Erzad Erza (Sarajevo, Bosnia-Herzegovina - ) - Sarajevo
Appunti di viaggio: Sarajevo
di Andrea Tittarelli
Se tenessi una rubrica fissa su un giornale, potrei annunciare in modo un po’ enfatico: per non annoiare il mio gruppetto di affezionati lettori, è giunto il momento di cambiare argomento e quindi titolo.
In realtà, dopo mesi di silenzio, più prosaicamente mi sono reso conto che per poter tornare a scrivere ero io ad aver bisogno di cambiare la prospettiva.
E allora eccomi a tirare fuori dal cilindro un ben poco innovativo “appunti di viaggio”.
Chiarisco subito che non ho la pretesa di occuparmi di letteratura di viaggio, visto che in questo ambito gli esempi più autorevoli sono numerosi.
E se dicessi che il viaggio è una delle attività umane più piacevoli, sorprendenti, istruttive, a volte spiazzanti, addirittura sconvolgenti, non si tratterebbe di affermazioni particolarmente originali.
Ma visto che non mi interessa cercare di apparire originale a tutti i costi, ecco l’azzardo di questa proposta.
Tanto più che il viaggio non si sottrae alle dure leggi della vita in ogni suo aspetto, per cui appare impossibile uscire dalla dicotomia, o almeno la diacronia, tra il viverla e lo scriverne.
Un po’ come la scelta che a volte si pone di fronte ai paesaggi che si incontrano (o che ci vengono incontro), soprattutto quelli caratterizzati da presenza umana: ovvero se osservare – osservare veramente, con uno sguardo il più possibile infantile, puro, libero da pregiudizi – o se fotografare, in modo che quel paesaggio rimanga fissato in modo indelebile, immodificabile.
E allora il mio viaggio inizia da una città che è simbolo del secolo precedente, quel Novecento a volte definito breve dagli storici, con inizio collocato al momento dell’attentato di Gavrilo a Sarajevo nel giugno 1914 (con le conseguenze che tutti conosciamo), e fine con l’assedio della stessa città a metà degli anni Novanta. Sarajevo che rischia però di essere un simbolo un po’ stereotipato, associato immediatamente e inevitabilmente all’idea della guerra. Salvo poi, in modo decisamente contraddittorio, sentire alcuni sostenere che l’Europa vive in pace da ormai oltre 70 anni: come se la Bosnia Erzegovina o il Kosovo appartenessero ad un altro continente!
Ovviamente Sarajevo non è solo guerra, ma come tutte le città, tutti i luoghi, ha molto da raccontare. Essendo io però stato là nell’ormai lontano 1997, quando il ricordo della guerra era ancora vivo e presente (ad esempio nei prati non ancora liberati dalle mine, o nei numerosi segni di bombardamenti sui muri degli edifici), e non avendoci più rimesso piede da allora (ma non dispero, avendo io attinto acqua dalla “fontana del ritorno”, quella che gli abitanti dicono ti faccia prima o poi tornare se ne bevi), non saprei dire come sia Sarajevo adesso, a 22 anni di distanza, e quindi nello stereotipo della guerra ci casco con entrambi i piedi.
Allora, prima della mia consueta poesia, anche qui posso inserire un consiglio di lettura, visto che mi corre l’obbligo di spiegare la citazione che ho posto in esergo. Si tratta di un estratto da un testo del poeta bosniaco Abdulah Sidran, uno scrittore che, a differenza di altri intellettuali e artisti che hanno scritto, cantato, filmato Sarajevo da lontano, al sicuro, ha invece condiviso con i suoi concittadini il periodo dell’assedio. La sua raccolta “La bara di Sarajevo - Sarajevski tabut” è una testimonianza di grandissima forza, efficacia, impatto emotivo che merita di essere letta.
Il significato del testo riportato in bosniaco è: “Ascoltate / come respira / il pianeta Sarajevo”.
SARAJEVSKA PJESMA (POESIA DI SARAJEVO)
Poslušajte
kako diše
Planeta Sarajevo
(Abdulah Sidran)
Dovresti attraversarmi
a piedi nudi
o sulle ginocchia
e ad ogni passo
chinarti fino a terra
per baciare un sorso
della mia polvere
del mio dolore
Prima di guardarmi
dovresti lavarti gli occhi
da tutte le parole
che credi di sapere
dalle lacrime sprecate
dentro il tuo rifugio
E i muri
i muri queste mie ossa
grattarli con le dita
fino a toccarmi il cuore
sussurro di vita
Ma non confondermi
non chiedermi riflessi
di altre sorelle
che ti hanno sorriso:
io non sono Yaounde
non sono Beirut
non somiglio a Firenze
non chiamarmi Istànbul
Cammina da mendicante
tra il grido dei cortili
e i volti che ti regalo
tra la mia pioggia
e le mie stelle
e lascialo tacere
lo stupore sulla bocca
Ai bambini - ti prego
smetti di sparare,
questi miei figli
dalle mani così piccole
così leggere
non ucciderli più
con la tua macchina fotografica
Poi ricordati
che a nessuno
potrai raccontarmi
nessuno capirà
la tua voce da profugo.
Perché appena fuori
da questo groviglio
di strade e sangue
di anime e finestre
- lontano da qui
il mio segreto
il mio respiro
perfino il mio nome
avrai dimenticato