Birgitte Lykken Madsen (Odense, Danimarca, 1960 - ) - Breaking the Surface (2018)
Nuoto azzurro chiaro
di Marialuisa Bordoli Tittarelli
Non riusciva a ricordare quando tutto era iniziato e per quanto cercasse ansiosamente di tornare indietro col pensiero, si smarriva ogni volta ritrovandosi allo stesso punto.
Del resto non riusciva a fare nient’altro oltre a nuotare faticosamente con un ritmo costante, quasi automatico, anche se con molta fatica.
Tutto era rarefatto e azzurro chiaro e il mare emetteva un suono che le ricordava qualcos’altro, non la canzone delle onde.
Pensava disperatamente mentre ritmicamente andava su e giù, sotto e sopra l’acqua.
Non era mai riuscita a nuotare con la testa fuori, sempre doveva metterla sotto per poi risalire, con il movimento tipico del nuoto a rana, l’unico che le piaceva tanto e non la stancava.
Adesso però la stanchezza rendeva il tutto faticoso e pesante.
“- Proprio non ce la faccio “ – pensò.
Istintivamente si contrasse radunando le forze rimaste per contrastare il desiderio forte di lasciarsi andare e farla finita.
“ – Smettila – si sentì urlare in testa – nuota, distraiti, tieni duro!”
Immagini della sua vita le arrivarono in aiuto, immagini spezzettate, ma vivide, consolatorie e confortanti.
Apparentemente senza ordine e senso, così alla spicciolata, come pezzi di carta colorata sparsi dal vento sulla strada.
Un vestito di quando era molto piccola, di tulle color oro con fiorellini ricamati di vari colori e su uno di essi una piccola ape che la incantava. Un sorriso le distese le labbra e un senso di allegria la rinfrancò.
Un forte profumo di pino e ciclamini la assalì insieme alla sensazione deliziosa delle scarpe da ginnastica sul tappeto di aghi color cannella, mentre obliqui fasci di luce tra gli alti tronchi trasformavano il bosco in una misteriosa cattedrale verde.
Che pace…
“Nuota, nuota - gridò ancora – riprendendo il ritmo che le sembrava sempre più difficile mantenere.
Il vento di marzo ancora profumato di neve, ma con un forte sentore di fiori freschissimi la risvegliò donandole un briciolo di forze.
“- Sì mi ricordo – pensò – era un compleanno, forse il sedicesimo –
Rivide la piccola borsa di camoscio marrone con il manico di tartaruga ricevuto in dono e sentì il bacio di sua sorella e la voce che cantava tanti auguri.
“ Ancora, ancora – ricominciò la sua testa- forza, forza, non mollare! “
Due occhi nerissimi lucenti come spilli la stavano guardando sospettosi. Qualcosa di tenero, morbido, struggente era tra le sue braccia, e la stava soppesando per vedere se era degna di sostenerla.
Oh sì, quel momento incredibile della nascita di sua figlia, quell’incontro indescrivibile, senza parole.
Una canzone scendeva da una finestra aperta mentre lei giocava a palla contro il muro.
Una stanza piena di libri con un divano bianco sul quale un gatto grigio dormiva acciambellato.
Su e giù, su e giù, ancora e ancora.
Alzando la testa fuori dall’acqua le sembrò di vedere la riva avvicinarsi.
Improvvisamente il respiro divenne più difficile e per un attimo le sembrò che il celeste dell’acqua fosse grigio cupo.
Ecco è finita – le passò per la mente – e non provò paura, ma accettazione.
Ricordò un altro momento in cui aveva creduto la morte vicina.
Lontano, lontano nel tempo, intrappolata in un sacco a pelo con la cerniera inceppata, mentre intorno a lei sentiva il rombo del terremoto e dal soffitto piovevano calcinacci da una putrella che ruotava sopra la sua testa.
Aveva diciannove anni e ancora un animo infantile, più vicina ad Alice che a Wonder Woman.
“Finalmente saprò che cosa c’è di là” aveva pensato, più curiosa che spaventata.
Anche adesso la sfiorò lo stesso pensiero e le venne da ridere, era passata tutta una vita e ancora era rimasta Alice.
Improvvisamente il mare scomparve, la luce celeste diventò bianca qualcuno la chiamava con insistenza.
“Cara, forza, ce l’ha fatta! E’ ancora con noi!”
Aprì gli occhi e una strana figura infagottata dalla testa ai piedi, con una maschera che le copriva bocca e naso, le stava parlando.
Sentì una forte oppressione sul petto e si ritrovò in un letto d’ospedale. Viva.
“Coronavirus, pensò, hai perso!”