Aggiornato al 17/04/2024

Non sono d’accordo con quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo

Voltaire

Sergio Nicolò De Bellis (Castellana Grotte, 1898 – Milano, 1946) – Ritratto di Antonio Gramsci

 

Bersani, D’Alema e Speranza pensano di essere: Bordiga, Gramsci e Togliatti…. Ma forse è vero

di Tito Giraudo

 

In questi giorni in cui si discute la possibilità di scissione a sinistra nel PD, si è evocata la scissione di Livorno. Ci sono analogie? Vale la pena di discuterne.

Indubbio che quella fu una scissione a sinistra. In genere gli scissionisti rivendicano sempre posizioni intransigenti. Il contendere era la decisione dell’Internazionale di espellere dai Partiti Socialisti le correnti riformiste. Nel caso italiano i Turatiani.

Come sempre avviene nelle scissioni, esiste un motivo scatenante ma i prodromi sono parecchi e vengono da lontano.

Nel caso specifico, anche se sollecitata da Mosca, la scissione aveva cause ideologiche, ma anche generazionali. L’assurdità fu che la stragrande maggioranza nel Partito era su posizioni massimaliste intransigenti, anche se non prone ai voleri dell’URSS.

I Socialisti venivano da una grande vittoria elettorale, quella del 19. Il dopo guerra, con le sue contraddizioni economiche, non favorì solo i socialisti ma anche il nuovo Partito Cattolico: i Popolari.

I liberali giolittiani ne uscirono fortemente ridimensionati, la lunga stagione dell’uomo di Dronero, uno dei pochi lucidi riformisti con Cavour partoriti nel nostro Paese, volgeva al termine anche per ragioni anagrafiche. Tuttavia, Giolitti aveva ancora molte carte da giocare, la prima era quella di Turati, invano. Dovette rassegnarsi, forse torto collo, a giocarsi quella di Mussolini.

Le elezioni nel 19 per l’Italia furono veramente uno snodo. Il Partito Socialista nel suo complesso era massimalista, le sirene rivoluzionarie provocate dalla Rivoluzione d’Ottobre, suonavano incessantemente. Turati e i riformisti si erano fortemente indeboliti, soprattutto per non aver reagito alla cacciata di Bissolati e Bonomi del 1910, e poi c’era lui: Turati, un fior di galantuomo ma un pessimo tattico e organizzatore; aveva tentato prima della guerra di collaborare con Giolitti ma, un po’ per differenze caratteriali, un po’ per lo sterile estremismo del suo Partito, non se ne fece nulla o quasi nulla.

Quelle elezioni si caratterizzarono per la crescita socialista, ma soprattutto per la grande affermazione dei Popolari, il Partito cattolico di Don Sturzo.

Quello fu il momento in cui si sarebbero potuto cambiare i destini del Nostro Paese. Di fronte alla riottosità socialista per una collaborazione governativa, Turati, avrebbe dovuto fare quello che fece nel 22: dichiarare la volontà di collaborazione con Giolitti. L’avrebbero cacciato, ma quel Partito riformista nato morto nel 22 alla vigilia della Marcia su Roma, probabilmente avrebbe fatto la differenza, e tra i Popolari non sarebbero prevalsi i conservatori.

Come andò a finire lo sanno tutti.

Torniamo a quel post elezioni. Non solo i Socialisti tennero una posizione sterile e massimalista. Al loro interno nacque una fronda che contestava il parlamentarismo e cioè quei deputati che pur parlando di Rivoluzione, stavano comodamente seduti nel loro scranno.

A Torino, poi, un gruppo di giovani ispirati dal Leninismo e da una superficiale interpretazione del ruolo degli operai nella rivoluzione d’ottobre, si dedicarono ad una riedizione del Sindacalismo rivoluzionario. Dato che erano praticamente tutti dei professorini e che al loro interno c’era una mente teorica come quella di Gramsci, fecero nascere un settimanale, l’Ordine nuovo, che teorizzava la rivoluzione partendo dalle fabbriche.

Per spiegarmi meglio potremmo fare il raffronto con i sessantottini, nati con sacrosante rivendicazioni studentesche,  ben presto si dedicarono alle fabbriche e all’indottrinamento operaio. Il movimento sindacale aveva faticosamente trovato l’unità consentendo la ripresa sindacale. I sessantottini, quindi, trovarono terreno fertile per quel bailamme che rischiò di distruggere lo stesso Sindacato.

Torniamo al biennio rosso, questi interessò soprattutto il triangolo industriale, in particolare Torino.

Gli Ordinovisti, fecero proseliti approfittando della crisi dovuta alla riconversione industriale del dopo guerra, Per due anni Torino, ma in genere il nord Italia, fu squassato da lotte sindacali sempre con risvolti politici, che culminarono, dopo la serrata confindustriale, nell’occupazione delle fabbriche.

Per farla breve, in Italia non c’erano certo le condizioni rivoluzionarie che i bolscevichi trovarono in Russia. Dopo i primi entusiasmi, l’occupazione iniziò a pesare e come sempre succede andò scemando.

Giolitti, fin dai suoi primi Governi aveva adottato la tattica di non intervenire, lo stesso fece in quei frangenti. Quando gli operai abbandoneranno le fabbriche, la vittoria fu quella di Pirro. Ottennero risultati simbolici ma fu l’inizio della fine. Quegli ambienti industriali che non erano conservatori, tantomeno fiancheggiatori del Fascismo, iniziarono a considerare Mussolini il minore dei mali.

Gramsci, Togliatti, Terracini e soci, furono molto criticati e dichiarati avventuristi nel Sindacato e in parte anche nel Partito. Probabilmente sarebbero stati emarginati se non fosse intervenuta l’Internazionale socialista, appunto con quella decisione di cacciare le correnti riformiste.

Il vero leader di quella scissione fu Bordiga. Un ingegnere duro e puro che da anni combatteva il parlamentarismo nel suo Partito. Persa la battaglia al congresso socialista di Livorno, i bordighiani (che avevano anzitempo prenotato il teatro), in corteo, cantando l’Internazionale, si recarono là dove fecero nascere il Partito Comunista.

Naturalmente c’erano anche gli Ordinovisti che inizialmente non furono la forza preminente di quel nuovo Partito, anche se Gramsci entrò nella direzione.

Ho fatto la storia in pillola per arrivare a una constatazione. Quella scissione avvenne perché la maggioranza del Partito pur auspicando di fare come in Russia si rifiutò di cacciare Turati che come obbiettivo finale del suo riformismo anche lui voleva fare come in Russia. I Bordighiani, naturalmente non solo volevano fare come in Russia, da soli, e in ottemperanza ad un capriccio momentaneo dell’Internazionale, in quanto più volte sotto l’egemonia sovietica cambieranno idea.

Una cosa da neurodeliri fu quella scissione. Se quella che si sta preparando ci sembra incoerente e strumentale lascio ai miei lettori giudicare quella.

E’ la maledizione delle sinistre, il frazionismo che marcia sempre contro le assunzioni di responsabilità.

Prendiamo l’Ulivo, fu l’aperitivo del Partito Democratico di Veltroni. Mani Pulite aveva graziato gli ex comunisti, non solo gli aveva levato di torno un concorrente scomodo: Bettino Craxi ma pure la DC, a parte la sua sinistra.

Finalmente si poteva fare il compromesso storico, anche se con i resti Democristiani.

Berlinguer sarà anche stato un galantuomo (lui poteva non sapere?), s’inventò la fantasiosa teoria del compromesso storico. Invece di perseguire l’Unità delle sinistre preferì dialogare con i Democristiani. Si badi bene con i Democristiani, non con i Cattolici di sinistra presenti nella DC. Il tutto non abbandonando i miti del PCI, soprattutto la “spocchia” del PC, quel tarlo per cui si infonde, non solo nella classe dirigenti, ma pure nei militanti. Era certamente una delle eredità Gramsciane perpetuate da Palmiro Togliatti che si dice lo abbia lasciato marcire nelle carceri fasciste, un po’ perché ormai Palmiro era il Numero uno, un po’, sempre si dice, perché Gramsci aveva delle perplessità sul Comunismo Sovietico.

Gramsci, scrisse i quaderni dal carcere isolato dai suoi stessi compagni per poi diventare, nel dopoguerra, il Santino del Comunismo nostrano.

Sulla figura di Gramsci pesa certamente il martirio delle carceri fasciste. Lo storico, non può però dimenticare che Gramsci teorizzò la dittatura del proletariato che non ha nulla a che fare con la Democrazia. E non mi pare si sia mai pentito.

Con questi ascendenti, dopo la scomparsa di Berlinguer, il muro di Berlino, la svolta della Bolognina e poi Mani Pulite (su quest’ultima, a proposito della Magistratura di sinistra faccio il Bersaniano: chi semina, raccoglie!), nulla in quel PCI fu come prima. Tranne la spocchia.

Spocchia però che non impedì il realismo: si doveva governare per interposta persona. La trovarono in Prodi. Sbagliando i conti. Il vecchio PC sbandierava l’unità, quella degli utili idioti! Con Prodi sbagliarono: utile sì, ma tutt’altro che idiota, sapeva governare e si rafforzava sul piano personale, inoltre dietro la sua bonomia era cattivo quel tanto che bastava. Se Renzi, sufficientemente cattivo pure lui, è diventato segretario del PD, a mio parere lo deve anche a Prodi. L’unico concorrente del Cavaliere a sinistra venne segato dalla sinistra e poco importa se i nomi dei falegnami sono i D’Alema o i Bertinotti, oppure i Giudici che costringeranno a dimettersi il Ministro della Giustizia, quel Mastella che uscendo dalla maggioranza metterà definitivamente la parola fine all’Ulivo.

IL PD, Veltroni e poi Bersani sono storia recente. IL PD, ormai è chiaro è stata una fusione a freddo  tra ex Comunisti ed ex Cattolici di sinistra: una fusione propiziata da Scalfari e dal suo editore, la tessera n.1.

Il PD, ma anche prima le varie declinazioni del PCI, non erano più il Partito di Antonio Gramsci e Palmiro Togliatti ma quello dell’ex Liberale, ex Radicale, ex Socialista: Eugenio Scalfari: detto Barba Papà, e da Carlo De Benedetti detto: “l’uomo che vendette alle Poste Italiane 10.000 telescriventi nell’era dei Fax”.

Evidentemente, Bersani e D’Alema pensano ancora di essere espressione del PCI. Non sentono Speranza quando parla nel “nostro popolo”. Uno crede siano i Lavoratori ma no! Sono i professori incazzati. Povera Italia…….

 

Bibliografia

Renzo De Felice: Mussolini il Fascista (Einaudi)

Giorgio Bocca: Togliatti (Laterza)

 

Inserito il:18/02/2017 19:31:15
Ultimo aggiornamento:18/02/2017 19:41:27
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