Vincenzo Petracca (L’Aquila, 1951 - 2017) - Monte Majella
Riproponiamo all’attenzione dei nostri lettori questo magico pezzo di Alessandra Tucci. Ora che si potrà ritornare a percorrere le strade d’Italia, rappresenta anche un invito a visitare questa splendida regione.
Majella e Gran Sasso: il mito della Grande madre e del Gigante che dorme
di Alessandra Tucci
Si chiamava Maja, era una ninfa. Era bella. Era la prima delle figlie di Atlante e Pleione, era la più bella delle sette Pleiadi.
Lunghe trecce d’oro, perfetta nei tratti e nelle forme, armoniosa in ogni movenza.
Figurarsi se l’impenitente impollinatore seriale al suo fiorire non aguzzava vista e pulsioni da lassù, dal suo Olimpo, quando mai l’ha tenuto a bada l’ormone quel casanova divino. Più don giovanni che casanova a voler esser precisi, le sue erano giovannesche, neanche tanto giovanili, saettate fulminee senza l’eleganza amorosa del seduttore veneziano. E senza i suoi tempi.
E c’è pure da capirlo in fondo, coniugare i propri raptus carnali con le carnali isterie coniugali della tanto amorevole e tanto amorevolmente cornificata Hera era un’impresa più che divina, totalizzante. Fulmineo lui nel tradire e sparire, giunonica lei nell’inseguire e sbraitare.
Con ogni probabilità nessun corteggiamento dunque per la bella Maja all’ombra dell’Hera vendicatrice, niente romanticismo, non una serenata, neanche una filastrocca, figurarsi.
Un lampo nell’appagarsi lui, fedele al suo arsenale da dio di fulmini e saette. C’è da chiedersi se lei si sia accorta di qualcosa, se abbia sentito almeno un guizzo, una fiammella di piacere. Un lumino.
Mah, fatta eccezione per Psiche che, lei sì, il suo Amore se l’è goduto a tutto tondo e con grande soddisfazione fino alla scioccamente calata in campo dell’avidità tutta umana al ritmo battente dell’invidia altrui, mai grandi gioie per umani e semidei sedotti e inguaiati dalle divinità olimpiche. Un attimo di distrazione e la pancia cominciava a crescere. Nove mesi di tempo per salvare faccia e buon nome.
E’ così che è nato Ermete, da un irriducibile e fulmineo raptus divino. E’ da loro che è stato generato, dall’abbagliante Maja e da Zeus fulminante. E’ nato enorme, per tutti il Gigante.
E ci mancherebbe pure, quantomeno un marchio di fabbrica quel don giovanni divino doveva lasciarlo, ne andava della sua reputazione olimpica. Olimpica, non olimpionica.
Un corpo gigante e un gigante ardire in questo caso. Ma nessuna invincibilità, fallace e fallato lui come Achille nel suo tallone. Come tutti coloro che divini non lo erano per intero.
Gli dei del resto democratici non lo sono mai stati, meno che mai inclusivi. Senza divinità a tutto tondo nessuna immortalità.
E alla morte Ermete c’è andato più che vicino in battaglia, si è fermato a un soffio ed ha soffiato sulla madre il suo dolore.
Che poteva fare quella poveretta sotto il peso di uno strazio troppo grande da gestire?
Oggi magari di corsa all’ospedale, all’epoca andava per la maggiore recarsi dall’oracolo più in voga e chiedere a lui diagnosi, prognosi e soluzione.
Con Zeus che scorrazzava per tutt’altri lidi, alla bella e disperata Maja non restava che mettersi in fila per il proprio vaticinio. Ed il responso diede il via ad un’odissea che avrebbe fatto impallidire persino l’Ulisse dal multiforme ingegno.
Mai che dessero soluzioni semplici e pratiche gli oracoli: un’erba medica, una sola avrebbe potuto salvare Ermete. Cresceva all’ombra di un Grande Sasso, in Italia, in terra d’Abruzzo. E loro si trovavano nella Frigia.
Dietro l’angolo insomma, c’era solo da caricare Ermete e attraversare il Mediterraneo. Su una zattera.
Come abbiano fatto la madre dal gigantesco coraggio e il figlio gigantesco nel corpo con l’ardire ormai agonizzante a rimanere a galla su quattro assi di legno per tutto il tragitto resta un mistero. Che Zeus si sia messo una mano sulla coscienza di seduttore del peggior stampo, di quelli che seducono e abbandonano, ed una sui suoi strumenti da miracolo ed abbia dato loro un aiutino a non affondare affogando è la soluzione più quotata, uno straccio di scrupolo dovrà pure esserselo fatto.
Fatto sta che Maja ed Ermete in Italia ci sono arrivati e sbarcati, al porto di Orton(a) per la precisione.
E almeno questa era andata. Rimaneva solo da caricare il Gigante su una brandina, trascinarlo per tutto l’entroterra abruzzese, scalare quel vaticinato Grande Sasso e trovare l’erba miracolosa in un qualche suo punto roccioso. Un punto imprecisato, ci mancherebbe, mai che l’oracolo si arrischiasse a fornire un qualche dettaglio a rovinargli la fama sibillina.
Anche qui le perplessità sono non poche e a fugarle solo l’idea romantica di uno Zeus contrito e penitente al lavoro per una qualche spintarella nell’agevole scalata rupestre. Ma non è servito a nulla.
Non è servito il mastodontico coraggio di una madre disperata, non la suo forza, non la sua tenacia, non il suo cieco e sordo sfidare il mare, la tempesta, la montagna, la bufera, il suo sfidare la morte dell’unico adorato figlio. Nulla ha potuto neanche il probabile zampino divino.
C’era la neve sugli Appennini, troppa, e per quanto Maja abbia scavato e cercato scavato e cercato scavato e cercato, febbrile e senza sosta, il tempo ha infilzato impietoso il suo time out nel corpo del gigante che giaceva in una caverna già moribondo. E immediatamente dopo, dopo lo spirare del figlio, ha mostrato alla madre l’arbusto medicamentoso.
Verrebbe da sorridere dell’ironia del destino se le urla di Maja, il suo pianto, il disperato suo strazio lasciassero un qualche fiato. Disperata, straziata, pazza di dolore, Maja pianse e pianse e pianse. Sul corpo del figlio, tra le montagne d’Abruzzo, sotto un cielo che si chiudeva nel cordoglio.
Pianse per giorni e giorni e giorni, pianse un dolore che non aveva fine. E senza più un fine nella vita, seppellì Ermete in cima al Grande Sasso e cominciò a vagare.
Forse la potenza divina di Zeus, forse la divina potenza dell’amore, forse quella pietas che all’epoca permeava ogni essenza animata e inanimata, forse un’alchemica fusione del tutto: il Gran Sasso accolse in sé l’enorme principe, lo permeò pietrificando il suo sonno, per proteggerlo forse, forse per renderlo eterno.
E all’alba mostrò la sua rinnovata essenza ai suoi abitanti, la sua nuova forma: il principe dormiente era adesso una maestosa montagna e da allora il Gran Sasso lo mostra a chi gli volge gli occhi da oriente, dalla prospettiva dell’eterna rinascita, mostra a tutti “Il Gigante che dorme”.
Una quiete cristallizzata quella di Ermete che non acquietava però in alcun modo il cuore lacerato della ninfa della donna della madre, nessun conforto per lei, niente pace, Maja vagava febbrile, dilaniata, un dolore questo suo che non aveva soluzione, nessun sollievo.
Vicino al suo gigante, ai suoi piedi, piangeva, urlava, si consumava. Maja si accartocciava via via nel suo dolore, senza un attimo di tregua. Fino a pietrificarsi. In esso. E a spirare. Accanto al figlio. Lì si arrese e lì fu sepolta. E forse qui, ancora una volta, intervenne Zeus a riunire nella morte ciò che non era stato capace di tenere insieme in vita.
La mattina successiva, all’alba, la Majella si mostrò al mondo: Maja, la grande madre, pietrificata nel suo dolore, maestosa, dignitosa, lo sguardo al mare. A quel mare che non attraversò più per non lasciare il figlio alla morte, per rimanergli accanto.
Majella e Gran Sasso, la grande madre e il gigantesco figlio, Maja e il Gigante. Vicini, oltre la morte. Nell’eternità.
Si dice che nelle notti di tempesta rimbombi tra quelle rocce l’urlo straziato di Maja.
Quello che io posso dire è che quando mi trovo lì, al cospetto della Grande Madre e del Gigante dormiente, sento una profonda pace. E una brezza fluire da quelle rocce. Leggera, delicata, assorbente. Una brezza che accarezza il viso. L’immortale carezza materna.