’art. 138, comma 1, Cost.:
- il 25 luglio 2018 il disegno di legge (ddl) costituzionale viene depositato in Commissione Affari costituzionali del Senato;
- il 7 febbraio 2019 il Senato approva in prima lettura il ddl costituzionale a larga maggioranza (76% dei votanti);
- il 9 maggio 2019 la Camera approva in prima lettura il testo già licenziato dal Senato, con la maggioranza di 310 su 422 votanti;
- l’11 luglio 2019 il Senato approva in seconda lettura il disegno di legge costituzionale con il quorum deliberativo qualificato prescritto dall’art. 138, comma 1, Cost. (maggioranza dei componenti anziché dei soli votanti): 180 favorevoli contro 50 contrari.
- l’8 ottobre 2019 la Camera dei deputati approva definitivamente, in seconda votazione con la maggioranza dei suoi componenti (non dei soli votanti), il disegno di legge costituzionale; si supera abbondantemente anche il quorum deliberativo rafforzato dei due terzi di cui al comma 3 dell’art. 138 Cost. (quello, per intenderci, che rende non necessario il referendum popolare): su 630 componenti la Camera e 567 votanti, quelli a favore sono 553;
- il 12 ottobre 2019 il testo della riforma costituzionale viene pubblicato in Gazzetta Ufficiale.
- La richiesta di referendum “confermativo”, recte “oppositivo”
Abbiamo già ricordato che, ai sensi dell’art. 138, comma 3, Cost., non si fa luogo a referendum se la legge è stata approvata nella seconda votazione da ciascuna delle Camere a maggioranza di due terzi dei suoi componenti. La Camera ha approvato in seconda votazione con tale ultima maggioranza ulteriormente rafforzata e così ampia da escludere la necessità di sottoporre la riforma a referendum. Il Senato, pur avendo approvato in seconda votazione con la maggioranza dei suoi componenti (180 su 315), per una trentina di voti non aveva raggiunto i due terzi, che avrebbero reso non necessario e inammissibile il referendum.
Pure si è ricordato che, ai sensi dell’art. 138, comma 2, Cost., le leggi di modifica costituzionale sono sottoposte a referendum popolare quando, entro tre mesi dalla loro pubblicazione, ne facciano domanda un quinto dei membri di una Camera o cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali. La legge sottoposta a referendum non è promulgata, se non è approvata dalla maggioranza dei voti validi, senza quorum costitutivo di validità della consultazione, come è previsto invece per i referendum abrogativi delle leggi.
Il 10 gennaio 2020, due giorni prima che i tre mesi fossero decorsi (sarebbero scaduti il 12 gennaio), un assai sparuto gruppo di senatori, appena appena pari al quinto previsto dal comma 3 dell’art. 138 Cost., ha presentato le firme in Cassazione, per chiedere che fosse indetto il referendum. La Cassazione, cui spetta un mero controllo di legittimità formale, ha dato così il via libera al referendum.
Pure abbiamo accennato che, in effetti, il referendum costituzionale ha natura “oppositiva”, non già “confermativa”, secondo la vulgata. Se le due Camere approvano in seconda votazione con la maggioranza ulteriormente rafforzata dei due terzi dei loro componenti o, in mancanza di questa, se nessuno chiede il referendum nei tre mesi dalla pubblicazione in Gazzetta, la legge costituzionale viene promulgata ed entra in vigore.
È dunque già di per sé strano che si senta la necessità di sottoporre a referendum oppositivo una riforma approvata a così larga maggioranza qualificata (e alla Camera anche rafforzata) dai rappresentanti eletti, i quali riformano sé stessi, vincendo e superando quell’intrinseco “istinto di sopravvivenza” e quel naturale e ineliminabile conflitto di interessi, che dovrebbero semmai indurli ad autoconservarsi nel maggior numero attualmente previsto.
Il 27-28 gennaio 2020 il Consiglio dei ministri, in applicazione della legge sullo svolgimento dei referendum popolari che prevede 60 giorni per indirlo, indicava per lo svolgimento il 29 marzo 2020 e il Presidente della Repubblica confermava con proprio decreto tale data.
Lo scoppio dell’emergenza pandemica costringeva a rinviare la consultazione con decreto legge convertito dalle Camere, prorogando il termine di svolgimento della consultazione popolare per le ben note, straordinarie ed eccezionali ragioni di necessità e urgenza.
Il 17 luglio 2020 il Presidente della Repubblica firmava il nuovo decreto per indire il referendum in contemporanea con le elezioni in alcune Regioni il 20 e 21 settembre 2020.
Altro ancor più sparuto gruppo di parlamentari proponeva conflitto di attribuzioni dinanzi alla Corte costituzionale, essenzialmente per contestare lo svolgimento del referendum in unica tornata con le elezioni regionali. In agosto la Corte costituzionale dichiarava inammissibili e rigettava i ricorsi, confermando le date del 20 e 21 settembre 2020 per il referendum costituzionale.
- Il quesito referendario
Così ricostruito l’iter della riforma costituzionale, il quesito su cui il popolo italiano è chiamato a esprimersi il 20-21 settembre 2020 è assai semplice e lineare e può essere così parafrasato e riassunto: “volete o non volete la riduzione dei deputati da 630 a 400 e dei senatori da 315 a 200, oltre a 5 senatori a vita?” [“Approvate il testo della legge costituzionale concernente Modifiche agli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione in materia di riduzione del numero dei parlamentari, approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana n. 240 del 12 ottobre 2019?”].
Non si tratta di una riforma ampia e radicale e di un quesito “a pacchetto”, prendere o lasciare, come fu quello (lunghissimo) del dicembre 2016, che riguardava ben 45 articoli della Costituzione e modificava le strutture fondamentali dell’impianto costituzionale (v., si vis, A. Tedoldi, Nato il 2 di giugno, in nelfuturo.com, 2016). Qui la riforma è oltremodo circoscritta e non modifica dalle fondamenta l’assetto della nostra bella Costituzione, come intendeva fare la riforma del 2016.
È poco, è troppo?
È già qualcosa ed è un segnale importante che viene dal Parlamento, il quale ha avuto finalmente, dopo quarant’anni di proposte in tal senso, la capacità di autoridursi nel numero dei suoi componenti, portando il rapporto tra popolazione ed eletti a 1 ogni 100.000 abitanti; un rapporto ancora maggiore, se si considerano i legittimati attivi al voto e ampiamente in linea con il numero di parlamentari delle maggiori democrazie rappresentative occidentali.
- Sono le leggi elettorali a “creare” elettori ed eletti
Le due Camere hanno pari poteri (il nostro è un bicameralismo perfetto) e la riduzione è di un terzo dei componenti in ciascuna Camera con criterio proporzionale e simmetrico, la cui legittimità era stata confermata de plano da numerosi costituzionalisti nelle audizioni parlamentari svolte durante i lavori preparatori della legge costituzionale sottoposta a referendum. Spesso gli stessi costituzionalisti che ora, senza ragioni apparenti, vorrebbero sostenere il contrario a seconda della testata giornalistica per cui scrivono e levano in coro alti lai e geremiadi, basate su eventuali inconvenienti futuri che, notoriamente, non assolvono ad argomento veruno, secondo il noto brocardo “adducere incoveniens non est solvere argumentum”.
La revisione delle circoscrizioni territoriali è un posterius, viene dopo rispetto alla modifica costituzionale ed è già previsto che venga effettuata con legge ordinaria, non appena la riforma costituzionale verrà promulgata in base all’esito del referendum.
Nel 2015 si rifece la legge elettorale con il c.d. Italicum, prima che la riforma costituzionale fosse approvata. La Corte costituzionale, che aveva già dichiarato illegittimo il c.d. Porcellum, giustamente differì lo scrutinio sull’Italicum, che disciplinava le elezioni della sola Camera dei deputati (il Senato, nella riforma del 2016, sarebbe stato composto da rappresentanti di Regioni e comuni), a data successiva al referendum del dicembre 2016. Il referendum bocciò la riforma; la Corte costituzionale dichiarò illegittimo l’Italicum; il Parlamento scrisse inutilmente la legge elettorale, pensata per una riforma costituzionale respinta e dichiarata costituzionalmente illegittima [cfr. G. Ferri (a cura di), Corte costituzionale e leggi elettorali delle Camere, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2017].
La rappresentatività del Parlamento non è garantita dal numero dei suoi componenti (600 in due Camere con pari poteri sono più che sufficienti), bensì dalla legge elettorale, che ciascuno scrive a propria misura e piacimento. L’elettore e gli eletti non esistono in natura: sono creati dalla legge elettorale, che fa cose con regole.
Il c.d. Rosatellum, oggi vigente, ha numerose pecche, la principale delle quali è costituita dalle liste bloccate, che consentono, esse sì, alle segreterie di partito di scegliere i candidati e i collegi in cui presentarli, senza alcun nesso con il territorio.
Anche la legge elettorale, come quella di revisione delle circoscrizioni elettorali, viene logicamente e giuridicamente dopo la riforma costituzionale, essendo leggi ordinarie che presuppongono la promulgazione della riforma costituzionale.
La riforma elettorale c.d. Germanicum (sul modello proporzionale tedesco con clausola di sbarramento del 5%) in discussione alle Camere è, come ogni legge proporzionale, quella che meglio garantisce il rispecchiamento delle espressioni di voto degli elettori, traducendole in corrispondenti seggi nelle due Camere, con il correttivo della clausola di sbarramento per evitare un’eccessiva frammentazione delle forze politiche. Con l’aggiunta delle preferenze consentirebbe di legare i rappresentanti ai territori, aumentandone la responsabilità e riducendo auspicabilmente il nostro ancestrale trasformismo.
I Padri costituenti non vollero costituzionalizzare la legge elettorale, neppure nei criteri per scriverla: il risultato è stato che ogni variabile maggioranza la modifica a proprio comodo e gusto (lo fece persino De Gasperi con la c.d. legge truffa del 1953). In Germania la legge elettorale è da anni sempre la stessa: in base all’esito delle votazioni, le forze politiche debbono concordare patti di governo per assicurarsi la maggioranza nel Bundestag, inverando l’arte della politica, attraverso il negoziato e il compromesso possibile, che sono il sale della democrazia rappresentativa e pluralistica. Dove manchino negoziazioni e compromessi, lì saremmo al cospetto di regimi autoritari e autarchici, anche quando vi siano parlamenti affollati e pletorici, come l’inutile parlamento cinese.
Tornando alla revisione delle circoscrizioni elettorali, anch’essa affidata a legge ordinaria, il Parlamento ha già approvato la legge 27 maggio 2019, n. 51, contenente “Disposizioni per assicurare l'applicabilità delle leggi elettorali indipendentemente dal numero dei parlamentari”, che ha determinato il numero di seggi da attribuire nei collegi uninominali e nei collegi plurinominali sulla base di un rapporto frazionario, la cui applicazione restituisce gli stessi numeri attualmente fissati, anche in caso di riduzione del numero dei parlamentari. La legge n. 51 del 2019 reca altresì una delega al Governo per la determinazione dei collegi per l’elezione della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica: delega da esercitare qualora sia promulgata la legge costituzionale che modifica il numero dei componenti delle Camere, sulla base dei principi e dei criteri direttivi previsti dall’art. 3 della legge medesima, che in gran parte richiamano quelli individuati dall’art. 3 della legge n. 165 del 2017, oggi vigente.
- Crisi endemica, abuso della decretazione d’urgenza e ruolo del Parlamento
Chi dunque parla di vulnus per la rappresentatività o, ancor peggio, per la democrazia rappresentativa per effetto della riduzione da 945 a 600 del numero complessivo dei parlamentari, o non sa quel che dice o costruisce e propala soltanto complicati e ingannevoli sofismi. Le aule del Parlamento, per quanto “sorde e grigie”, non verranno ridotte a “bivacco di manipoli” sol perché vi saranno 345 parlamentari in meno.
È noto che tutti i governi occidentali, quale che sia la forma costituzionale adottata, procedono per lo più mediante interventi legislativi nelle forme della decretazione d’urgenza, analoghe al paradigma di cui al nostro art. 77 Cost. Come hanno notato, con varietà di visioni e di accenti, Carl Schmitt, Alexandre Kojève, Michel Foucault e Giorgio Agamben, la politica nel postmoderno contesto dell’economia finanziaria globale è divenuta amministrazione. La crisi (economica, finanziaria, sanitaria) – da espressione giudiziale e medica, che indicava il giudizio come scelta tra il bene e il male, tra la ragione e il torto, tra la salute e la malattia, tra la vita e la morte – è divenuta dispositivo di governo e strumento di esercizio del potere “governamentale” (per usare l’espressione di Foucault), in ossequio al motto reso celebre dal rude pragmatismo di Margareth Thatcher: TINA, “There Is No Alternative”. Tutti i governi adoperano strumenti normativi analoghi ai nostri decreti legge, emessi per iterative, eccezionali e improrogabili ragioni di necessità e urgenza, legate a questa o a quella crisi, ormai endemica al viver nostro; decreti che le Camere debbono convertire in legge entro sessanta giorni, a norma dell’art. 77 Cost.: e usualmente la conversione in legge avviene sulla base di un maxiemendamento governativo, ponendo la questione di fiducia, il cui rigetto determinerebbe una crisi di governo (crisi da crisi…).
Nel secolo ventesimo primo in Italia e nel mondo si legifera precipuamente in tal modo: tutti i governi italiani, da più di un quarto di secolo, l’hanno fatto, lo fanno e continuano a farlo, di qualunque colore politico essi siano, ancor più quando siano governi c.d. tecnici. Il che dovrebbe rendere ben avveduti e attenti nell’invocare questo o quel tecnico quale salvatore della patria, specialmente quando provengano dal brodo di coltura del pensiero unico neoliberista a matrice finanziaria.
È questo costante e consolidato modus operandi a indebolire il ruolo del Parlamento, non certo la riduzione di un terzo nel numero dei componenti di questo con criterio proporzionale e simmetrico nelle due Camere.
- I costi risparmiati e non solo
Veniamo, last but not least, ai costi risparmiati, che sono ragguardevoli. Il Prof. Roberto Perotti della Bocconi, che si è variamente occupato di spending review tanto cara al pensiero neoliberista, ha stimato in 80-100 milioni di euro all’anno il risparmio ottenibile, circa mezzo miliardo di euro in una Legislatura di cinque anni (mille miliardi di vecchie lire). Altre stime giungono a circa 60 milioni di euro per annum.
Quale che sia il risparmio, comunque assai consistente, appare riduttivo dire che è nulla rispetto al debito pubblico italiano. È semmai un esempio, finalmente virtuoso, che i rappresentanti eletti danno ai rappresentati elettori sulla necessità di evitare sprechi di denaro pubblico, a cominciare da sé medesimi, tanto più a petto della devastante crisi pandemica ed economica in corso.
Credo che quest’ultima banalissima considerazione dia la misura dell’infondatezza degli argomenti contrari alla riduzione del numero dei parlamentari. Seicento parlamentari in due Camere con poteri equivalenti bastano e avanzano, anche nel confronto con altri parlamenti di varie democrazie occidentali; saranno, si spera e confida, più responsabili, presenti ed efficienti; perderanno meno tempo, si organizzeranno meglio e lavoreranno di più nell’interesse della nazione tutta, giusta quel che prevede l’art. 67 Cost. (“Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”).
Votare no significa paralizzare le riforme e dare un pessimo segnale di mero conservatorismo, non di democrazia.
Se poi si ridurranno da 25 a 18 anni l’età per esercitare il voto anche per l’elezione del Senato (art. 58 Cost.) e il numero dei rappresentati regionali per l’elezione del Presidente della Repubblica (art. 83 Cost.), secondo disegni di legge costituzionale già in discussione alle Camere, il quadro risulterà pienamente coerente. Ma anche queste modifiche sono un posterius, che ben può venire dopo la riduzione del numero dei parlamentari.
Il numero dei parlamentari non è quello della Costituzione del 1948: venne portato quasi a mille (630 alla Camera e 315 al Senato) nel 1963, secondo la logica clientelare allora seguita dalla Democrazia cristiana.
La riduzione di un terzo, 345 parlamentari in meno, è un titolo di merito di cui questo Parlamento può legittimamente fregiarsi. La Camera dei deputati ha approvato la riforma, in ultima votazione, quasi all’unanimità dei presenti e dei suoi componenti (553 su 630). Il Senato, in seconda votazione, solo per una manciata di voti (180 su 315) ha mancato la maggioranza rafforzata dei due terzi, che avrebbe reso non proponibile il referendum, ai sensi del comma 3 dello stesso art. 138 Cost.
Perché mai dovremmo smentire i nostri rappresentanti, liberamente eletti, che hanno inteso autoridursi per numero, dopo lunga trafila e con maggioranze ultraqualificate? Perché la riforma è populista? No, è una riforma voluta dai rappresentanti del popolo, cui appartiene la sovranità e che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione, come recita l’art. 1, comma 2, Cost. Quei parlamentari che, pur avendo approvato la riforma con maggioranze quasi plebiscitarie, si fanno ora promotori e seguaci del no, compiono il revirement per quell’opportunismo scaltro che connota l’italica progenie, in un paradossale giuoco pirandelliano delle parti.
Votare sì a questa riforma non modificherà i costumi, i mores di noi italiani e dei nostri rappresentanti, acquisiti in secoli di contrapposizioni e di lotte, di tradimenti e di intrighi che hanno diviso l’Italia, lascito e pegno ad un tempo di altezza d’individuali ingegni e di rovina collettiva e politica [cfr., si paret, A. Tedoldi, Savonarola. Il profeta disarmato, Pacini Editore, Pisa, 2020].
È, tuttavia, una riforma che, per quanto circoscritta e perfettibile (nulla è perfetto in hoc mundo…), contiene in sé germi fecondi di novità (un parlamento che si autoriduce nel numero), che potranno recare molti frutti, se ciascuno di noi darà il proprio contributo nella migliore disposizione di spirito.