La rivoluzione industriale - I - Agricoltura e sviluppo demografico
di Mauro Lanzi
Prologo
La Rivoluzione Inglese del 1689 aprì le porte non solo alle due grandi rivoluzioni politiche, Rivoluzione Americana e Rivoluzione Francese che l’hanno seguita, riprendendo, anche se in forma diversa, il tema fondamentale della stessa, cioè la limitazione del potere monarchico in favore di un parlamento eletto, ma pose le basi anche per una rivoluzione di natura diversa, certamente di minor impatto ideale, ma di conseguenze concrete forse ancora più profonde importanti e durature, l’evento forse di maggior portata, fino allora, nella storia dell’umanità, la Rivoluzione Industriale Inglese.
La Rivoluzione Industriale
Che cosa è stata la Rivoluzione Industriale Inglese?
Cominciamo con una definizione: come “rivoluzione industriale” si intende quel complesso di innovazioni tecnologiche, intervenute in Inghilterra a partire dal 1760, che, sostituendo all’abilità umana le macchine ed alla forza di uomini ed animali l’energia inanimata, resero possibile il passaggio dall’artigianato alla manifattura, così come il passaggio dall’economia agricola ed artigianale all’economia industriale.
La rivoluzione industriale inglese è stata delimitata dal suo più grande storico, Thomas S. Ashton, fra il 1760 e il 1830 e corrisponde alla prima rivoluzione industriale, che comportò un insieme di rivoluzioni settoriali: dall’agricoltura ai trasporti, dalla popolazione alle innovazioni tecniche e finanziarie.
Ad essa fece seguito, secondo l’impostazione classica, una seconda rivoluzione industriale che, a partire dal 1850, generò processi fondamentali, ad esempio nel campo della chimica o dell’elettricità o della medicina.
Nonostante la vastità e la portata delle innovazioni introdotte dalla seconda rivoluzione, è alla prima che si fa risalire il momento evolutivo di maggior rilievo, per il rivolgimento sociale, economico e culturale che generò: la prima rivoluzione industriale, fu, al di là di ogni dubbio, l’evento di maggior portata nella storia dell’umanità, almeno dopo l’”invenzione” dell’agricoltura o delle città.
La rivoluzione industriale, infatti, appare ancora oggi non solo come il fatto più importante dei nostri tempi, ma anche come un fenomeno unico nel processo evolutivo della razza umana, che di cambiamenti, anche cruenti, ne aveva già conosciuti molti: questa rivoluzione, incruenta per una volta, ha modificato radicalmente il nostro modo di essere e di pensare e non solo per la disponibilità di beni materiali che ha generato.
Pensate, ad esempio, al concetto di “crescita”, che oggi è divenuto un “mantra” nei discorsi di economisti e politici, perché appare l’unica soluzione di tanti problemi; questo concetto, nell’antichità, era ben lungi dall’essere un fatto acquisito, per molti millenni di storia umana l’unica crescita concepibile derivava da acquisizioni o conquiste, che aumentavano il benessere o la potenza di alcune nazioni a detrimento di altre; un processo, quindi, a somma zero.
Improvvisamente, a partire dal 1760, l’umanità si rende conto che c’è un’altra strada percorribile, oltre a rapine o guerra, che è possibile far crescere il benessere individuale e collettivo o la ricchezza di una nazione attraverso l’innovazione, ovvero l’introduzione di processi tecnologici capaci di aumentare, in misura mai immaginata prima, la produttività del singolo individuo o di un insieme di lavoratori.
In passato, prima del 1700, si erano conosciuti processi di grande sviluppo economico, legato a forme di nascente capitalismo industriale, in particolare proprio nell’Italia del Rinascimento o nelle Fiandre, ma ogni volta il fronte del progresso si era arrestato per mancanza di nuove idee, di cambiamenti qualitativi, di sinergie significative tra i diversi settori del mondo del lavoro, di dimensioni nazionali adeguate o, anche, di una duratura stabilità politica.
Nel periodo che stiamo considerando, il cambiamento produce cambiamento; la cosa stupefacente è che questo processo non fu confinato all’interno di uno stesso settore industriale, ma derivò anche dall’interazione tra diversi settori; la macchina di Watt non sarebbe stata inventata senza i grandi progressi della siderurgia: a sua volta lo sviluppo della siderurgia fu legato alla crescente disponibilità di carbone ed ai processi di affinazione di questo materiale. Lo sviluppo dell’industria tessile non sarebbe stato possibile senza il contributo di invenzioni meccaniche, anche assai semplici, o della chimica per lo sbiancamento, l’affinazione e la tintura dei tessuti; a sua volta la chimica rese possibile mettere sul mercato saponi a basso costo, che migliorando l’igiene personale, incrementavano l’aspettativa di vita della popolazione ed aumentavano la richiesta di beni. Il tutto poi sfociava in una esigenza di migliori comunicazioni, canali, strade, ferrovie.
In questo senso la Rivoluzione Industriale segnò una svolta decisiva, inaugurando un’avanzata circolare, cumulativa, autopropulsiva della tecnica, del commercio e dell’economia.
A questo punto sorgono spontanee, come sempre in presenza di grandi eventi, due domande; perché proprio allora, perché proprio lì, in Inghilterra. Perché, ad esempio, la grande industria tessile è nata a Manchester e non in un’altra città, ad esempio in Italia? Cosa c’è che non funzionava nelle città italiane, magari anche più ricche e popolate di Manchester?
Non sono quesiti retorici od oziosi; l’Inghilterra del XVII/XVIII secolo, infatti, non era il paese più popoloso, né il più florido, né il più acculturato d’Europa. In campo scientifico la Francia dell’illuminismo, degli enciclopedisti, dei fisiocrati era molto più avanzata; basti pensare ai nomi di Turgot nel campo dell’agricoltura, di Lavoisier nella chimica, di Mariotte nella fisica: anche per quanto riguarda l’invenzione simbolo della Rivoluzione Industriale, la macchina di Watt, questa fu preceduta dagli studi sulle proprietà del vapore sviluppati dal francese Papin; le basi teoriche del processo furono individuate più tardi, nel 1820 da un altro francese, Sadi Carnot; Carnot è considerato il padre della termodinamica. Peraltro, l’Inghilterra non aveva neppure una grande tradizione manufatturiera, qui il primato spettava ad altri paesi, in primo luogo proprio l’Italia: nel campo del tessile, ad esempio, Firenze godeva di esperienza e tradizioni ben superiori, era stata il maggior centro produttivo nel medioevo, nell’industria del ferro era Milano a dominare.
Infine, come si vedrà nel seguito, mancò del tutto la figura di un grande inventore, un personaggio che con le sue idee potesse capovolgere lo stato di cose esistente; lo stesso Watt non si può dire che fosse uno scienziato, non aveva neppure fatto gli studi universitari, era un praticante di meccanica che riuscì a modificare e migliorare macchine che esistevano già.
Bisogna concludere allora che la cosiddetta Rivoluzione Industriale fu un fenomeno molto più complesso di quanto si possa pensare, che ebbe delle premesse da cui non si può prescindere, se si vogliono capire le cause ed i fondamenti di un cambiamento così vasto e profondo, se si vuole comprenderne per intero la portata. Queste premesse, che, di fatto, coinvolsero tutta la società inglese del tempo, si possono individuare in una serie di eventi, di rivoluzioni settoriali che si susseguirono ed interagirono nel giro di un secolo o poco più, cambiando profondamente i lineamenti del Paese, della sua economia, della sua cultura; parliamo specificatamente di:
- Rivoluzione agricola.
- Rivoluzione demografica.
- Rivoluzione finanziaria.
- Rivoluzione dei trasporti.
- Rivoluzione etica ed intellettuale.
- Rivoluzione politica.
- Rivoluzione sociale.
- Rivoluzione tecnica.
Cominciamo allora con l’esaminare i primi due capitoli, agricoltura e demografia, che sono da sempre i pilastri fondamentali dell’economia di una nazione.
- Rivoluzione agricola
La servitù della gleba sarà infine abolita da Elisabetta I nel 1572, ma era già venuta scomparendo nei secoli precedenti, perché giudicata poco utile o persino antieconomica, si preferiva ricorrere ai manenti o a manodopera salariata.
Esistevano poi altre importanti porzioni del territorio che erano attribuite agli abitanti dei villaggi (“cottagers”) in forma comunitaria; ogni famiglia del villaggio poteva disporre di una striscia di terreno da coltivare per le proprie necessità, ma le assegnazioni non erano fisse e potevano variare di anno in anno: tutto il resto del territorio era aperto al pascolo.
Verso la metà del XV secolo, la nobiltà, sempre più coinvolta in politica (è il tempo delle guerre civili) tende a disinteressarsi della gestione dei terreni agricoli, che venivano sempre più frequentemente venduti a piccoli proprietari(“freeholders”) o affittati a fittavoli (“leaseholders”).
Si venne così a costituire una nuova classe sociale di liberi coltivatori, detti ”yeomen” (termine di origine e significato incerti), che costituirono la base sociale della dinastia Tudor; ancora oggi, chi visita la Torre di Londra viene accolto dagli “Yeomen warders”, detti anche “Beefeaters”, che oggi sono ridotti ad attrazione turistica, ma ai tempi dei Tudor erano una guardia armata, istituita da Enrico VII, perché di fatto rappresentava una componente fondamentale della popolazione inglese.
Lo scisma della Chiesa Anglicana, voluto da Enrico VIII, con la conseguente abolizione dei monasteri e confisca delle loro proprietà, amplia notevolmente la schiera di piccoli e medi proprietari; si afferma anche un nuovo ordine sociale costituito da chi era riuscito, in un modo o nell’altro, ad ottenere un appezzamento più vasto: è questa la”gentry”, la nobiltà di campagna, che costituirà la spina dorsale degli eserciti di Cromwell: la confisca dei beni ecclesiastici avvenne senza basi logiche o legali, fu un processo basato sull’esproprio e sull’arbitrio, ma determinò comunque una nuova realtà nell’Inghilterra del primo seicento.
Occorre specificare che, anche per questi nuovi possidenti, comunque, il concetto di proprietà era molto riduttivo: il padrone del campo era tenuto, dopo la mietitura, a consentire la spigolatura, e d’inverno doveva lasciare il campo aperto al pascolo. Si trattava, quindi, ancora, di una tipica economia di sussistenza: tutti dovevano avere di che sopravvivere, nessuno deteneva il possesso esclusivo della terra.
Questa situazione iniziò a modificarsi fin dall’inizio del XVI secolo, quando alcuni dei proprietari, più intraprendenti o più rapaci, spesso componenti della gentry, la piccola nobiltà, cominciarono a recintare le loro proprietà (generalmente gli appezzamenti più vasti), incorporando anche parti delle terre comuni. Il fenomeno si estese rapidamente, perché, accanto alla piccola nobiltà, si verificò in questo periodo anche un ritorno alla terra della grande nobiltà, che, rovinata dalle guerre civili, aveva ritrovato una ragion d’essere ed una nuova base economica nello sfruttamento delle residue proprietà terriere ed era quindi indotta a partecipare attivamente in questo processo.Le nuove entità derivanti dalle recinzioni, dette “enclosures”, cambiarono radicalmente i connotati dell’agricoltura inglese, favorendo l’affermarsi di nuove pratiche di coltivazione, che andarono sotto il nome di “high-farming”.
L'aumento della dimensione del singolo appezzamento di terra e la sua recinzione, infatti, incoraggiarono investimenti ed innovazione; si prese a dissodare nuove parti di terreno, a prosciugare gli acquitrini, a drenare e canalizzare le acque. Soprattutto si verificò l'introduzione generalizzata di nuove tecniche, generalmente definite con il termine Sistema di Norfolk, dal nome della contea inglese dove, nella prima metà del XVIII secolo e sotto la spinta del pioniere Lord Townshend, erano state sperimentate.
In questo sistema si contemplava, non solo il miglioramento degli utensili tradizionali e l’introduzione di nuovi, la selezione delle sementi, l’impiego del concime, l’uso del cavallo nei lavori agricoli, ma anche, ed è questa la novità più importante, l'abbandono progressivo del maggese e l'introduzione di una rotazione continua delle terre. Fin dall’antichità i contadini avevano appreso che un terreno coltivato a frumento tende ad esaurirsi divenendo sterile in poco tempo e va quindi lasciato riposare, almeno ad anni alterni, lasciandolo a pascolo. Con l’inizio del 1700 si scoprì, prima nei Paesi Bassi, poi in Inghilterra, che alcuni tipi di cultura, impiegati nel periodo invernale, sono in grado di fissare al terreno l’azoto assorbito dall’atmosfera, rendendolo nuovamente fertile e pronto alla semina; si tratta principalmente di piante della famiglia delle leguminose, come il trifoglio, le rape, il navone (varietà di cavolo), che non solo arricchivano il terreno aumentandone la produttività, ma consentivano anche di raccogliere in inverno il foraggio per allevare animali da latte e da carne, i bovini, fino allora poco diffusi in Inghilterra; grazie alle nuove pratiche di rotazione, al posto di un raccolto ogni due anni, i coltivatori poterono contare quindi su due raccolti l’anno e su nuove fonti di reddito.
A seguito di tutte queste innovazioni la produttività agricola si incrementò in Inghilterra, tra il 1700 ed il 1800, del 90%, determinando un surplus alimentare che fu alla base dei mutamenti che descriveremo in seguito.
Evidentemente l’introduzione delle enclosures non fu del tutto indolore, colpiva in particolare le fasce più deboli e meno protette della popolazione agricola, che vivevano sulle terre comuni, i cottagers: si verificarono in più parti delle violente sommosse, le recinzioni venivano abbattute, le terre devastate, i padroni minacciati. La piccola e la grande nobiltà terriera, che avevano avviato il processo di recinzioni, disponevano però di forti coperture politiche; il Parlamento, sollecitato dai grandi proprietari terrieri, cominciò a legiferare e con tutta una serie di “Enclosure Act” legalizzò una situazione nata dall’abuso.
Per effetto delle enclosures la percentuale di popolazione impiegata nei campi passò, nel corso di un secolo, dal 70 al 30%, un cambiamento radicale; abbandonarono le campagne non solo i cottagers, spinti alla disperazione, ma anche gli yeomen, la cui attività non era più competitiva, scomparvero rapidamente.
Riflettendo su quanto sopra esposto ci si può anche chiedere cosa di rivoluzionario avesse in sostanza questa fase della agricoltura inglese, se raffrontata alla realtà europea: le proprietà cintate esistevano in tutti i paesi di diritto romano, da sempre. Le innovazioni riguardanti la produttività dei campi erano state sperimentate prima sul continente (in Olanda) ed è lecito pensare che si siano, prima o poi, diffuse ovunque.
Esistono però delle specificità della situazione inglese che occorre sottolineare.
In primo luogo la rapidità del fenomeno: in pochi decenni l’agricoltura inglese cambiò faccia, le enclosures si diffusero a macchia d’olio, le innovazioni dell’high-farming si propagarono con una rapidità inusitata grazie alla stampa di giornali o bollettini specializzati che mettevano l’informazione a disposizione di tutti i lettori: nel 1776 apparve il primo numero del “Farmers magazine”, affiancato nel 1806 dal “Farmers Journal”, primi sintomi di un fenomeno che si estenderà a tutti i settori: la circolazione delle idee, favorita dall’alto tasso di alfabetizzazione della popolazione, è uno dei connotati salienti di questo periodo in Inghilterra.
Il subitaneo affermarsi di un cambiamento così radicale ha tutti i connotati di una rivoluzione.
L’altro aspetto specifico della realtà inglese, rispetto al continente, fu la scomparsa della proprietà ecclesiastica: con lo scisma anglicano, si abolirono i monasteri e con essi tutta una serie di vincoli tipici del medioevo, legati a questa proprietà, dalla prestazione di servizi gratuiti, all’esenzione fiscale delle terre della Chiesa, alla manomorta; la nuova classe di possidenti terrieri che era nata anche dalla distribuzione di questi beni non poteva ovviamente reclamare gli stessi privilegi e fu quindi facile per il Parlamento legiferare in materia fiscale imponendo una tassazione uniforme su tutta la proprietà terriera: già verso la fine del ‘600, sotto i regni di Guglielmo III e della regina Anna, il Parlamento istituì la “Land Tax”, che, gravando su tutta la proprietà terriera, contribuiva per oltre un 40% agli introiti fiscali dello stato.
Se si riflette sul fatto che la Rivoluzione Francese originò proprio dall’iniquità della tassazione sulla proprietà fondiaria, si comprende appieno il contenuto rivoluzionario di questa fase dell’evoluzione dell’agricoltura in Inghilterra.
- Rivoluzione demografica
La prima conseguenza della rivoluziona agraria fu una profonda trasformazione demografica della società inglese, in particolare una rapida crescita della popolazione ed una differente distribuzione sul territorio. Prima del 1700 la popolazione del Regno non aveva mai superato i cinque milioni, cinque milioni e mezzo di abitanti, già raggiunti in epoca romana: carestie ed epidemie ricorrenti avevano fatto scendere, in determinati periodi, ben al disotto di questo livello il totale degli abitanti.
Dall’inizio del XVIII secolo tutto cambia; già nel 1750 una stima approssimata, ma basata su calcoli attendibili, faceva salire la popolazione inglese a sei milioni e mezzo di anime; un primo censimento condotto nel 1801 fa arrivare questa cifra, in modo incontestabile, a nove milioni di abitanti; nel 1831 la stessa rilevazione porta ad un totale di 14 milioni.
In poco più di cento anni la popolazione inglese, stazionaria da molti secoli, si era quasi triplicata. Tutti gli studi condotti sui dati anagrafici in nostro possesso concordano nell’affermare che questo incremento fu dovuto non tanto ad un aumento della natalità, né ad un’immigrazione da altri paesi: si verificò anzi un sostanziale moto migratorio verso l’estero, solo nel XVIII secolo più di un milione di persone abbandonarono l’Inghilterra prendendo la strada del Nord America o dell’Australia.
Ciò che causò un così marcato incremento demografico fu il crollo della mortalità.
Molte le cause di questo fenomeno, ma in primo luogo va considerato senz’altro il surplus alimentare generato dalla rivoluzione agricola; i raccolti più frequenti e più abbondanti, il diffondersi dell’allevamento di bovini da carne e da latte, consentivano una migliore alimentazione di vasti strati della popolazione: nel medioevo la gente poteva morire, in alcuni casi, letteralmente di fame, ma soprattutto un’economia di sussistenza condannava vasti strati della popolazione ad un costante stato di sottonutrizione, li rendeva più esposti ad ogni pandemia, più deboli di fronte a qualsiasi malanno. Anche le condizioni abitative migliorarono con l’elevarsi del reddito, case più accoglienti e riparate dal freddo proteggevano meglio la salute di chi vi abitava.
Un’altra causa certa furono i miglioramenti dell’igiene personale e collettiva, dovuti all’estensione dei sistemi fognari, ma anche al diffondersi di saponi a basso costo, grazie al progresso della chimica (scoperta del processo di fabbricazione della soda), nonché all’uso crescente del cotone negli indumenti: i panni di cotone sono più facili da lavare di quelli di lana e possono essere cambiati più di frequente; grazie ad una maggiore attenzione agli aspetti dell’igiene, si ridussero i rischi di contagio e scomparve quasi del tutto il colera, causa prima di tanti decessi.
Vogliamo aggiungerci la scoperta di un medico scozzese, Edward Jenner? Nel 1796 Jenner sperimenta e diffonde l’uso del vaccino contro il vaiolo, uno dei flagelli di quei tempi, riducendo così sensibilmente la mortalità, soprattutto infantile.
Insieme all’aumento della popolazione, cambia la sua distribuzione; abbiamo già parlato del crollo della popolazione rurale dovuto all’estendersi delle enclosures: i “cottagers”, abituati a vivere sui terreni comunitari rimangono senza mezzi di sussistenza, di più viene a loro mancare anche l’unico tipo di welfare esistente nel medioevo, quello provvisto dai monasteri che offrivano un pasto a chiunque si presentasse alla loro porta, a volte prestavano anche assistenza medica. Tutta questa fascia di popolazione è quindi costretta a migrare verso le città, affidandosi ai sussidi pubblici stanziati dai comuni: anche gli yeomen, i liberi coltivatori, rovinati dalla concorrenza delle enclosures, più vaste e più efficienti, trovano alla fine conveniente vendere il loro campicello, magari per avviare con il ricavato una piccola attività industriale in ambito urbano.
In questo modo, una ingente forza da lavoro mobile, disposta a tutto per sopravvivere, è pronta a fornire le braccia richieste dalla industria nascente.