William Roberts - (Hackney, UK, 1895-1980) - The Control Room
I bottoni delle riforme
di Massimo Biondi
Vedremo quale seguito avrà l’esperienza politica personale di Matteo Renzi. Intanto si può trarre qualche insegnamento dalle sue disavventure e da quelle di chi prima di lui si è proposto come riformatore politico.
Il primo, in anni recenti, fu Craxi, il quale prima ancora del Paese si adoperò per riformare la sinistra, o almeno una certa idea della sinistra che era rappresentata largamente dal PCI di Berlinguer. Craxi ebbe come avversari irriducibili, oltre allo stesso PCI, il sindacato, la magistratura e, in parte, la burocrazia, almeno in rapporto a qualche tentativo di metterci le mani (la grande riforma del sistema Italia, si disse). Quanto alla magistratura è ormai storia il fatto che “il cinghialone” fosse target del pool mani pulite, il cui conseguimento segnò il giro di boa dell’indagine.
Anche Berlusconi fu combattuto più o meno dalle stesse forze: PCI, nelle sue nuove denominazioni, sindacato, burocrazia, magistratura. Il progetto di Berlusconi, al netto degli obiettivi più personali, andava oltre la sbandierata lotta al comunismo, già moribondo di suo: pensava di riformare la Repubblica “nata dalla resistenza”, che a suo giudizio manteneva eccessive tracce dell’antifascismo come fatto politico-culturale, dietro la cui retorica si perpetuavano tra l’altro posizioni di potere – magari solo di veto – e di privilegio. Le riforme berlusconiane si arenarono su scogli anche simbolici come la separazione delle carriere dei magistrati e l’articolo 18 dello statuto dei lavoratori e furono affondate dal referendum costituzionale respinto dai cittadini. I quali, sia detto, anche in quel caso, come poi nel caso di Renzi, votarono molto più contro il proponente che contro le proposte.
Matteo Renzi ha conquistato a sorpresa il PD, sottraendolo al dominio e alla gestione degli ex comunisti che per questo lo hanno ferocemente combattuto. La sua sinistra non sarebbe dispiaciuta a Craxi né le sue riforme a Berlusconi, che sembrava propenso a sostenerle. Però il rampante giovanotto ha urticato il declinante ma influente miliardario per eleggere un presidente della Repubblica proveniente dalla magistratura, come già il presidente del Senato, e gradito ai suoi acerrimi nemici della sinistra PD. I quali hanno incassato forse fregandosi le mani ma senza deporre le armi.
I nemici di Renzi sono stati sostanzialmente gli stessi di Craxi e Berlusconi, i soliti: PCI – rappresentato dai suoi epigoni – sindacato, burocrazia, magistratura. E a quelli si aggiunsero in sede di referendum costituzionale le folte schiere di forze trasversali alle quali avrebbero nociuto sul piano degli interessi e delle opportunità personali la riforma del Senato, l’abolizione delle province e il ridimensionamento dei poteri regionali.
Riepilogo: tre potenziali riformatori battuti non dalle parti politiche dichiaratamente avverse – destra o sinistra che fossero – ma da altri poteri e altri interessi nonché dal corpo elettorale.
In tutti i casi – ed è curioso ma significativo - l’opposizione venne anche dal quotidiano un po' leader culturale, politicamente: la Repubblica, già considerato espressione della borghesia illuminata, colta e progressista, un gruppo sociale di ardua individuazione e collocazione in Italia. L’opposizione a Renzi è stata leggermente meno radicale di quella ai suoi predecessori, ma forse solo per la ridotta veemenza dello Scalfari ultranovantenne e il minore talento di chi si è trovato a sostituirlo.
Negli intervalli qualche tentativo parziale fu operato anche da governi tecnici o quasi, ma pure quelli sono stati vittima del surrettizio sabotaggio dei risaputi affossatori.
Se ne dovrebbe perciò dedurre che la lotta politica nella Repubblica italiana è stata quasi tutta esterna al Parlamento, suo luogo istituzionale, fin da quando maturava nelle stanze riservate della DC, e che i cittadini in fondo per le riforme non hanno grande passione. Come d’altra parte in maggioranza non ce l’hanno per la politica.
Le prospettive del riformismo, dovunque si nasconda attualmente, sono perciò ben poco incoraggianti.
La conservazione dello status quo si consolida giorno dopo giorno anche attraverso tutto ciò che chiamiamo antipolitica. L’insieme cioè delle azioni intese a indebolire ulteriormente la politica addebitandole fenomeni dei quali è responsabile solo in parte: la crescita che non c’è, o è minima; la disoccupazione; il peso fiscale elevato; le mediocri prestazioni dell’amministrazione pubblica; le preoccupazioni per il futuro; le disuguaglianze crescenti, che riguardano la ricchezza ma anche i lavoratori, cioè quella profonda disuguaglianza tra i molto tutelati e i non tutelati affatto.
E, naturalmente, viene addebitata alla politica anche la corruzione, pur se da un bel pezzo pare evidenziarsi che il peggio non sta tanto in Parlamento quanto nei poteri locali e nella burocrazia, il cui interessato contributo basato principalmente sui diffusi poteri di veto parrebbe un indispensabile fattore abilitante.
A breve potrebbe partire un ulteriore tentativo riformista, sempre che l’ipotesi non venga scongiurata in partenza da una legge elettorale che rende il Parlamento un luogo di sviluppo dell’entropia.
Difficilmente un nuovo governo, qualunque, potrebbe evitare di definirsi riformista. Se non che, vista la situazione è probabile che i nuovi governanti, una volta entrati nella cosiddetta stanza dei bottoni, si trovino a constatare, come Nenni e il centro-sinistra organico degli anni ’60, che i bottoni stanno altrove.