Théophile Emmanuel Duverger (Bordeaux,1821-Ecouen,1898) - Il gioco della Campana
Il nostro novecento – Capitolo 2
di Tito Giraudo
2. Via Giacomo Medici
Il giorno che papà tornò a casa dal carcere, io ero sul marciapiede davanti alla villetta di via Giacomo Medici dove vivevamo. Occupavamo il piano terra disponendo di un giardino sufficientemente grande, finché papà non decise di tagliare qualche albero per allevare polli e conigli per uso autarchico.
Nel 1946 papà era un epurato; significava che il Comitato di Liberazione riteneva che lui e la sua famiglia dovessero espiare i passati fasti fascisti tirando, come si usava dire, “la cinghia”.
Papà non era certo un epurato silenzioso. Soffriva di insonnia e spesso all’alba si dilettava nel lanciare urla, bestemmie e improperi contro una famiglia che abitava nella casa a fianco, il cui figlio era stato nella banda partigiana che aveva depredato la nostra casa. Non so se fossero gli improperi di papà o i proventi dell’eroismo partigiano, ma la famiglia in questione si trasferì ben presto in una graziosa villa sul Corso Lecce. Terminarono così anche le urla.
Papà era un bestemmiatore professionista, credo che a Torino si usasse molto, forse faceva parte del bagaglio anticlericale del Risorgimento. Non si limitava a bestemmiare, urlava a pieni polmoni, con una voce stentorea da tenore drammatico. Il suo menù variava dal Padre, al Figliolo e, al posto dello Spirito Santo, ci metteva la Madonna. Doveva aver letto quei Vangeli Apocrifi i quali sostengono che la mamma di Gesù fosse una meretrice.
Certo, economicamente non ce la passavamo bene, papà tuttavia esagerava a dismisura la nostra miseria. Girava vestito da accattone pur avendo una figura da intellettuale. Alla chiusura del mercato di Corso Svizzera andava a raccogliere i rifiuti tra lo sgomento della mamma e di mia sorella Edda. Non eravamo ridotti a quel punto, evidentemente a papà piaceva rimarcare le ingiustizie subite.
Questa sceneggiata si protrasse per un certo periodo finché, piano, piano, tornarono alcuni clienti e quindi poté tornare al suo mestiere di manutentore riparatore di macchine per scrivere.
Papà girava con la bicicletta in un periodo in cui le auto erano solo per i benestanti. Anche la bicicletta era epurata, vecchia, scrostata, la riverniciò a mano in un colore verde brillante. Quella bicicletta la usò fino all’inizio degli anni sessanta, quando venne sostituita da un motorino.
Io, a cinque anni considerato un genio, iniziai la prima elementare privata dalla maestra Pani. La maestra era una vecchietta robusta, doveva avere almeno ottant’anni, quando teneva la penna in mano era necessario stare attenti che non ci punzecchiasse tanto questa le tremava. Abitava vicino alla Parrocchia di Sant’Anna, il fulcro della mia vita di bambino prima, e ragazzino poi.
Via Giacomo Medici apparteneva, e appartiene tuttora, al quartiere Francia, allora era decisamente fuori porta, una zona tranquilla abitata da piccola borghesia, due corsi spaziosi la intersecavano: Corso Svizzera dove andavo a scuola e Corso Lecce che finiva nella mitica Pellerina, ora parco pubblico, per noi allora ragazzi, terreno di fantastiche avventure.
Al sabato sera tutta la famiglia andava al cinema, all’epoca nelle periferie c’erano molte sale cinematografiche; in borgo Francia ben quattro: tre di terza visione e uno talmente scassato, il Manzoni, da non essere nemmeno qualificato.
Era un rito quello del cinema al sabato sera, come erano un rito alla domenica le visite delle tre zie, sorelle zitelle della mamma.
Venivano sempre la domenica, in alternativa eravamo noi ad andare da loro, a piedi, o con il tram 22 che aveva della carrozze antiche, un misto di legno e lamiera. I ragazzini (io no, perché ero prudente) viaggiavano a cavallo del respingente. Allora il biglietto non si obliterava, semplicemente lo staccava il bigliettaio.
In quei tempi gli operatori ecologici si chiamavano spazzini, gli operatori scolastici bidelli e ai maestri e ai professori si dava del lei. Oggi la sinistra radical chic, non potendo eliminare i lavori meno gratificanti perché necessari, ha pensato di renderli più graditi nobilitandone i nomi. Volete mettere come fossero tristi i bidelli e gli spazzini di una volta, e come invece si pavoneggino per aver salito un gradino nella scala sociale, oggi che sono diventati operatori? Si può dare del tu a un operatore? Certo che no: al massimo i ragazzi di oggi lo danno a un insegnante, così da sentirlo come amico o fratello, magari il fratello scemo.
Un altro rito indimenticabile era il Natale. Le zie anche in questo caso non mancavano, e nemmeno Magna (zia) Margot, in realtà prozia sorella della nonna materna Marie, morta come il nonno Vittorio prima che io nascessi. I nomi francesi erano dovuti al fatto che la famiglia era tornata da S.t. Etienne in Francia dove il bisnonno era emigrato da Campo, facendo una certa fortuna.
Magna Margot era separata dal marito il quale, dopo averla sposata, l’aveva portata in Sud America. Si raccontava facesse il bandito, lei spesso costretta a lunghe fughe a cavallo, fino a quando non si stufò e tornò in Italia, sola.
Papà era il protagonista assoluto del Natale, in realtà la sua presenza si sentiva sempre, anche quando non c’era. Ma a Natale era lui che organizzava, finanziava, ospitava. Era il dopoguerra e per alcuni anni i buej (le budella) erano costantemente vuote. La guerra ci aveva lasciati se non affamati, desiderosi di pranzi opulenti. In casa Giraudo, a Natale si faceva un gran banchetto, almeno per quei tempi.
In realtà il menù lo decideva la mamma che era un’ottima cuoca. Ma il piatto forte, quello per cui il Natale aveva la N maiuscola come quella di Napoleone, erano gli agnolotti di papà.
Agnolotti: mitica parola. Ma qui si parla di agnolotti veri, non di quelli che tutti possono fare al giorno d’oggi. Si diceva che l’agnolotto fosse un piatto povero, composto da sfoglia con un ripieno di carne avanzata. Balle! Nessun povero avrebbe mai avanzato due tipi di carne arrosto! Quindi è assodato che gli agnolotti fossero e siano un piatto borghese.
Sia pure epurati, anche noi eravamo borghesi, almeno da parte di mamma. Quella pasta ripiena era il nostro piatto forte, la nostra goduria. Papà li preparava con largo anticipo, non era per la cucina veloce: se all’epoca il buon Carlin Petrini avesse già inventato quel pozzo di S. Patrizio (per lui) che è Slow Food, mio padre ne sarebbe stato uno dei più fervidi fautori, beninteso non avesse scoperto le origini di sinistra.
Tornando agli agnolotti, che in genere sono interpretati differentemente non solo da zona a zona ma da famiglia a famiglia, vi racconto quelli secondo il gerarca epurato: cuoceva due tipi di arrosto, uno di vitello e l’altro di maiale, poi bolliva anche un salame, quelli senza le cotiche. Infine cuoceva alcune foglie di cavolo verza. Passate ventiquattro ore, prendeva la macchina tritacarne e con questa macinava tutto quel ben di Dio che veniva poi messo a riposare, non senza aver aggiunto la noce moscata, nella nostra ghiacciaia naturale, la sala da pranzo con annessi radiatori spenti.
L’ultimo inverno di guerra fece segnare temperature polari che misero fuori combattimento caldaia e radiatori. L’unica stanza riscaldata era ovviamente la cucina. Il ripieno degli agnolotti preparava l’ambiente con effluvi che aumentavano il nostro appetito, sempre ce ne fosse stato bisogno.
Il ripieno veniva distribuito a mucchietti sulla sfoglia. Dire mucchietti è un eufemismo. Papà, esagerato in tutto, faceva agnolotti larghi almeno dieci centimetri, a volte anche quindici. Oggi, in certi sofisticati ristoranti uno solo (magari aperto alla Marchesi) sarebbe sufficiente. Noi ne mangiavamo un piatto pieno, poi facevamo il bis, mentre il tris lo si faceva il giorno di Santo Stefano.
Non si iniziava però con gli agnolotti, in quanto il menù comprendeva antipasti, primo, secondo, poi frutta fresca e secca, dolce, panettone e caffè.
Negli antipasti c’erano prosciutto cotto, crudo, salame, funghi sott’olio, sott’aceti vari e poi il piatto forte di mamma: l’insalata russa. Non quelle poltiglie anemiche che si trovano in gastronomia oggi, ma una ricca raccolta di tante verdure bollite (attenzione ci vuole anche il finocchio!), a cui si aggiungeva insalata belga tagliata fine, qualche cappero e dulcis in fundo, tonno sott’olio e arrosto tritati e amalgamati. Il tutto ricoperto con maionese fatta a mano, sulla quale venivano poste come guarnizione carote tagliate a rondelle, cetriolini a spicchi, piselli, così da formare fiori o composizioni astratte. La mamma era un’artista.
Il secondo, per contro, variava secondo la sua fantasia e, in seguito, anche di quella di mia sorella. In generale era un grande arrosto con verdure cotte per contorno. Non ho ricordi di alcun tipo di stanchezza da parte di nessuno di noi dopo quei pranzi natalizi.
A Natale aspettavo Gesù Bambino, a quel tempo Babbo Natale non era ancora di moda. La mamma ed io facevamo il giro dei negozi di giocattoli un mese prima. Con il naso incollato alla vetrina sceglievo quello che mi piaceva, compatibilmente con il fatto che il nostro Gesù era quello della mangiatoia, non quello del Vaticano. Un Gesù bambino con San Giuseppe caduto. La vigilia si andava alla Messa di mezzanotte, tranne papà che era un mangiapreti. Al mattino si aprivano i regali iniziando una giornata di bagordi che si prolungava fino a Santo Stefano, sempre con la presenza delle zie e di Magna Margot.
A Capodanno invece si andava a pranzo in via Santa Chiara, a casa delle zie, nel centro storico vicino alla chiesa della Consolata. Cucinava zia Toia, una donnetta piccolina che, essendo nata con la lussazione dell’anca, era rimasta zoppa. Era una cuoca formidabile, di quelle che quando toccano il cibo gli danno un gusto e un profumo particolari.
A Carnevale si andava nuovamente dalle zie. Prima a vedere tutti insieme la sfilata dei carri. Tornati nella casa di via Santa Chiara, si gustavano “le bugie”, anche queste straordinarie fatte con la pasta frolla e fritte nell’olio.
Le zie adoravano mia sorella. Da zitelle quali erano, non capivano probabilmente noi maschi, ma Edda per loro era una figlia, vivevano l’una per l’altra, ma tutte per lei. Zia Rita, che era un’ottima sarta, le faceva dei bellissimi vestiti, poi d’estate quando andavano in vacanza a Campo, mia sorella passava con loro le ferie.
La mamma, pur volendo bene alle sue sorelle, non gradiva queste discriminazioni nei miei riguardi. Ne parlava allora con papà che, andando al solito su tutte le furie, rifilava ogni sorta di contumelia alle povere zie. Come se una zia fosse obbligata a stravedere in eguale misura per tutti i nipoti!
Io comunque non ne ero geloso.
Non doveva essere vero che fossi un genio, se alle elementari frequentate alla Manzoni di corso Svizzera, non ho lasciato traccia dei miei successi.
Per farsi coraggio i miei pensavano che fosse stato uno sbaglio farmi frequentare la prima a cinque anni, quando certamente ero meno maturo degli altri. In realtà il mio problema era che a scuola pensavo ad altro. Ero un pelandrone costituzionale e avevo anche scarsa capacità di concentrazione, tutte ragioni che facevano di me un pessimo scolaro. Così il maestro di quinta elementare disse a mia mamma che non ero pronto per le medie. Non esistendo la media unica, venni catapultato alla Paolo Boselli, un istituto commerciale dove diedi il peggio di me.
Torniamo alla vita di quartiere.
Allora si giocava molto, non c’era traffico, pochissime automobili. Giravano ancora carri trainati dai cavalli con i copertoni per non far rumore e non rovinare l’asfalto. In compenso i cavalli defecavano e papà con la paletta raccoglieva lo sterco e lo metteva in giardino per i fiori.
In giardino c’era anche Febo. Un cane da pastore bianco, che bianco però non fu mai, essendo sempre lurido da far spavento e con il pelo impillaccherato. Da dietro la cancellata abbaiava come un ossesso a tutti quelli che passavano, salvo ritirarsi in buon ordine se qualcuno entrava in casa o in giardino.
Pur avendo il giardino, si giocava soprattutto in strada, anzi sui marciapiedi e i viali. Allora di gran moda le figurine dette figio: si faceva un mazzetto mettendo ognuno qualche figurina e poi, con il palicia (una pietra piatta) si doveva portare via il mazzetto. Quando in un cantiere trovavamo della sabbia, si scavava un circuito automobilistico facendo correre le biglie al posto delle auto da corsa. Subito dopo la Guerra queste erano di terra cotta, poi negli anni seguenti di un vetro che ci sembrava meraviglioso per le tante venature interne.
In una tabaccheria vicino al cinema Excelsior, arrivarono i cicles, le gomme americane, dei salamini rosa avvolti nella carta come le caramelle. Poi arrivarono i bolli, cioè i cicles sferici dentro la boccia di vetro, per farli uscire dovevi infilare, mi pare, 5 lire.
Chi furono i miei amici d’infanzia? Il primo fu Vittorio, che abitava sopra di me. Quando papà litigò con suo padre medico (e non mai saputo il perché), non ci vedemmo più.
Optai allora per una ragazzina che si chiamava Adriana. Aveva un anno più di me, era bella e intelligente, con una famiglia a dir poco strana. Il padre era un ufficiale di cavalleria, ex fascista, anche lui epurato. La mamma era una ex bellissima donna, considerata dal vicinato poco seria e non perché ridesse sovente. Non so se fosse vero, probabilmente era solo “emancipata”. Avevano altri due figli: Laura, dell’età di mia sorella e Alberto, il maggiore, che era uno strano personaggio artistoide. Pestava note incomprensibili sul pianoforte. Vivevano tutti al di sopra delle loro possibilità. Papà diceva che erano pien ëd fum e pien ëd pof (pieni di fumo e di debiti). Nonostante questo non mi fu mai proibito di frequentare la loro casa e, soprattutto, la mia amica Adriana. Entrambi avevamo una grande fantasia e inventando situazioni e giochi meravigliosi.
Fatemi parlare dell’oratorio.
Nell’oratorio parrocchiale si giocava a pallone, c’erano le altalene, il parroco si chiamava Don Feyles. Era alto, con un nasone adunco e gli occhiali, teneva con sé il fratello, anche lui prete, che doveva avere qualche disturbo mentale perché vagava con l’aria trasognata (che fosse un santo?). Poi c’era Don Pilotti, seguiva noi ragazzi: un prete piccolo e rotondetto, di quelli che scherzavano volentieri, anche ammiccando su cose che allora erano considerate pruriginose.
Un giorno noi ragazzi venimmo a sapere che l’oratorio sarebbe diventato la sede degli scout di quartiere. In quei tempi c’erano due associazioni scoutistiche: l’ASCI, quella cattolica e i “Pionieri”, quella comunista. La prima era di gran lunga la maggioritaria perché poteva contare sulla meravigliosa organizzazione che erano allora gli oratori.
Lo spirito era quello dello scoutismo inglese calato però nella realtà cattolica italiana. Vita all’aria aperta, giochi, gite e alla domenica la Messa.
Entrai negli scout in estate, alla fine delle elementari. Noi piccoli eravamo lupetti, avevamo una divisa composta da una maglia verde, calzoni blu corti e il foulard quello annodato al collo portato da tutti gli scout.
A casa scoppiò il dramma quando si trattò di comperare la divisa, papà disse che non avevamo i quattrini, faceva parte della sua sceneggiata. Sono sempre stato un bambino che non cercava grane, mi facevo i fatti miei purché non mi contrariassero in ciò che veramente desideravo. Quella era una cosa che mi attirava e senza divisa non l’avrei fatta. Mamma, come il solito convinse papà e io feci la “promessa” da lupetto.
Un anno dopo ebbi l’età per diventare uno scout vero e proprio. Lasciai la maglietta verde dei lupetti per la divisa degli scout, camicia cachi con le spalline e decorazioni varie, quanto ero bello!
Il legame con la Chiesa era profondo ma non ossessivo. I nostri capi erano ragazzi poco più che ventenni, il sabato facevamo le nostre esercitazioni all’oratorio, la domenica sovente si andava in gita. Ci insegnavano ad accendere il fuoco, a montare le tende ma soprattutto facevamo giochi pieni di fantasie avventurose.
In quinta elementare il mio compagno di banco si chiamava Marziano Marzano. Diceva di essere conte, duca e barone, voleva sempre giocare a ”padrone e schiavo”, secondo lui io avrei dovuto fare sistematicamente lo schiavo, cosa che naturalmente uno scansafatiche come me rifiutava. Nonostante questo diventammo grandi amici. Lui abitava in una villetta vicino alla Pellerina. Nei pomeriggi dopo i compiti (li facevo?) andavo da lui e con altri ragazzi giocavamo ai moschettieri, duellando con i canaveuj, una specie di bambù meno nobile.
Il sindaco Peyron mi permetteva di andare alla Colonia Municipale Città di Torino, in quel di Loano in Liguria. In quegli anni pochi bambini potevano andare in vacanza con i genitori, la maggioranza trascorreva il mese estivo nelle colonie, un’eredità fascista fortunatamente non vietata dall’antifascismo dell’epoca.
A quel tempo quasi tutti noi ragazzi si andava alle colonie estive
C’erano le colonie aziendali, quelle comunali e quelle cattoliche. Come figlio di un epurato e per di più artigiano, potei andare in quella del comune di Torino grazie all’intervento di quell’ottimo sindaco democristiano che fu l’avvocato Amedeo Peyron. La colonia non mi piaceva. Sentivo la mancanza lacerante di mia mamma, c’era troppa disciplina, avevo sempre sete e si mangiava male.
Per alcuni anni, fino al termine delle elementari, comunque andai in quella colonia, solo l’ultimo anno passai dal mare alla montagna.
Sempre con il comune di Torino frequentai per un mese la colonia nell’Abbazia della Novalesa. Fu il primo anno che mi divertii e conobbi Aldo che ritroverò alla Olivetti di Ivrea.
Tutto il periodo delle Commerciali lo passai negli scout. Un anno ci portarono al grande raduno nazionale in Val Fondillo nel Parco Nazionale d’Abruzzo. Prima visitammo Roma. Meglio sarebbe dire visitarono, perché, piuttosto cagionevole di salute, mi venne un febbrone da cavallo. Per un giorno rimasi a letto nel convento che ci ospitava con i capi scout che a turno mi assistevano: devo essere stato un bel problema.
Decisero però di non rispedirmi a casa, partii quindi con tutti gli altri in pullman per il grande raduno. Una settimana in un bellissimo parco è una grande avventura per un ragazzino quasi mai uscito dal quartiere. Credevo che l’Abruzzo fosse il profondo Sud. Allora i paesini del Sud erano selvaggi. Ricordo: Opi con i bambini laceri che ci chiedevano caramelle.
Il grande raduno si concluse con una epica battaglia che simulava quella del Generale Custer a Little Bighorn. Migliaia di ragazzi divisi in due squadre, gli indiani e gli yankee. Ognuno di noi aveva un fazzoletto dietro la schiena infilato nella cintura dei calzoni e se lo strappavano dovevi considerarti morto uscendo dal gioco. La battaglia durò tutta la giornata, non so se vincemmo o perdemmo, ma è un ricordo indimenticabile della mia vita di ragazzo.
E veniamo alle dolenti note: le Commerciali.
La mia scuola, la Paolo Boselli, era nei pressi della stazione di Porta Susa vicino a Corso Vinzaglio, dove c’era e c’è la Questura. Prendevo il tram numero 20 al mattino e lo riprendevo all’uscita. Qualche volta mi mangiavo i soldi del tram, comprando la farinata che un vecchietto vendeva fuori dalla scuola, utilizzando una bicicletta con fissato sul manubrio il disco metallico dove era stata cotta.
Due pezzi di farinata calda in un foglio di carta bianca costavano dieci lire, poi, se non c’erano più i soldi per il tram, tornavo di corsa a casa a piedi. Ci mettevo quasi un’ora ad arrivare e francamente non ricordo più le scuse che inventavo per il ritardo.
Papà, collerico di suo, prima di pranzo lo era ancora di più. A nulla valevano le mie giustificazioni su ipotetiche fermate del tram, resse, incidenti, e via inventando. Le urla si sprecavano, la mamma e mia sorella, comunque coinvolte, mi avrebbero pelato vivo. Urla e violenza verbale, tuttavia, non erano certo accompagnate da violenza fisica. Ricordo rarissimi scapaccioni, anzi, non li ricordo proprio.
La mamma invece, che era infinitamente più dolce e disponibile, qualche volta mi menava, soprattutto quando ero particolarmente noioso o non volevo fare i compiti. Debbo riconoscere, tuttavia, che Edda ed io abbiamo avuto una mamma eccezionale: nonostante i tempi duri era sempre serena, pur avendo perso due figlie. Una presenza meravigliosa, un’amica che giocava con noi, che ci raccontava storie e favole, che fischiava le canzoni in modo straordinario.
Edda, mia sorella, intanto era diventata una signorina, si era diplomata e la sera andava a lezioni di inglese al Circolo Filologico in corso Valdocco. Era stata assunta come telefonista alla Stipel (così si chiamava allora la compagnia pubblica dei telefoni): bella ragazza, sempre molto ben vestita da Zia Rita, doveva anche essere molto corteggiata. Lei d’altronde teneva al suo fisico e alla sua linea. Ricordo che quando non voleva mangiare quello che a casa passava il convento, furtivamente si toglieva il cibo dalla bocca, lo appallottolava e lo lanciava con destrezza sopra la madia della cucina. Un giorno papà se ne accorse, ci furono urla e strepiti, che però non impedirono a Edda di continuare imperterrita la sua pallacanestro mangereccia.
Edda… Che fantasia avevano avuto papà e mamma nel darle un nome simile. Durante il regime certo non ci fu nessun problema, ma dopo la liberazione Edda per qualche anno diventò Maria, che era il suo secondo nome, quello di nonna Marie.
A me, invece, diedero il nome di Tito, e non per bilanciare la cosa. Certo papà non mi chiamò così in onore di ”quel porco di comunista”, come diceva sovente. Tito era il nome di chi doveva farmi da padrino: Tito Bandiera, marito di Marga, cugina della mamma e parente dell’omonimo “fratello risorgimentale”. Tito Bandiera pensò bene di morire prima del mio battesimo. Mi restò solo il nome e padrino fu invece il Cavalier Sacco, vecchio camerata di papà, che aveva un magazzino di mobili in via Cibrario.
Papà per aumentare le entrate, una volta alla settimana andava nella sua villa in corso Francia per fare alcuni lavori, mangiava lì credendo di aiutare in casa. In realtà lavorava gratis per un figlio di puttana che lo sfruttava. Fortunatamente scoprì che il Cavaliere aveva cambiato bandiera, non era più fascista. Fece quindi la solita furiosa litigata e da quel momento persi anche quel padrino improvvisato.
Ma tornando ad Edda, fu proprio al Circolo Filologico che conobbe Fred.
Io lo vidi la prima volta a Pecetto, sulla collina torinese alla sagra delle ciliegie. Edda aveva combinato tutto. Non era ancora tempo di visite ufficiali, ma la mamma voleva dare un’occhiata a Fred, che arrivò in bicicletta con i calzoni corti, sembrava un Apollo. Mi misi alle calcagna dei due malcapitati e non li mollai un minuto finché le occhiatacce di mia sorella, ma soprattutto un gelato di Fred, non mi fecero mollare temporaneamente la presa.
Fred per qualche anno sarà il tramite tra me e i ricordi della vita di papà, il quale aveva imparato a leggere e a scrivere solo a vent’anni. Tuttavia, se era un pessimo lettore era un magnifico parlatore e divulgatore politico.
Papà, per presentarsi a Fred, raccontò per mesi tutta la sua vita, io lo ascoltavo senza fiato. Quando parlava si trasformava usando un italiano fluente da grande affabulatore. Le cose da raccontare erano tali, e di così grande importanza storica, che Fred dimenticava in quei momenti persino la sua morosa, e tutti rivivevamo la storia della vita di mio padre.
Edda e Fred si sposeranno qualche anno dopo, mentre stavo finendo le commerciali. Ci saremmo ritrovati tutti, trent’anni più tardi sul lavoro.
Per completare il quadro, è giocoforza ritornare ai miei anni scolastici, anche se non credo di potermene vantare. Ero in una classe mista, le prime pulsioni sessuali battevano prepotentemente alla porta: se in una classe di soli maschi avrei comunque studiato poco, nella classe mista non feci praticamente niente, salvo scrivere poesie all’amore di turno. Non credo di essere stato molto attraente per quelle ragazzine, macilento com’ero e di un anno più giovane, ma loro mi piacevano, e questo contribuiva fortemente alle mie distrazioni e pigrizie.
Ripetei la seconda Commerciale perché al tempo gli scansafatiche li bocciavano, riportandomi come età al pari dei miei compagni. Se questo avrebbe dovuto essere risolutivo, fu invece ancora peggio, tanto che – pur ripetendo – me la cavai per il rotto della cuffia. La musica non cambiò nel prosieguo, perché anche la terza la feci malissimo: ma essendo già stato stabilito che l’anno successivo avrei dovuto frequentare la scuola dell’Olivetti, papà andò a cercare comprensione da un’amica professoressa e, per gentile intercessione del preside della Boselli, mi venne praticamente regalata la Licenza Commerciale.
Nell’estate andai a fare il fattorino da un cliente di papà, la Clinica Fornaca di Sessant. In quella clinica il personale non medico era tutto di ex fascisti epurati o dei loro figli. Papà era il manutentore delle macchine per scrivere della clinica.
Il primo giorno di lavoro per me fu uno choc. Mi diedero uno straccio in mano e mi fecero spolverare l’ingresso dove c’era la mia postazione di fattorino. Il mio spirito borghese ebbe un conato di ribellione, ma, facendo buon viso a cattivo gioco, spolverai il minimo indispensabile.
Il primo lavoro della mia vita durò tre mesi. In realtà mi piaceva, a parte la polvere da togliere. Compravo i giornali ai clienti che mi davano la mancia. Talvolta andavo persino alla banca del sangue a ritirare i flaconi per le trasfusioni, in quelle occasioni le mance diventavano più consistenti.
Ed è qui che iniziò la mia brillante carriera di dilapidatore dei beni posseduti, e pure di quelli che non possedevo. Ma questa è un’altra storia.