Ana Maria Edulescu (Contemporanea - Bucharest, Romania) - Sunset Over Sagrada Familia In Barcelona
Sueños
di Maria Rosaria Pugliese
“Finalmente i tori moriranno di morte naturale!” esclamò soddisfatta mia moglie, non appena ci chiudemmo alle spalle la porta della camera n. 480.
Ci trovavamo in un albergo dalle pretese moderniste nel quartiere gotico di Barcellona. Di fronte l’hotel una struttura circolare imprigionata da ponteggi in acciaio. Al nostro arrivo il portiere ci aveva informato che l’edificio costretto nella camicia di forza delle reti metalliche era stato una storica plaza de toros, ma che i lavori di ristrutturazione in corso d’opera ne avrebbero fatto un Centro Commerciale.
Mia moglie non perdeva occasione per assumere posizione in difesa di chiunque fosse, a suo dire, vittima di violenza o d’un semplice sopruso. Da giovane era stata attivista infuocata contro la guerra del Vietnam, finanche arrestata durante una manifestazione di protesta. Poi si era battuta a favore degli indiani d’America, passando via via a sostenere i diritti di altre minoranze etniche, gli armeni, i curdi, i palestinesi, i tibetani. Aveva marciato perché si ponesse fine al genocidio nel Darfur e alle violenze in Uganda. Con gli anni l’impegno era migrato verso movimenti ecologisti e animalisti: si batteva contro la caccia alle balene, l’estinzione dell’orso grigio, la deforestazione in Amazzonia, e certo io ero stato alquanto sadico ad insistere affinché mi accompagnasse alla convention della mia azienda che si teneva nel Paese dove ancora sopravvive l’obbrobrio della corrida.
“ E’ giusto che i tori muoiano di morte naturale, piuttosto che infilzati dal torero - convenni per compiacerla - ma perché stravolgere un luogo simbolo di una tradizione?”
“Di un’usanza barbara, vuoi dire”.
“E’ come se gli italiani facessero del Colosseo una pista di pattinaggio - aggiunsi per provocarla - potevano trasformare l’arenas in un museo della tauromachia, per esempio”.
“ Per tramandare alle generazioni future il ricordo della tortura legalizzata inflitta ad animali inermi?” Stava iniziando a prendere cappello.
“Oddio, Luna, c’è differenza tra matare un toro e il pasto cristiano delle belve”.
“No!”
“Ti prego, cara, rilassati: rimarremo tre giorni in questa magnifica città. E’anche l’occasione per una breve vacanza. Non startene reclusa e insofferente. Passeggia nelle ramblas, torna a rivedere la Sagrada Familia, va in spiaggia a prendere il sole”.
E’ una donna avvenente mia moglie, allegra, minuta, lo sguardo assetato di giustizia e una massa anarchica di capelli corvini che s’intonano al suo modo d’essere. Ma l’implacabilità le ha fatto perdere il gusto della vita e così la femmina che mi aveva affascinato due decenni prima, anche per la schietta indignazione che le suscitavano le angherie e per la temerarietà con la quale si esponeva, è divenuta una santippe velenosa che tuona dalla mattina alla sera erga omnes e dalla quale perfino gli amici di vecchia data, sinceramente affezionati a noi, hanno preso le distanze. E che forse mi disprezza per il mio totale disimpegno.
A volte mi grida “Sei un sognatore” con la stessa foga di chi lancia un insulto o una maledizione. Il suo integralismo mi fa paura.
Io sono un uomo semplice, vorrei che la mala pianta della cattiveria fosse estirpata radicalmente dalla faccia della terra e che tutti vivessero felici. Questo per mia moglie si chiama qualunquismo.
La giornata era stata caldissima, e di sera la brezza marina mitigava appena la calura.
Non riuscivo a dormire a causa del freddo: l’aria condizionata, che io e Luna, avevamo invano tentato di regolare, si manteneva a livelli da ibernazione. Sentivo sulla testa un ghiacciaio di nevi eterne, una calotta polare che m’impediva perfino di pensare. Decisi di uscire dall’igloo e di scendere nella hall.
Tralasciai l’ascensore e infilai le scale. Al centro di ogni rampa correva un tappeto blu ornato di arabeschi dorati, liscio come un prato inglese, la pendenza era lievissima e dolcemente scivolai verso il piano terra.
Arrivai nell’atrio che, nella semioscurità mi sembrò deserto. Ma poi scorsi un chiarore in fondo al salone, feci ancora qualche passo e nella vaghezza della luce intravidi Pablo, il giovane barman in compagnia dell’ Infanta di Spagna. Stavo per tornare indietro, quando Pablo con un gesto ampio e circolare m’invitò a unirmi a loro. Mi avvicinai. Il giovane, capelli neri brillantinati e guance che richiedevano una rasatura, stava con i gomiti appoggiati sul bancone di marmo e parlava nel suo idioma carezzevole.
“Vuol bere qualcosa, Señor?”mi chiese garbatamente. Scossi il capo e con un balzo mi sistemai su uno sgabello altissimo in metallo satinato accanto alla nobile pargola, arroccata pure lei sulla sommità di uno scanno.
Stava raccontando la sua vita, Pablo.
Non ha fatto sempre il cameriere: fino a pochi anni era il becchino del ridente cimitero del paese in cui viveva. Da mattina a sera un gran da fare: non c’era solo da seppellire i morti, bisognava lustrare i marmi, cambiare l’acqua nei portavasi, curare le aiuole per impedire che le erbacce ricoprissero le lapidi. Oltre questi compiti, cui attendeva con estrema scrupolosità, deponeva fiori e pregava sulle tombe alle quali nessuno faceva mai visita, quelle più trascurate. Insomma il giovane beccamorto non era soltanto diligente, ma anche profondamente credente, e rispettoso delle anime e dei corpi di chi aveva scelto il “suo” camposanto per il soggiorno eterno.
Una domenica in cui nessuno si era risolto di morire, decise di rassettare la tomba di famiglia.
A questo punto della narrazione, Pablo s’interruppe, vinto dall’emozione.
L’Infanta lo guardava con tenerezza, io ero curioso di sapere come sarebbe andata a finire.
Dopo pochi attimi di silenzio riprese a parlare.
Quel giorno, dunque, scostò con delicatezza il marmo che sbarrava il sepolcro domestico. Gli bastò un’occhiata per accorgersi che qualcosa non quadrava: al centro del loculo le spoglie benedette di suo padre e di sua madre, accanto a loro un mucchietto d’ossa era ciò che rimaneva del fratellino morto a cinque anni, in fondo i resti mortali dei nonni. Ma a chi apparteneva quel corpo avvolto nel sudario adagiato in mezzo ai genitori? Contò e ricontò i propri cari, rievocò l’estrema dimora di tutti gli zii e cugini, e ne trasse un convincimento: tra i suoi morti c’era un intruso.
Molto turbato, chiuse la tomba e iniziò a indagare. Pareva che nessuno sapesse niente in paese. Non potendo interpellare coloro che erano sottoterra, Pablo torchiò un vecchio custode che da tempo immemorabile lavorava nel luogo sacro, ma non ne ricavò nulla.
Un interrogativo acuminato come uno stiletto ormai lo tormentava senza sosta: chi era stato tanto proditorio da intromettersi nella dimora eterna dei suoi cari? Da “pretendere” di riposare insieme a loro per l’eternità? Un amico della mamma, o del padre, un amico “speciale”, forse? Di certo nel suo Paese, negli ultimi anni, di cose strane ne erano avvenute, erano state legalizzate situazioni al limite della decenza, porcherie che a tempi del generalissimo non erano minimamente tollerate.
Pablo aggiunse che il vecchio guardiano lo aveva saggiamente esortato:
“Lascia che i morti seppelliscano i morti”. Ma lui non riuscendo a darsi pace, aveva abbandonato il cimitero giurando di non mettervi più piede né da vivo, né da morto.
L’Infanta disse banalmente: “E’ sempre meglio non scoprire gli altarini”, ma il giovane non derogava alla zelante ottusività di cui era impastato e iniziò a discettare del franchismo. Sosteneva con veemenza che ai tempi del caudillo, l’Espagna era tierra de matador, e adesso era divenuta una frenetica movida.
Sorprendentemente l’Infanta mise in mezzo l’Opus Dei e l’Inquisizione, allora Pablo si attaccò al misticismo di Santa Teresa d’Avila. A quel punto decisi che poteva bastare: non era quello il luogo, dove far abitare i miei sogni. Approfittando della penombra che ancora insisteva, mi allontanai a piccoli passi.
Di colpo dalle scale apparvero bagliori di luce. Mi diressi verso quella direzione. Le spade scintillanti illuminavano i volti cupi dei pirati, armati fino ai denti, pronti per l’arrembaggio. Il bucaniere, un occhio azzurro zaffiro e l’altro nero pece, sul capo una pezza rossa, e al collo una catena di denti di pescecane, estrae dal fodero il lungo pugnale ricurvo. E’ il segnale. I pirati, le facce annerite e i remi fasciati di stracci per non far rumore, accostano e vanno all’assalto. Dalla nave abbordata esplode il fuoco di sbarramento: tuonano cannoni, sibilano spari, ma il proiettile sembra stregato: raggiunge il bersaglio senza più forza di penetrazione.
La filibusta è implacabile, invulnerabili i corsari, avanzano fino a sottomettere completamente l’imbarcazione. La nave arrembata è prostrata come un animale ferito e il suo capitan ordina di ripiegare verso le lance. I fuggiaschi, in preda al panico, tra grida lamentose e il groviglio del sartiame, si sparpagliano malamente e nella confusione alcune barche si capovolgono. Il veliero, ferito a morte, galleggia nella bonaccia mentre i pirati fanno man bassa.
Ma al bucaniere che ha gli occhi uno azzurro e l’altro nero pece non interessa nulla di ciò che i suoi uomini stanno saccheggiando. Semplicemente lui è venuto a riprendersi la straordinaria gemma che si trova su quella nave: la sua donna. Per questo ha ordinato l’arrembaggio, per questo ha neutralizzato la mitraglia avversaria.
Il sogno epico nel quale mi trovavo, mi affascinava, ma conteneva troppa violenza e volli uscirne. Non era quello che cercavo. Strinsi forte le labbra e proseguii.
La stanza n.115 certo doveva essere un posto felice: da essa provenivano gridolini infantili di allegrezza, richiami bonari di adulti, insomma vibrazioni piacevoli. La gioiosa confusione mi attrasse.
Alle quattro del pomeriggio i bambini avevano già rotto le uova di cioccolato e i palloncini. Fiocchi, nastrini, incarti argentati, coloratissimi, erano sparsi ovunque e l’aroma penetrante di cacao di cui l’ambiente era impregnato mi stordì dolcemente.
Forse si stava festeggiando la Pasqua, perché è a Pasqua che si regala l’uovo di cioccolato ai ragazzini. Questi, però, erano incredibilmente ricchi o esageratamente viziati perché ne avevano ricevuto in dono almeno sei o sette ciascuno. E li avevano sventrati tutti per scoprire la sorpresa che custodivano all’interno.
Mi sembrava di trovarmi in un’enorme cioccolateria dove fosse scoppiata una bomba: la materia prima e le diverse farciture schizzate ovunque e le creature, già chiazzate dal fondente, s’imbrattavano reciprocamente, con le piccole dita, le magliette, i calzoncini, le scarpe, e qualunque cosa miracolosamente scampata all’esplosione. Gli adulti si scambiavano baci al gianduia, al pistacchio, alle nocciole. Quella stanza non sarebbe potuta essere più dolce.
“Nu…nu nu tella voio nutella”. La vocina imbronciata apparteneva a una virgola di donna di quattro o cinque anni. Un diavoletto biondo che agitando le braccine grassocce, continuava a piagnucolare: “Nutella… nutella.. voio…” Una piccola mamma la prese in braccio tentando di calmarne la bizza, ma la bambina terribile, divincolandosi, strillò più forte: “NUTELLA!”
Per solidarietà o per osmosi anche un marmocchio dalla testa grossa iniziò a reclamare la nutella. Fu l’inizio del coro più rabbioso che mi fosse capitato di sentire: impiastricciati dalla testa ai piedi di cioccolata i mocciosi, tutti, pretendevano la nutella.
Un piccolo papà prese il cellulare, compose un numero.
“Pronto! E’ l’azienda produttrice della nutella? Potreste mandarmene IMMEDIATAMENTE un camion? Si, ne voglio un tir … un tir colmo … le do l’indirizzo …”
Scappai via da quel sogno terrificante.
La notte era quasi trascorsa e ancora vagavo per il corridoio fiutando chimere come un cane da tartufo raspa il terreno. Da lontano mi giungeva il respiro dei dormienti che sognavano. Entrai in punta di piedi in un’altra nebbia.
Un cubo fosforescente stava atterrando vicino alla piscina. Il luccichio si spense e su ciascuna delle facce laterali si materializzò una rampa a spirale. Gli alieni cominciarono a scendere ordinatamente dal ventre dell’astronave.
Il corpo biancastro era a forma di uovo. Sulla testa, simile ad una pera capovolta, spuntavano ciuffi di capelli blu. Sotto la capigliatura azzurrognola, gli occhi rotondi, ravvicinati, e più in basso un’unica cavità di color porpora. Alti come bambini e bipedi. Avevano mani palmate con un solo ditone, le estremità inferiori erano spanne.
L’andatura ondeggiante li faceva rassomigliare a pinguini sul pack.
“Obiettivo raggiunto”.
Alpha ZetaX il capo pattuglia comunicava con la stazione spaziale clicchettando sul palmare sinistro col pollice destro.
La risposta arrivò in un nano-secondo: “Conoscete lo scopo della missione. Attendiamo rapporto dettagliato. Buona fortuna”.
Alpha ZetaX si rivolse telepaticamente ai compagni: “Andiamo! Verificheremo se quanto si dice negli spazi intergalattici corrisponde a verità”.
Si sparpagliarono per il villaggio, annusando.
La loro capacità olfattiva era straordinariamente sviluppata a causa dello smisurato numero di recettori racchiusi nell’incavo color porpora.
L’olfatto il loro senso primario.
Annusarono il tappeto verde che non conoscevano perché nel remoto mondo dal quale provenivano c’era solo sabbia rossiccia. Annusarono le cortecce degli alberi e i frutti che penzolavano tra le frasche. Annusarono le aiuole variopinte, i filari di vite e le siepi fitte, le radici e gli alberi e i cespugli e le foglie. Tutto sapeva di buono.
Invisibili passarono tra gli umani di cui non riuscivano a comprendere né l’utilità né il funzionamento. “A cosa servono?” si chiedevano reciprocamente per mezzo dei poteri telepatici di cui erano dotati.
Provavano, annusando, un tremendo benessere mai percepito in nessuna dimensione. E aspiravano a più non posso, le membrane olfattive allo spasmo.
Freneticamente Alpha ZetaX, gli occhietti traslucidi, contattò la stazione spaziale: “A tutti i fratelli di Sirio, Orione, Vega, Cassiopea, confermo che esiste un’oasi meravigliosa le cui coordinate detterò in calce a questo messaggio”.
La replica non si fece attendere: “ Per tutte le nebulose, tornate immediatamente alla base o vi distruggeremo”.
Un click troncò la comunicazione e il sogno.
Via via da quest’incubo avveniristico, non ho mai amato neppure i film di fantascienza!
Cominciava ad albeggiare e non ero riuscito ad afferrare il MIO sogno. Non avevo incontrato una gitana andalusa dal corpo brunito e dalla parlantina dolce come il miele, non ero stato, invincibile hidalgo, in sella a un cavallo alato, neppure avevo sognato Dulcinea che infilava le perle e ricamava in oro. Non ero salpato, ardimentoso navigatore, sulla Santa Maria.
Dalle stanze chiuse ora giungeva il fragore degli sciacquoni, il suono irritante delle sveglie bruscamente zittite, il ronzio degli spazzolini elettrici.
Con la sensazione di essere sopravvissuto a mille e una notte risalii al mio piano. Trattenendo il fiato, entrai in camera. La pasionaria, il corpo quieto, il viso fresco e roseo, dormiva inoffensiva come un neonato. Le scivolai accanto silenziosamente.
La luce nuova del mattino, filtrando attraverso gli scuri, ravvivava la moquette scolorita.