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Peacemaker: un’elegia all’ambivalenza, tra promesse di pace e ombre di potere
di Achille De Tommaso
Il termine “Peacemaker”, un’eco linguistica che risuona dalle terre anglofone, si compone di due sillabe evocative: “peace” (pace) e “maker” (creatore, artefice). In questa fusione di parole, si cela un’aspirazione antica quanto l’umanità stessa: la creazione, o il ristabilimento, di un’armonia perduta, la fine di un conflitto che lacera la convivenza. Ma dietro questa apparente semplicità, si cela un’ambiguità profonda, un’ombra che si allunga sul significato stesso del termine, trasformandolo da inno alla concordia in strumento retorico al servizio del potere.
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“Peacemaker” non trova un corrispettivo univoco nella lingua italiana. Tentativi di traduzione come “pacificatore” o “artefice della pace” non riescono a catturare appieno la complessità semantica del termine inglese. “Pacificatore” evoca un’aura spirituale, una figura quasi messianica, mentre “peacemaker” abbraccia una dimensione più pragmatica, terrena, spesso intrisa di politica e, talvolta, persino di strategia militare. Questa differenza non è puramente lessicale, ma riflette una diversa concezione del ruolo di chi si impegna per la pace. In italiano, il pacificatore sembra appartenere a una sfera ideale, quasi trascendente; in inglese, il “peacemaker” è un attore concreto, un abile negoziatore, immerso nelle dinamiche del potere.
Le radici del termine “peacemaker” affondano in un terreno fertile di riferimenti religiosi, in particolare nel cristianesimo. L’eco più significativa risuona nel Vangelo secondo Matteo (5:9), dove, nel Sermone della Montagna, Gesù proclama: “Beati i pacifici, perché saranno chiamati figli di Dio”.
Questo versetto chiave eleva i “pacifici” a una posizione di particolare benedizione e vicinanza al divino. Ma in realtà questi “pacifici” non sono quelli che godono della pace, ma quelli che la costruiscono. La parola greca originale utilizzata nel Vangelo è infatti “εἰρηνοποιοί” (eirenopoioi), che può essere tradotta letteralmente come “operatori di pace”, “creatori di pace” o, appunto, “peacemakers”.
È importante sottolineare che, nel contesto biblico, l’essere “pacifici” non si limita all’assenza di conflitti esterni, ma implica anche una profonda pace interiore, una disposizione d’animo volta alla concordia, alla riconciliazione e all’armonia. I “peacemakers” sono coloro che attivamente si impegnano per costruire la pace, non solo evitando la violenza, ma anche promuovendo la giustizia, la comprensione e il perdono.
Questo richiamo biblico ha impregnato profondamente la cultura anglosassone, conferendo al termine “peacemaker” una connotazione morale e spirituale che persiste ancora oggi, seppur affiancata da significati più pragmatici e politici. L’idea di “peacemaker” come figura quasi sacra, investita di una missione divina di riconciliazione, ha contribuito però a idealizzare e nobilitare il ruolo di chi si impegna per la pace, anche in contesti secolari.
Quando la Pace Diventa Pretesto
È proprio in questa transizione dal sacro al profano, dal morale al politico, che si manifesta la profonda ambivalenza del termine. Un’analisi critica rivela come le potenze abbiano spesso brandito il vessillo del “peacemaker” per giustificare interventi che, a un’analisi più attenta, si rivelano guidati da interessi geopolitici, economici e militari. L’intervento umanitario diventa una scusa per l’ingerenza negli affari altrui.
L’uso del termine “peacemaker” diventa allora un’operazione retorica sofisticata, un’arma a doppio taglio che mira a conquistare il consenso interno e internazionale, dipingendo l’azione militare come un nobile sforzo per la pace. Ma dietro questa facciata di idealismo, si celano spesso strategie di controllo delle risorse, di espansione dell’influenza politica e di mantenimento dell’egemonia.
L’ambiguità del “peacemaker” non si limita al piano politico, ma affonda le sue radici anche nella psiche umana. Chi si autodefinisce “peacemaker” è spesso animato da sinceri ideali di pace e giustizia, da un desiderio autentico di porre fine alla sofferenza e alla violenza. Ma questa aspirazione altruistica può coesistere, a volte in modo inquietante, con pulsioni di potere, con la volontà di imporre la propria visione del mondo, di plasmare la realtà secondo i propri interessi.
Il “peacemaker” diventa allora una figura complessa, un intreccio di luce e ombra, di idealismo e pragmatismo, di altruismo e ambizione. La sua azione è sempre sospesa tra la nobile aspirazione alla pace e il rischio di diventare uno strumento del potere, un burattino nelle mani di forze che lo trascendono.
Il termine “peacemaker” solleva anche interrogativi filosofici profondi sulla natura della pace e del conflitto. La pace è un’utopia irraggiungibile, un ideale che si scontra inevitabilmente e ineluttabilmente con la realtà della storia umana, segnata da guerre e violenze? O è invece una possibilità concreta, un obiettivo per cui vale la pena lottare, anche a costo di compromessi e ambiguità?
Il “peacemaker” si trova a navigare in questo mare di contraddizioni, cercando di conciliare l’ideale con il reale, l’aspirazione alla perfezione con la necessità di agire in un mondo imperfetto. La sua azione è sempre un tentativo, un’approssimazione, un fragile equilibrio tra forze contrastanti.
L’eredità del “peacemaker” è un monito per il presente, un invito a guardare con occhio critico le retoriche del potere, a non confondere la pace con la sua immagine idealizzata. Ci ricorda che la vera pace non è la semplice assenza di conflitto, ma la costruzione di una convivenza giusta e inclusiva, basata sul rispetto dei diritti umani e sulla risoluzione pacifica delle controversie. Il “peacemaker” autentico non è colui che impone la propria volontà con la forza, ma colui che ascolta, che media, che cerca il dialogo e la comprensione reciproca. È colui che riconosce l’ambiguità del proprio ruolo e si impegna costantemente per superarla, per trasformare la promessa di pace in una realtà concreta.
In un mondo ancora segnato da conflitti e disuguaglianze, la figura del “peacemaker” rimane un’esigenza ineludibile.
Al momento vista come una sfida, e forse solo un’aspirazione.