Aggiornato al 21/12/2024

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Voltaire

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Per Israele e la Palestina, una “utopia concreta”

di Giacomo D. Ghidelli

 

Ci sono libri che uno non vorrebbe mai scrivere. Ma poi, quello stesso qualcuno, sa anche che quel libro deve proprio scriverlo.

È questo quello che è accaduto a Gad Lerner, che ha condensato questo suo stato emotivo nel titolo del suo volume “Gaza, odio e amore per Israele”.

Un libro che – se fosse stato scritto da un’altra persona – si sarebbe probabilmente attirato la definizione di antisemitismo. Mentre è un libro che dovrebbe innanzitutto far pensare, aiutando tutti a sviluppare un punto di vista non settario.

Questo infatti è un libro che lancia uno sguardo addolorato su Israele per le nefandezze che sta compiendo che la rendono “indifendibile”. Addolorato perché chi lo scrive è, per l’appunto, un ebreo. Ma è anche un testo che invita a indagare tutti i risvolti della posizione anti-Israele, alcuni dei quali ingiustificabili.

Il focus è sull’attuale governo del premier Nethanyau che è arrivato a includere nel suo governo i peggiori esponenti della destra fascista e razzista. Un giudizio che non è soltanto di Lerner ma è anche, ad esempio, di Moshe Ya’alon, ex capo di stato maggiore delle forze armate, poi parlamentare del Likud e ministro della Difesa, il quale, durante una manifestazione antigovernativa, ha affermato dal palco: “Nella vita ne ho viste tante, ma non avrei mai creduto di trovarmi di fronte a degli ebrei fascisti e razzisti!”. E chi pensa che – paradossalmente – questa sia una frase antisemita dovrebbe leggere ciò che ha scritto il più antico quotidiano di Israele il quale, subito dopo l’8 settembre, ha sostenuto che per quello che è successo va accusato il governo di Nethanyau, per la sua azione di esproprio e di oppressione dei palestinesi, aggiungendo che il tentativo continuo di pulizia etnica è in atto da anni e negare l’evidenza non ha alcun senso.

Affermazioni sostenute anche dall’elenco dei fatti. Si parte dall’esodo forzato cui furono costretti circa 700.000 palestinesi durante la guerra del 1948, al termine della quale il neonato Stato d’Israele aveva allargato il suo territorio del 50% rispetto al Piano di partizione approvato l’anno prima dalla Società delle Nazioni.

Si passa attraverso le stragi di Sabra e Shatila, e si arriva al luglio 2018 quando viene modificata la Costituzione dello stato di Israele: un intervento che modifica, dice Lerner, “il profilo che una nazione vuole dare di sé stessa”. In quell’occasione, per la prima volta, “Israele viene formalmente definito casa nazionale del popolo ebraico, tra le cui finalità compare lo sviluppo degli insediamenti ebraici come valore nazionale. Uno sviluppo degli insediamenti ebraici, si badi bene – aggiunge –, valorizzato senza alcuna delimitazione territoriale riguardo ai futuri confini dello Stato stesso. Uno schiaffo in faccia ai palestinesi, compresi gli arabi israeliani. E non è l’unico schiaffo. Nel seguito del testo viene stabilito che, correggendo la Dichiarazione del 1948, l’arabo smetta di essere affiancato all’ebraico come lingua dello Stato. Viene retrocesso, concedendogli solo uno status speciale”.

E con questa modifica viene definitivamente in chiaro che Israele ha abbracciato quell’ideologia che angosciava profondamente anche Primo Levi: in una intervista rilasciata a Lerner nel 1984, Levi metteva infatti in risalto il pericolo delle posizioni estremiste che sostenevano – con le parole del rabbino Kahane, i cui seguaci, fa notare Lerner, oggi sono al governo di Israele – la necessità di realizzare una “deportazione forzata dei palestinesi fuori dai confini della Grande Israele”.

Nulla di più sbagliato, annotava Levi. Il baricentro dell’ebraismo non può essere collocato in Israele, come pure il cambio della Costituzione avvenuto molti anni dopo quell’intervista suggerisce, ma deve essere collocato di nuovo, come un tempo, nella diaspora “dispersa e policentrica”, che da sempre è la casa del “filone ebraico della tolleranza” e dell’”universalismo.

Tolleranza e universalismo che alla fine dovranno prevalere.

Prevalere anche per i seguaci di Hamas, oggi in una posizione che si scontra in modo simmetrico con quella di Israele. Scrive Lerner: “Fin dal suo nome, che letteralmente significa “Movimento di resistenza islamico”, Hamas vincola e subordina la riscossa nazionale palestinese a un progetto religioso. Santifica la lotta armata come strumento di allargamento dell’influenza mondiale dell’islam. Per giustificare le sofferenze imposte alla propria gente nello scontro impari con il nemico sionista, teorizza la scelta del martirio, proposto ai giovani quale destino augurabile”. E infatti, prosegue Lerner, “Non a caso, all’indomani del 7 ottobre – dopo aver realizzato una vera e propria strage degli innocenti, scrive in altra parte del testo –, il primo messaggio indirizzato alla popolazione di Gaza dalla direzione politica di Hamas, insediata in Qatar, era l’invito a far propria la virtù del sacrificio. Quasi una giustificazione preventiva: adesso Israele scatenerà su di voi una vendetta senza precedenti, lo abbiamo calcolato, ma confidiamo nel vostro spirito di sopportazione. (…) Così le stragi di civili palestinesi perpetrate dalle forze armate israeliane di Tsahal, il bagno di sangue di Gaza, vengono spacciati per epopea provvidenziale. Quella che a noi pare una catastrofe abbattutasi su oltre due milioni di abitanti della Striscia, tanto da suscitare un moto di solidarietà nella gran parte dell’opinione pubblica mondiale, per Hamas è invece una catarsi necessaria, la purificazione che renderà i palestinesi degni di ricevere, quando Dio vorrà, la ricompensa che spetta ai devoti”.

Ma conclude l’Autore, "Quando israeliani e palestinesi avranno finito di contare i loro morti si troveranno davanti sempre al medesimo dato di fatto: nessuno dei due popoli che abitano in quel fazzoletto di terra ha un altro posto in cui andare. Dovranno conviverci, se non vorranno avere in comune solo un grande cimitero. Non basteranno la Bibbia e il Corano, e neppure le dottrine ereditate dal Medioevo, a regolamentare l’inevitabile convivenza. Requisiti indispensabili per convivere in pace come la democrazia, il pluralismo, lo Stato di diritto, la parità di genere, l’abolizione della schiavitù non erano concepibili e non potevano essere inscritti né nei Dieci Comandamenti biblici né nella sharia coranica”.

Una convivenza, aggiunge nell’ultimo capitolo, un “voltapagina della storia che oggi ci appare come un’utopia necessaria”.

Una “utopia concreta”, come quella praticata da chi, nel mezzo del conflitto, non interrompe i contatti con gli amici che ha dall’altra parte del confine; continua a recarsi ai checkpoint per accogliere bambini palestinesi in cura negli ospedali israeliani; promuove incontri fra le oltre 700 famiglie di Parents Circle che hanno perso dei congiunti in attentati, sparatorie, bombardamenti; manifesta per il cessate il fuoco, il rilascio degli ostaggi e lo sblocco degli aiuti umanitari”. E conclude: “Chi, dunque, se non gli utopisti israeliani e palestinesi, ci sta indicando le buone pratiche da opporre a una strage senza fine?”

Il cammino sarà lungo e a volte disperante, ma non possiamo fermarci.

 

Inserito il:28/09/2024 11:36:10
Ultimo aggiornamento:28/09/2024 19:01:13
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