La Liberté guidant le peuple - Eugène Delacroix - 1830 - Musée du Louvre - après restauration 2024
La Rivoluzione Francese (1) - L’Ancien Régime
di Mauro Lanzi
Si conclude con questa serie di conversazioni un argomento che abbiamo iniziato a trattare due anni fa, definendolo l’Età delle Rivoluzioni. Come ci siamo detti quando abbiamo iniziato a trattare questo tema, c’è stato un tempo nella storia recente del mondo occidentale in cui la gente ha avvertito la necessità di voltare pagina, di cambiare radicalmente le premesse su cui si era retta da secoli la vita delle nazioni: in questo periodo, durato in tutto circa un secolo, hanno avuto luogo eventi che hanno cambiato radicalmente la storia dell’umanità, perciò giustamente questo tempo è stato detto “L’Età delle Rivoluzioni”. L’era così chiamata ha inizio nel 1688/89 con la cosiddetta “Glorious Revolution” in Inghilterra, per proseguire con la Rivoluzione Industriale e la Rivoluzione Americana del 1776 e terminare infine con la Rivoluzione Francese.
Sono eventi diversi, solo in parte correlati tra di loro; ciascuno di essi ha comunque dato un contributo originale ed importante alla nostra civiltà e la vicenda che ci accingiamo a trattare, ci appare come il necessario punto di convergenza di tutti questi antecedenti, il punto di arrivo di un percorso iniziato un secolo prima, il compendio di tutte le esperienze e le idee nate nelle precedenti rivoluzioni; ma fu anche molto di più. Se oggi si parla di Rivoluzione, a che cosa siete indotti a pensare se non alla Rivoluzione per eccellenza, alla Rivoluzione Francese?
La Rivoluzione Francese è quindi uno degli eventi principali, anzi fondanti dell’Europa moderna e, in parte, di tutto l’Occidente, i valori da essa proclamati riecheggiano ovunque, in tante carte costituzionali, ONU compreso, sono parte della nostra morale e della nostra cultura. La Rivoluzione Francese è stato però anche un processo di grande complessità, partito da premesse moderate ed approdato a conclusioni estreme, una incredibile galleria di fatti, vicende, idee politiche, un percorso popolato da personaggi diversissimi tra di loro, meschini, eroici o tragici, mai banali, in ogni caso protagonisti di una storia corrusca ed affascinante, che cercheremo di ripercorrere insieme narrando fatti e cause, splendori e tragedie.
Cominciamo allora con una premessa ed un chiarimento: quando si pensa alla Rivoluzione Francese ed alle sue origini, la prima immagine che ci si presenta alla mente è la famosa frase attribuita a Maria Antonietta “Pourquoi ils ne mangent pas des brioches?” (in risposta a chi diceva: al popolo manca il pane): premesso che la frase, come la maggior parte delle frasi storiche, non fu mai detta, certo non dalla Regina, queste parole, che tutti ricordano, contribuiscono a dare un’idea totalmente sbagliata della Rivoluzione Francese, che di sicuro tutto fu tranne che una rivolta pauperista! Difatti è ormai accertato e convenuto da tutti che la Rivoluzione non scoppiò in un paese immiserito o al collasso economico, bensì in un paese fiorente, in pieno sviluppo economico, nella nazione più popolosa, più prospera, più acculturata di tutta Europa. La miseria, che pure esisteva, esacerbata anche da ricorrenti carestie, era comunque un fatto endemico in tutto il continente; poté provocare delle sommosse (ed alcune ve ne furono in Francia proprio nell’inverno dell’89) ma non poteva, ed in generale non può, generare i grandi rivolgimenti politici e sociali che presero l’avvio in quegli anni.
Le vere rivoluzioni, quelle che non si limitano ad abbattere un governo, ma danno luogo a grandi cambiamenti politici, sociali ed economici, si preparano a lungo, sotto superficie, ed esplodono in forma inattesa, con impeto irresistibile, che travolge spesso gli stessi fautori dei cambiamenti. Le cause vere della Rivoluzione Francese, che risiedevano, come vedremo, nello scollamento profondo tra realtà economica ed ordinamento politico, erano in corso di maturazione da più di un secolo, ebbero il collante ideologico del pensiero illuminista, esplosero infine per uno specifico fatto contingente, una grave crisi finanziaria.
Vediamo allora come nella realtà andarono le cose, cominciando a parlare dell’ordinamento politico della Francia nei secoli precedenti la Rivoluzione, quello che è stato definito da un grande storico, Alexis de Tocqueville, l’Ancien Régime.
L’Ancien Régime era una struttura che si reggeva su tre supporti, su tre gambe, nobiltà, clero, monarchia; tutti i ceti produttivi, agricoltori, mercanti, artigiani ed industriali, che pure avevano un peso determinante nell’economia della nazione ed erano anche ascoltati e rispettati dal Re e dal suo governo, non avevano alcuna presenza sulla scena politica.
In questo sistema ogni componente aveva un suo ruolo ed una sua funzione; il clero rappresentava la componente religiosa, essenziale per la stabilità del regime, perché il dovere di obbedienza al sovrano si fondava sull’investitura divina della persona del Re, investitura che spettava ai vertici della Chiesa Francese. Il clero, poi, svolgeva un ruolo sociale importante; attraverso le sue gerarchie e la predicazione nelle chiese era il principale, spesso l’unico, canale d’informazione per le masse illetterate, atto quindi a convogliare al popolo messaggi e disposizioni provenienti dai vertici del potere; il curato, poi, era il perno delle piccole comunità, soprattutto rurali: oltre che il prete del villaggio, era il notaio, lo scrivano, l’ufficiale di anagrafe, il maestro di scuola, il banchiere o l’usuraio, l’avvocato ed il rappresentante di quella povera gente nei confronti dell’autorità.
Non meno importante era il ruolo della nobiltà; il nobile o il feudatario aveva, in origine, come compito precipuo, la difesa del suo territorio da minacce esterne, ma era anche il governatore di quella regione, ne amministrava le risorse, curava le infrastrutture, strade, ponti, autorizzava o promuoveva fiere e mercati, era il rappresentante politico della sua gente nei confronti del Re e del suo governo; il “signore” riuniva quindi nella sua persona i diritti del proprietario, le funzioni dell’amministratore, del giudice, del capo militare e una sorta di delega politica; batteva anche moneta, il termine “signoraggio” deriva da questa consuetudine. I nobili, inoltre, fornivano i quadri per l’esercito e per la marina, reclutavano truppe, in caso di guerra, ricoprivano le massime cariche nel governo, nell’amministrazione pubblica e nelle ambasciate.
Il Re, infine, era la personificazione dello Stato, era il garante dell’unità e dell’integrità della nazione, era il primo giudice ed il comandante in capo dell’esercito.
Con il regno di Luigi XIV l’equilibrio politico tra queste tre componenti si altera in forma irreversibile in favore dell’assolutismo monarchico; Luigi aveva vissuto momenti drammatici nella sua gioventù, quando era stato costretto a fuggire da Parigi, in compagnia della madre e del Cardinal Mazzarino, per sottrarsi alla cosiddetta “Fronda” dei nobili, una rivolta guidata dal principe di Condè. Al momento della presa del potere, alla morte di Mazzarino, nel 1661, Luigi dichiara pubblicamente di voler governare senza un primo ministro, cancellando così il principale intermediario tra sé e l’esercizio del potere; poi, più subdolamente, si adopra per eliminare vincoli e limiti imposti al monarca dal retaggio di una feudalità ancora radicata e rispettata nelle province, perché non si dovesse più ripetere quanto vissuto nella sua adolescenza. Per ottenere questo risultato attira a Versailles la grande nobiltà (più di quattromila famiglie “presentate” a corte), la lusinga, la ricopre di regalie e benefici, la abbaglia con lo sfarzo e lo splendore di una vita di corte ammirata ed imitata in tutta Europa; per i nobili che dispongono, oltre ai proventi delle loro proprietà ( territori assai estesi e di grande valore, come apparirà dopo la vendita sotto il Terrore), di pensioni, prebende e appannaggi, non ci sono motivi per lamentarsi di questo nuovo stato di cose, dove ciò che importa è solo apparire; non si rendono conto che allontanandosi dalle loro terre, ormai affidate a intendenti o fiduciari, più o meno affidabili, perdono le loro radici, la loro identità, le loro ragioni d’essere, non svolgono più alcuna funzione nella società da cui provengono. Così la nobiltà perde ruolo e contenuti, diviene un inutile peso per la nazione. Le redini dell’esecutivo sono nelle mani del Re, di Luigi XIV, che aggiunge così altri compiti alle sue prerogative: diviene anche il capo della grande macchina amministrativa che controlla tutti gli aspetti dell’economia nazionale, a cominciare dal fisco e dalla finanza; quindi il Re è ormai il primo responsabile delle fortune o dei problemi della nazione.
Un declino analogo a quello della nobiltà colpisce il clero; con la cancellazione dell’Editto di Nantes, che garantiva la libertà di culto agli ugonotti, le frange protestanti sono costrette ad abbandonare il paese. Poi la condanna del giansenismo, toglie ogni significativo contenuto al dibattito religioso; infine, la soppressione dei Gesuiti, del 1763, abbatte le residue barriere opposte alla banalizzazione della fede e della religione: le gerarchie ecclesiastiche possono dimenticare ogni preoccupazione, cullarsi nell’ortodossia, godere dei vantaggi delle posizioni acquisite. Tutte le cariche di rilievo, vescovati, abazie, vengono rapidamente occupate da una vorace aristocrazia, che non si preoccupa affatto della cura delle anime a lei affidate, si preoccupa solo di riscuotere decime e prebende che vengono rapidamente dissipate nello sfarzo o nei bagordi di Versailles. Resiste solo il basso clero, i curati, che vivono di una misera congrua e condividono difficoltà e sofferenze dei loro fedeli; lo spettacolo del lusso in cui vivevano i loro superiori con le risorse sottratte alla Chiesa, non può che esacerbare i loro animi: così il clero non è più compatto, è attraversato da una pericolosa frattura, ha perso i suoi ideali e le sue motivazioni, le alte gerarchie sono oggetto di critiche e sdegno.
Al declino dei primi due “Stati” (la terminologia dei tre “Stati” è propria del medioevo, ma sopravviverà fino alla Rivoluzione) fa da contraltare la crescita impetuosa del Terzo Stato. Di fronte ai privilegiati che detengono tutte le leve del potere si levano le nuove forze del commercio e dell’industria, in mano ad una nuova. rampante borghesia; malgrado la giungla di dogane interne e pedaggi, le pastoie create dalle disparità di sistemi di pesi e misure e dai residui del regime corporativo, commercio ed industria si erano sviluppati in misura impetuosa nel corso dell’ultimo secolo. La Francia detiene il monopolio delle derrate coloniali, lo zucchero importato da Santo Domingo copre una metà dei consumi europei: le sete prodotte a Lione non conoscono rivali ed in genere, tutto quanto attiene al lusso, vini, liquori, stoffe, mobili viene prodotto e distribuito dalla Francia in tutta Europa. Anche l’industria, benché in ritardo rispetto alla Rivoluzione Industriale Inglese, conosce un periodo di grande rigoglio, persino nella metallurgia, che, importate attrezzature e tecniche inglesi, crea in Alsazia altiforni e ferriere di assoluto livello. Il settore agricolo, infine, solitamente il più depresso nel panorama economico di quei tempi, conosce pure il suo periodo di crescita; aumenta il numero dei piccoli proprietari che hanno acquistato un fondo con i propri risparmi, magari da un nobile indebitato; per quanto oppressi da decime, tasse, gabelle, corvée e servitù feudali, i contadini francesi godono di una situazione decisamente migliore dei loro fratelli italiani, tedeschi o spagnoli; l’aumento dei prezzi delle derrate alimentari, conseguente al miglioramento del tenore di vita nelle città, favorisce l’economia rurale e la progressiva emancipazione della piccola proprietà agraria. Il benessere discende dalla grande alla piccola borghesia fino alle classi più umili, il Paese si arricchisce, ne è prova l’incremento demografico; alla fine del XVIII secolo, la Francia conta con 25 milioni di abitanti, il doppio rispetto ad Inghilterra o Prussia.
Il potente sviluppo economico generato da industria e commercio provoca il proliferare delle banche, tutte in mano alla grande borghesia. Un fenomeno tutto francese è, poi, quello dei “fermier generaux”, appaltatori generali, che gestiscono per conto del Re la raccolta delle imposte indirette, gabelle, tabacco, bollo; sono finanzieri prim’ordine, che gestiscono un fiume di denaro, trattenendo per sé lucrosi aggi, e rivaleggiano per lusso e sfarzo con la grande nobiltà. In complesso, la borghesia, nella seconda metà del XVIII secolo, era giunta a possedere la maggior parte della ricchezza del paese, con commercio, industria e finanza; ai nobili ed al clero non restava che la proprietà terriera, ma mentre la borghesia progrediva di continuo, gli ordini privilegiati si rovinavano indebitandosi per far fronte alle crescenti spese della vita di corte.
La borghesia, che detiene il capitale, si impadronisce anche del primato culturale e del prestigio morale che ne deriva. I letterati, usciti dal suo seno, si sono da tempo affrancati dalla tutela della nobiltà; le loro penne non scrivono per il signore, ma per il grande pubblico, lusingano i suoi gusti, sostengono le sue rivendicazioni nei confronti delle classi privilegiate, ne forgiano le convinzioni; le differenze di status, le inferiorità legali, l’esclusione da cariche e carriere pubbliche sono il bersaglio preferito dei loro scritti, non sono più accettate supinamente, come fossero parte di un ordinamento divino . L’Illuminismo aveva posto sugli altari una nuova divinità, la Dea Ragione e aveva restituito alla politica una sua dimensione ideale, separata dal pensiero religioso. La religione tradizionale è relegata ad uso e consumo del popolino, anche nobili e clero leggono “l’Enciclopedia” o i testi di Rousseau, applaudono al “Matrimonio di Figaro”, la satira più audace e sanguinosa della casta nobiliare; a nessuno di questi gran signori che applaudono satire ed impertinenze, passa neppure per la testa che la sacralità dei titoli ecclesiastici e nobiliari, così come l’idea religiosa in sé sono la chiave di volta del regime di cui godono i benefici!! La Rivoluzione era già presente nelle menti, prima che nelle cose.
Quindi, come visto, dei tre supporti su cui si reggeva l’Ancien regime, due, nobiltà e clero, erano traballanti e perdevano terreno rispetto al Terzo Stato; restava il terzo, la Monarchia, alla quale l’assolutismo instaurato da Luigi XIV aveva attribuito un peso ed un ruolo preponderanti; il buon funzionamento di un’autocrazia, però, dipende sostanzialmente, o quasi esclusivamente, dalla persona del sovrano, dalla sua capacità di governo e dal suo senso dello stato e sotto questo rispetto la statura politica dei successori di Luigi XIV fu decisamente inadeguata alla bisogna.
Il regno di Luigi XV, il pronipote che succedette al Re Sole, fu lunghissimo ma per molti aspetti infausto; indolente, dedito a vizi e piaceri, questo indegno erede di un grande sovrano abbandonava spesso gli affari di stato nelle mani di amanti ufficiali, ingombranti quanto dispendiose, prima la Pompadour e poi la Du Barry, che si intromettevano pesantemente nella politica, non solo per favorire parenti ed amici, ma anche per imporre la nomina di ministri, generali e ambasciatori, promuovere o rompere alleanze, orientare il cammino del Paese: insomma, la politica, interna come estera, passava per l’alcova della favorita di turno. Sarà un caso, ma l’Eliseo, attuale sede della Presidenza, era la residenza della Pompadour. Luigi XV, le “Bien Aimè”, come era stato soprannominato, muore circondato dal rancore e dal disprezzo generale, al punto che il suo funerale si celebrò di notte: “Après moi le déluge”, con ragione, le sue parole più famose ed anche le più profetiche. Con lui, in una serie di campagne militari, tanto costose quanto sfortunate, la Francia aveva perso tutte le sue colonie americane, dal Canada, alla Louisiana, alle Antille, in compenso aveva accumulato un debito pubblico immane, per finanziare spese militari e spese della corte.
A questo punto, per fronteggiare una crisi che si annunziava drammatica, in tutti i suoi molteplici aspetti, sia quelli visti, sia altri che vedremo, ci sarebbe voluto un Re, con tutti gli attributi. Non si ebbe, purtroppo, che un Luigi XVI; succeduto nel maggio 1774 al nonno, Luigi XV, morto improvvisamente di vaiolo; Luigi Augusto di Borbone, duca di Berry, salì al trono all’età di vent’anni. Era un giovane onesto, ben intenzionato, iniziò il suo regno con provvedimenti lodevoli, come la cacciata da corte della Du Barry, l’ultima amante di Luigi XV, ripulì Versailles dalla moltitudine di prostitute e prosseneti che la infestava; Luigi era anche amato dal popolo, ma era di suo indolente, goffo, poco scaltro, a volte apatico, privo di idee e di autostima, incapace di scelte coraggiose e soprattutto di perseveranza nelle scelte. Inizialmente queste carenze si sarebbero potute attribuire anche alla giovane età, ma si aggravarono con gli anni; il Re rifuggiva dai problemi, ad un certo punto, cominciò ad estraniarsi dagli affari di stato, dormiva durante le riunioni di gabinetto, si rifugiava nella caccia o nei lavori di fabbro, forse anche nell’alcol.
La moglie, la Regina, era l’altra faccia dei problemi della monarchia; 4 anni prima dell’ascesa al trono, Luigi aveva sposato Maria Antonietta d’Austria; matrimonio politico per eccellenza tra un giovane di soli 16 anni ed una fanciulla di 14, matrimonio che, come sapete, sarà consumato solo dopo 9 anni dalle nozze, fonte questa di infiniti pettegolezzi e maldicenze, che nocquero non poco alla stima dei reali, di Luigi soprattutto.
Maria Antonietta, la straniera, prima Austriaca sul trono di Francia, non fu mai amata dal suo popolo; era leggera, frivola, impudente, troppo legata alla madre ed alla corte di Vienna, si lanciava nei divertimenti e nei piaceri con foga spensierata, si compiaceva di familiarità inappropriate, fino a prendersi un amante, uno svedese, il conte di Fersen; soprattutto sperperava grosse somme sui tavoli da gioco, manteneva una sua corte particolare (le Petit Trianon) a Versailles, ricopriva di benefici le sue favorite, come la duchessa di Polignac o la famosa e sfortunata principessa di Lamballe, con uno sciupio di denaro pubblico che le varrà, all’esplodere della crisi finanziaria, il titolo di ”Madame Deficit”. Sconterà anche colpe non sue, trovandosi invischiata, senza sua colpa e a sua insaputa, nello scandalo famoso del “Collier della Regina”; poi, la latitanza del marito che, ad un certo punto, prese a disertare anche le riunioni di governo, la costrinse a sostituirlo nei consigli di stato, portano la sua firma molte delle decisioni critiche degli ultimi anni, dalla nomina dei ministri chiave, alla convocazione degli Stati Generali. Maria Antonietta si trovò perciò troppo esposta, senza schermi, all’attenzione ed alle critiche di un paese, già mal disposto nei suoi confronti, e, per di più, non abituato a vedere una donna, una straniera, in una posizione politica così centrale. Inevitabilmente, l’insofferenza della nazione nei confronti della Regina porterà discredito al Re ed a tutto l’”Ancien Régime”.
L’insieme delle problematiche che abbiamo esaminato era di per sé dirompente, ma il consenso che, malgrado tutto, l’istituto della monarchia riscuoteva in Francia avrebbe forse consentito una sia pur precaria sopravvivenza ad un regime azzoppato o agonizzante, senza il fattore detonante, quello che portò in superficie tutte le carenze e le storture esistenti, le rese insopportabili alla maggioranza dei Francesi, la crisi finanziaria!!