Mark Graham (near St. Marys, Ontario, Canada) - The Old Bicycle
A volte si rinasce: storia di una bicicletta
di Paolo Ghiggio
Per anni sono stata sul balcone di una antica casa canavesana di Sparone.
Una vecchia coperta, lisa dal tempo, mi ha riparato, per quel che poteva fare, dal sole dell’estate e dal gelo dell’inverno. Nonostante questo accorgimento del mio vecchio padrone, ormai scomparso da anni, sono ridotta un po’ maluccio e la ruggine si sta impossessando del mio telaio.
Che bei ricordi! Ci siamo fatti molta compagnia. Abbiamo diviso le fatiche delle salite della Valle verso Ceresole, il Nivolet, il Lago del Teleccio, Ribordone e il Santuario di Prascondù, da un lato, e Alpette dall’altro versante. Quante gocce di sudore hanno inumidito il mio tubo orizzontale. Adesso che ci penso, ecco perché la ruggine in quel tratto di acciaio, appena dietro alla pipa del manubrio, è più profonda. Certamente con le moderne biciclette di carbonio questo non sarebbe successo.
La velocità delle discese ci inebriava. A volte, siamo andati oltre il ragionevole rischio e ci siamo trovati nei prati, fra i fiori del Parco del Gran Paradiso. Fortunatamente, grazie all’erba morbida, ci siamo sempre rialzati e siamo tornati a casa. Io magari con qualche pezzo di vernice nera saltata e il mio padrone con qualche ferita, superficiale, sulle ginocchia o sui gomiti. Una volta mi è anche parso di sentire un verso di derisione da parte dei camosci abbarbicati sui muri della diga del lago Serrù.
Poi gli anni sono passati inesorabilmente e il loro peso ha impedito a Giovanni, questo era il nome del mio appassionato possessore, di pedalare con me e di percorrere quelle erte, ormai impossibili, per le sue condizioni di salute. Abbiamo fatto ancora qualche breve tratto insieme per le strade del paese, in pianura, magari per bere un bicchiere di vino con gli amici. Poi, anche quelle brevi pedalate, si sono fatte sempre più rare, fino a cessare del tutto. Un giorno, molto triste, ho visto il mio padrone andarsene su un furgone nero ed io restai sola, sotto quella coperta, per molto tempo. Mi ha fatto compagnia solo una famigliola di ragni. Avevano sfruttato i miei raggi per tessere la loro tela. A proposito ho anche scoperto che un ragno vive circa due anni!
La casa, disabitata, venne acquistata, la scorsa primavera da una coppia di ragazzi, da poco sposati, di Torino. Stufi della confusione e dello smog della grande città, avevano deciso di trasferirsi nella valle dell’Orco.
Entusiasti, hanno ripulito tutte le camere e, quando si sono dedicati al balcone, mi hanno trovata. Mi hanno tolto la coperta di dosso e ho visto che, accanto a me, erano appoggiate al muro due splendide Mountain Bike dal telaio leggerissimo in lega di alluminio e con un numero incredibile di corone posteriori. Io ne ho solo tre! Che invidia!
Fra di loro hanno fatto commenti molto lusinghieri sul mio telaio e, ammirati, hanno iniziato a spolverarmi. “E’una vecchia Appia! - diceva lui - Ricordo che, in una traversa nei pressi di casa nostra a Torino, c’era un officina, in un vecchio cortile, nelle cui vetrine erano ancora appesi dei cartelli con il nome Appia”. “Magari questa bicicletta viene da lì”, ribatteva lei.
Avevano ragione. Giovanni, il mio vecchio padrone, si era recato proprio nel capoluogo piemontese per acquistarmi, consigliato da un ciclista, ormai ritiratosi dalle corse, che aveva partecipato al primo Giro d’Italia, del 1909. Si era classificato ventesimo, alle spalle di Luigi Ganna, che l’aveva vinto a Milano. Erano tempi eroici. I ciclisti partivano nel cuore della notte, illuminando il percorso con dei fari a carburo. Percorrevano oltre cinquecento chilometri su delle strade simili al greto di un torrente. Quel vecchio ciclista era di Rivara e si chiamava Pietro Domenico Milano. Finite le corse aveva aperto un’officina nel suo paese ed era il meccanico di riferimento di un altro pioniere di quei tempi, Giovanni Brunero di Ciriè, vincitore di tre Giri d’Italia negli anni venti.
Dopo una ripulita, mi hanno dato una collocazione più consona alla mia venerabile età. Da veri appassionati delle due ruote, mi hanno appoggiato su un sostegno nella sala di casa. Facevo una gran bella figura e tutti gli ospiti chiedevano, stupiti, notizie sulla mia provenienza. Alcuni, chiedevano dettagli su di me, ma i miei nuovi padroni, a digiuno di conoscenze meccaniche dei miei tempi, non sapevano dare notizie precise.
Una sera, invitato a cena, è arrivato un medico in pensione di Ivrea. Quando mi ha visto, ha iniziato a decantare i miei pregi. Ammirava il leggero telaio di acciaio con la forcella anteriore molto piegata in avanti. Diceva ai padroni di casa, che lo ascoltavano ad occhi spalancati, che la pipa e la piega del manubrio, che, da intenditore, sapeva riconoscere come Modello Champion della ditta Ambrosio di Torino, erano una vera rarità. Ma il momento più importante della serata è stato quando iniziò a descrivere il mio cambio. Era un vecchio Simplex degli anni quaranta, del tipo Tour de France a tre velocità. Il deragliatore anteriore era anche lui un Simplex con una lunga leva addossata al tubo verticale. I corridori di quegli anni lo chiamavano “Suicide” e ha saputo anche spiegare il perché: spesso la catena si incastrava e il ciclista, chinandosi a controllare, perdeva l’equilibrio e cadeva con rovinose conseguenze.
Durante la cena i discorsi sono caduti tutti sul ciclismo di quegli anni. I miei padroni ed io, gongolando, ascoltavamo affascinati le avventure dei vecchi pionieri canavesani sulle due ruote, di cui, il vecchio ospite, conosceva quasi ogni segreto. Alla fine della serata quel medico, che a suo dire aveva ormai abbandonato il bisturi, destinandosi a usare chiavi e pinze per curare solo più le biciclette, si era offerto per rimettermi in sesto e in grado di ripercorrere quella affascinante Vallata. Non mi pareva vero. Avrei di nuovo visto da vicino gli splendidi paesaggi di quelle montagne, avrei di nuovo sentito il vento sibilare fra le pieghe del mio telaio, mescolato al fischio delle marmotte nei prati del fondo valle.
Caricata in macchina, mi sono ritrovata in un’officina, attrezzata di tutto di punto. Lì ho capito che quell’esperto di vecchio ciclismo aveva lavorato in una sala operatoria.
Senza anestesia, ma sempre con gesti precisi e gentili, quel dottore aveva iniziato a smontarmi pezzo per pezzo, recuperando tutti i miei vecchi componenti. Dopo un ammollo nel petrolio bianco, con una paglietta di ferro molto fine e con un pennello, seppe rimuovere tutta la ruggine. Cambiò alcune maglie della mia catena. I vecchi tubulari, ormai secchi dal vento e dal sole, vennero sostituiti da altri, sempre d’epoca, ma funzionanti. Quella fu l’unica modifica radicale. Il restauro conservativo e una buona lubrificazione hanno saputo ridare al vecchio cambio Simplex un’ottima funzionalità. La catena scorreva e saltava da una corona all’altra senza fatica. Per tutto questo ci sono volute alcune settimane, ma ne valse veramente la pena.
Sono tornata a Sparone e il nuovo padrone, entusiasta del mio recupero, è rimasto ammirato a lungo, nel leggere di nuovo e chiaramente Appia, sul tubo obliquo del mio telaio. In piccolo si leggeva l’indirizzo dell’officina torinese. Era proprio quello di quel cortile, nei pressi della sua abitazione nel capoluogo piemontese, che avevano lasciato per vivere fra i monti.
Adesso faccio la mia figura accanto alle moderne mountain bike e quando il mio nuovo padrone decide di usarmi, insieme percorriamo la suggestiva salita verso Ribordone, sempre dopo avere fatto un giro sulla statale per ammirare il Murale dipinto in occasione del primo passaggio del Giro d’Italia da queste parti, nel 2019. Una volta, arrivati al Santuario di Prascondù, mi ha anche portato all’interno della navata, ricostruita dopo la valanga del milleseicento, che aveva distrutto la vecchia cappella, edificata, come ex voto, dalla popolazione per ricordare il miracolo di un ragazzo, che aveva riacquistato la parola. Il parroco chiuse un occhio e, con mia sorpresa, seppe dire nei miei confronti parole di ammirazione. Era anche lui un vecchio appassionato di ciclismo.