Paola Vincenti (Livorno, Contemporanea) - Boccadasse
Guarisce chi vuole (3)
di Cesare Verlucca
L’inizio degli acufeni
Acclarato che continuo ad avere di tutto da quasi mezzo secolo (diciamo dal 1973, ma anche prima non scherzavo…), si direbbe che io passi gran parte del mio tempo cercando, per i miei mali, rimedi che io possa auto procurarmi.
Prendiamo, ad esempio la famosa otosclerosi descritta in precedenza, per la quale mi ero lasciato convincere (e non avrei assolutamente dovuto) ad assoggettarmi a un’operazione che, pur messa in atto da un grande audiologo, aveva mandato in tilt il nervo acustico dell’orecchio destro, con perdita totale dell’udito e l’insediamento di fastidiosissimi acufeni decisi a farmi impazzire.
Il dramma avveniva soprattutto la sera. Appena messa la testa sul cuscino sentivo, nel canale uditivo esterno dell’orecchio sinistro, una motocicletta con il motore al massimo, e non potevo affacciarmi alla finestra con un secchio pieno d’acqua, o di altri liquidi meno nobili, da buttare sulla testa dell’indisponente motociclista.
Avevo per contro constatato che il fastidio era più sopportabile quando passeggiavo in una strada molto trafficata, perché il cervello attribuiva al traffico quel rumore molesto. O quando nella mia camera mettevo in funzione un vecchissimo climatizzatore (risalente probabilmente all’Alto Medioevo…), il quale diffondeva, più che il freddo o il caldo, un rumore non molto dissimile dagli acufeni, per cui era facile pensare che il rumore degli acufeni fosse quello che riscaldava l’inverno e raffreddava l’estate.
Ma il più gradevole scambio alla pari tra l’acufene e la sua imitazione, l’ho sperimentato in un sobborgo genovese.
C’era da festeggiare il trecentesimo anniversario della chiesetta (ora Santuario) di Sant’Antonio, patrono del borgo marinaro di Boccadasse ed io, in compagnia del fotografo, stavo realizzando uno splendido volume su quel luogo meraviglioso, il parroco del quale, un simpaticissimo frate minore conventuale, aveva cortesemente deciso di ospitarci in un appartamento sotto il Santuario di proprietà della Parrocchia.
Mai stato più a mio agio: in cucina spadellava il fotografo (tonno e piselli la sua specialità…), io mi occupavo degli appunti da aggiornare. Dormivamo in una camera la cui finestra distava pochi metri dalla battigia: e quel battere sistematico dell’onda sulla spiaggia sassosa confondeva i miei acufeni ed io, preso rapidamente sonno, mi svegliavo a mattino fresco come una rosa.
Ma non era, né sarebbe stato, saggio che io scegliessi di percorrere soltanto strade con circolazione insostenibile; né mettessi in funzione il climatizzatore nei mesi in cui non era richiesto; e men che meno chiedessi a Padre Gianmarco, del quale nel frattempo eravamo diventati amici, di ospitarmi vita natural durante in quell’insolito eden.
Ho pertanto cercato di adattare il mio organismo alla situazione e a girare intorno all’ostacolo da solo. Come mi sia venuta la prima idea non lo so; come abbia avuto successo meno ancora. Mi sdraiavo sul letto, spegnevo la luce, chiudevo gli occhi, staccavo il cervello, lo gonfiavo come un palloncino, lo buttavo sul soffitto e mi svegliavo il mattino successivo.
Nessuna delle persone alle quali avevo raccontato la mia storia s’era dichiarata disposta ad accordare al mio racconto una patente di credibilità: i più benevoli mi accreditavano la possibilità che si trattasse di una forma raffinata di yoga, ed io non ho mai eccepito.
Mi ero però trovato un giorno, seduto per caso vicino a me a cena in non so più quale paese europeo, un orientale (non so se cinese, giapponese o coreano, ma comunque di uno dei paesi dell’estremo oriente), e avendogli raccontato come tentavo di sottrarmi a una situazione particolarmente sgradevole, lui mi aveva assicurato che il sistema da me attuato non solo era ragionevolmente plausibile, ma che era assimilabile a quello che una religione orientale utilizzava di frequente in casi analoghi.
Si trattava, secondo lui, di una forma di yoga a sfondo religioso, di cui non ero riuscito a raccogliere sufficienti elementi chiarificatori. Parlavamo d’altronde due lingue diverse, e l’inglese nostro, a Londra l’avrebbero scambiato per arabo (il suo), o siciliano di Broccolino (il mio).
Così è, se vi pare, direbbe il mitico Pirandello; io mi limito a copiarlo, perché sono un ammiratore fanatico del grande drammaturgo siciliano, ma se a voi non paresse che così sia, trasferitevi ai capitoli successivi, dove ancor si parla d’acufeni, visti sotto angoli diversi, anche se sempre maledetti.