Aggiornato al 27/04/2024

Non sono d’accordo con quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo

Voltaire

Bob Orsillo (Lewistone, Maine, USA - ) - World Factory

 

“La costruzione della Società di Massa” - CAPITOLO II

 

Gli Osservatori

(seguito)

 

di Camilla Accornero

 

Passava il tempo e il memoriale continuava a guardarmi dalla vecchia scrivania del mio studio accanto alla pila infinita di compiti in classe che avrei dovuto correggere. Il mio Io cinquantenne, scemata l’euforia iniziale per la nuova scoperta, rimase profondamente scoraggiato nel constatare che le proprie competenze erano sin troppo lacunose per poter decifrare il testo. Dopo settimane intere trascorse a lambiccarsi su come uscire da quella capricciosa situazione, si convinse che fosse necessario rimettersi a studiare. Non c’era altro rimedio.

A malincuore devo attribuire il merito alla mia boriosità per essere riuscito a scongelare il momento di stallo in cui lentamente mi stavo cristallizzando. Non meno utili furono il cipiglio da maestrino che mi perseguitava sin da quando ero diventato professore e la mia naturale tendenza a voler avere sempre l’ultima parola. Dovevo conoscere i segreti dell’Osservatore: avrei letto le sue memorie, le avrei decifrate e infine avrei verificato la loro attendibilità. In che modo, ancora non lo sapevo. Ma ci sarebbe stato il tempo per venirne a capo.

Così, mentre incominciavo a vestire anche i panni dello studente oltre a quelli del professore, mi gettai a capofitto nello studio. Sfogliai interi volumi di grammatica, storia e letteratura rubati dal settore proibito della biblioteca dell’università, dove venivano custoditi alcuni dei testi che la Lobby aveva ritenuto utile inserire nell’indice. Ebbi, al tempo, la sensazione che molti libri non fossero andati distrutti nel grande incendio astutamente provocato dalla Lobby, -anche se formalmente era stato dichiarato un incidente-, che aveva bruciato pressoché tutto ciò che rimaneva della cultura dei nostri avi. Molti avevano ribattezzato quell’episodio il “rogo della cultura antica”. Ero convinto che la Lobby ne avesse conservati alcuni per poter attingere dalla storia passata, apprendere le strategie di manipolazione, anche laddove avevano fallito, scoprirne i punti deboli e apportare le correzioni al fine di ottenere il meccanismo perfetto. Checché lo ripetesse spesso, la Lobby non credeva in toto in ciò che propagandava: l’affossamento della cultura e dei valori antichi erano solo espedienti favorevoli al controllo sociale.

Nei mesi successivi al ritrovamento del memoriale, caddi in una nuova routine: trascorrevo le ore diurne in facoltà, a tenere con sempre meno entusiasmo le lezioni di storia, -se poi storia fosse corretto chiamarla dal momento che la Lobby l’aveva ampiamente modificata, stando alle mie nuove fonti-, le ore serali a mantenere le apparenze sociali e rispettare le regole vigenti nella Società di Massa, come partecipare attivamente alle iniziative finalizzate a quello che avrei scoperto essere, solo in un secondo momento, un fine meccanismo di manipolazione e indottrinamento, e la notte a capo chino sui libri di grammatica. Eppure non ho memoria di un altro periodo tanto eccitante. Non avrei mai creduto di poter studiare con tanta passione ed entusiasmo, persino a scapito delle ore di sonno di cui prima di allora non mi sarei mai privato. Incominciai persino a sentirmi di nuovo un po’ bambino, ritrovai la spensieratezza di un tempo, di un passato che mi era sempre parso tanto distante dal presente che sarebbe persino potuto appartenere ad un’altra vita. E tanto ero immerso in quella nuova e frenetica spirale che, malauguratamente, finii per commettere un errore: venni meno ad una delle mie mansioni come docente. Una tale mancanza di professionalità non era contemplata dalla Lobby, soprattutto se da parte di uno stimato professionista quale ero considerato. La mia assidua dedizione al lavoro era sempre stata motivo di orgoglio per me e ragione di meritati riconoscimenti. Eppure, nemmeno la mia immacolata carriera poté salvarmi dall’essere convocato dal Rettore dell’università in persona.

Il fatidico giorno del colloquio mi presentai all’appuntamento con più di un’ora di anticipo. Nell’attesa avevo ingollato il quarto caffè delle mattinata, che non era servito a darmi un’aria più sveglia a causa della nottata trascorsa insonne, solo ad aumentare il mio crescente stato d’ansia. Malgrado i timori, quando finalmente la segretaria mi diede il permesso di entrare nell’ufficio del Rettore, venni accolto con inaspettata giovialità. Non pareva essere arrabbiato.

A stento ricordo la conversazione, ma sicuramente dovevamo aver parlato per lo più di frivolezze. Certo non era mancato l’ammonimento per la mia inadempienza, ma con qualche sorriso e un’oculata scelta delle parole ero riuscito ad intortarlo a dovere. Dopotutto, nemmeno la mia versione più giovane aveva mai nutrito grande stima per quell’uomo. Tutt’altro, con il trascorre del tempo e l’approfondimento della lettura del memoriale, mi convinsi sempre più che quell’inetto individuo non rivestisse un ruolo tanto prestigioso per merito, quanto piuttosto per aver sempre mostrato cieca obbedienza alla Lobby. Ci congedammo con l’intento di organizzare una cena conviviale insieme agli altri docenti e con la promessa, da parte mia, che non sarebbe più successo un analogo inconveniente. Non avrei più mancato di consegnare ai miei studenti la correzione dei test senza rispettare le scadenze.

Nelle settimane successive decisisi di mantenere il più possibile un profilo basso, motivo per cui dovetti accantonare momentaneamente gli studi. Sapevo, infatti, malgrado il tenore informale del colloquio con il Rettore, che sarei stato tenuto sotto stretta sorveglianza nei giorni a venire; almeno sino a quando si fossero accertati che non avevo nulla da nascondere. I dissidenti e i sovversivi non piacevano all’élite, anche se formalmente ognuno era libero di credere in ciò che voleva. Ma la realtà effettiva molto spesso è dissimile da quella che viene proposta dalla politica.

Rientrato quindi nelle solite vesti di attempato professore universitario, tornai poco a poco a cadere vittima della vecchia vita: mi alzavo al suono della sveglia, mi vestivo, consumavo una fugace colazione e mi dirigevo al lavoro a bordo della mia utilitaria, scambiavo qualche chiacchiera di circostanza con i colleghi bevendo uno dei primi caffè della giornata, entravo in aula e senza troppi giri di parole iniziavo la lezione. Di rado i miei interminabili monologhi venivano interrotti da qualche domanda e, quando accadeva, a stento riuscivo a contenere l’entusiasmo, dopotutto stava a significare che c’era almeno una persona apparentemente interessata alla spiegazione. Malgrado stessi iniziando a maturare l’idea che dalla mia bocca non uscisse oro colato, quanto piuttosto la visione distorta della storia voluta dalla Lobby, suscitare interesse in una giovane mente era sempre da ritenersi un risultato auspicabile. Sicuramente avrei preferito poter insegnare una storia altra, ma le telecamere che osservavano alacremente ogni mia lezione non me lo permettevano. Dovevo attenermi alle regole. E d’altra parte, se avessi fornito ai miei studenti informazioni dissimili da quelle che contenevano i loro libri di testo, avrei reso loro arduo poter sostenere adeguatamente i test, somministrati direttamente dal ministero dell’istruzione, posto sotto il controllo totale dei plutocrati, che nulla lasciavano al caso. La mansione meno edificante di quell’ultimo periodo era diventata, invero, proprio la correzione di quei compiti. All’inizio della mia carriera la svolgevo con minuziosa attenzione, senza tralasciare i dettagli, perché ritenevo che fosse doveroso da parte mia trasmettere agli studenti, nella maniera più produttiva possibile, tutte le conoscenze. Ma a seguito del ritrovamento del taccuino, ben presto dovetti fare i conti con una realtà ben diversa da quella in cui stavo vivendo. Una realtà che non sarei mai stato capace di immaginare nemmeno nei miei più folli voli pindarici. Sapevo, in cuor mio, che quei compiti sarebbero stati infarciti delle sterili informazioni propagandate dalla Lobby, atte a “programmare” tutti quei giovani in procinto di fare il loro ingresso nel mondo degli adulti e diventare perfetti individui-massa. Naturalmente non potevo fare alcun appunto in merito allo stile di scrittura, pregna di una grammatica scarna benché corretta, un’eccessiva tendenza alla sintesi e un impiego sovrabbondante di abbreviazioni. Senza dubbio alcuno la maggior parte di quei test di verifica sarebbero stati formalmente corretti per l’élite, senonché, da un punto di vista differente e non reso miope da una tartassante manipolazione, si sarebbe potuto evincere che non fossero altro che un lista di nozioni prive di rielaborazione. Erano la prova incontrovertibile del fatto che il campo educativo mirasse ad un analfabetismo funzionale, ed io mi ritrovavo ad essere complice di quel nuovo programma. Dovevo assicurarmi che i miei studenti fossero abili lettori, acquisissero una discreta capacità espositiva tanto nel parlato quanto nello scritto, e avessero le basi per cavarsi d’impiccio dalle situazioni quotidiane che richiedevano semplici capacità di calcolo, viceversa, dovevo accertarmi che il cosiddetto illetteratismo voluto dall’élite venisse conservato e preservato: il diktat sperava che la riforma educativa così concepita si concretizzasse nell’effettiva incapacità degli individui di comprendere, valutare e utilizzare consapevolmente le informazioni a disposizione. Sottostare a queste condizioni sarebbe servito a ridurre, se non ad azzerare, le competenze per creare interconnessioni e legami logici tra le nozioni, o disporne in maniera produttiva per intervenire attivamente nella società e sviluppare le proprie potenzialità.

 

Nelle successive settimane il docente di mezz’età ossequioso delle regole e rispettoso della Lobby dovette imparare l’arte della dissimulazione. Nei primi tempi non fu cosa facile entrare in aula per tenere la consueta lezione e fingere di non sapere di essere dinnanzi ad una classe piena di studenti del tutto incapaci di comprendere ed interpretare la realtà che li circondava o le informazioni delle quali potevano fruire. La sensazione di appagamento derivante dalla capacità di saper leggere, scrivere e fare i calcoli era per loro sufficientemente edificante, tant’è vero che, con tutta probabilità, non erano nemmeno consapevoli di essere incapaci di leggere un articolo di giornale comprendendone appieno il significato!

L’analfabeta funzionale era il soggetto perfetto per abitare la Società di Massa, poiché incline a credere a qualsiasi cosa, per quanto apparentemente scolarizzato ed educato. Seguire un’intuizione o una libera iniziativa per sviluppare le proprie idee non era richiesto. Non era nemmeno una possibilità contemplata dalla Lobby.

Devo ammettere che la mia versione più giovane rimase a lungo profondamente turbata dal ritrovamento del vecchio memoriale per poter prendere piena coscienza del fatto che la società stava creando, come in una perfetta catena di montaggio, legioni di imbecilli, le cui opinioni, basate per lo più sul nulla o su notizie che erano in grado di “capire” solo perché capaci di far leva sul lato emozionale, potevano propagarsi a macchia d’olio invadendo in maniera capillare qualunque tipo di social media o pagina web. Cosicché, condividendo post e pubblicando articoli sui social, potevano creare polveroni mediatici contenutisticamente ingenui, seppur in larga misura sfruttabili per far proliferare fake news; uno dei prodotti di punta per tenere occupate e attive centinaia e centinaia di menti non pensanti.

Quando misi piede nell’aula l’ultimo giorno del semestre potevo ragionevolmente considerarmi al di sopra di ogni sospetto. Erano diverse settimane che avevo smesso di imbattermi “casualmente” nel Rettore lungo i corridoi della facoltà e durante il nostro incontro informale non aveva accennato una sola volta durante la conversazione alle questioni di lavoro, né aveva sollevato l’argomento per rallegrare l’atmosfera con una battuta di spirito. Pertanto, nel momento in cui passai tra i banchi per consegnare i test di fine corso, fui sicuro che il sorriso di circostanza che mi ero stampato sul volto fosse credibile, sebbene non provassi altro che biasimo e desolazione.

Sconsolato da quella annichilente consapevolezza, che a lungo e ingenuamente non avevo voluto accettare, decisi che una volta uscito da quell’aula avrei ufficialmente terminato il periodo di astensione dai miei studi “sovversivi”. Rimisi mano al vecchio memoriale e continuai la lettura, sempre tenendo aperto di fianco a me sulla scrivania un manuale di grammatica. Riportavo con minuziosa calligrafia le informazioni che ritenevo più meritevoli di essere approfondite sul mio diario personale; abitudine ereditata dalla mia sventurata madre, una povera donna che non era mai riuscita ad inserirsi nella società a causa della sua attitudine a voler sempre avere l’ultima parola su tutto. Un’inclinazione caratteriale che l’aveva portata, infine, ad essere tacciata come cospiratrice. Non seppi mai la verità a riguardo, ma non ebbi nemmeno modo di interrogarmi, né tantomeno mi fu possibile chiedere spiegazione a mio padre, l’uomo più ingenuo che abbia mai conosciuto. Così ciecamente devoto all’élite e succube del sistema, di cui rappresentava il prototipo dell’ingranaggio perfetto, da denunciare la propria moglie e rendere il proprio figlio orfano di madre. E malgrado ciò, debbo a lui e alla sua prova di fedeltà dimostrata nei confronti della Lobby la mia assunzione all’università. Determinati atti di obbedienza venivano sempre ricompensati.

Abbandonate le vesti di spocchioso docente universitario, la cui arroganza si era sempre nutrita di falsità, incominciai spasmodicamente a leggere, leggere e rileggere le parole dell’Osservatore. E più leggevo, più domande si affollavano nella mia mente. Parte del mio giovane Io desiderava si trattasse solo di una marea di menzogne. Così, parallelamente ai miei studi, iniziai a fare ricerche che attestassero la presunta veridicità delle informazioni contenute all’interno del taccuino. Asserirne l’assoluta affidabilità non poteva essere una decisione da prendere alla leggera.

 

***

 

Ricordo ancora le risate di quel primo periodo in cui mi avvicinai alla lettura del lascito dell’Osservatore. Il docente che era in me, reduce degli studi condotti per affermarsi come tale, non poteva che trovare bizzarre le affermazioni che con troppa solennità il proprietario del taccuino aveva scritto in bella calligrafia. Ero scettico riguardo a molte cose, dovevo esserlo, altrimenti avrei dovuto ammettere di essere stato un colossale sprovveduto, di un’ingenuità senza pari. Eppure, poco a poco, persino l’aura di spocchia che mi aveva sempre circondato sfumò insieme alle mie illusioni. Sfruttando le mie doti mnemoniche, capacità molto rare da trovare in una persona in quel periodo, potevo senza difficoltà richiamare alla mente eventi passati che avevo vissuto in prima persona e analizzarli da un punto di vista diverso, quello degli Osservatori.

Lo scribacchino dall’indole frenetica che aveva appuntato con scrupolosa minuzia di dettagli tutto ciò che aveva scoperto riguardo ai meccanismi della Società dell’immagine, aveva tentato di ricostruire le fondamenta di quell’astuto progetto.

Tutto ebbe inizio in sordina, con un ronzio appena udibile che si insinua sibillino e striscia tra le vie della città dell’immagine. Dapprincipio la Lobby aveva fatto sì che una nuova teoria, rivoluzionaria e sovversiva rispetto alla morale dominante, venisse introdotta in maniera passiva per instillare il germe del dubbio, usando come veicolo per la sua diffusione capillare la voce di una minoranza, la cui cieca obbedienza era garantita dalla fiducia che avevano dimostrato loro i plutocrati scegliendoli quali portavoce della nuova etica, nonché esaltandoli quali lungimiranti ideatori della stessa.

L’astuta strategia messa in atto dalla Lobby consistette primariamente nel fingersi sostenitrice delle idee della minoranza, garantendole, poco a poco, la conquista di ampi spazi mediatici, così da condizionare in modo lento ma costante, -subdolo aggiungerei-, la mentalità comune. Un utilizzo più che mai strumentale dei mezzi di comunicazione: un bombardamento mediatico volto a normalizzare una teoria sovversiva.

Rimasi totalmente esterrefatto dinnanzi a tali asserzioni, compromettenti tanto per l’accusato quanto per l’accusatore, ritrovandosi, quest’ultimo, sotto il giogo dispotico del primo. La mia pur scettica versione cinquantenne non aveva fatto nessuna fatica ad immaginare le molteplici motivazioni che avrebbero potuto spingere le persone a non credere a una sfilza di informazioni in controtendenza con la realtà socialmente accettata. Io stesso, a distanza di anni, ancora faccio fatica. Tuttavia, malgrado la reticenza nell’accettare come oro colato tutte le parole dell’Osservatore, la curiosità mi spinse a proseguire la lettura. Lo scrittore descriveva il processo come il frutto di una genesi durata decenni, divenuta evidente solamente nel momento in cui le idee promulgate dalla massa avevano minato concretamente le basi su cui era stata edificata l’intera società. Fu così che si venne a creare il fronte unito degli “oppositori”, una massiccia compagine di individui che percepiva il senso di instabilità dilagante e lottava per conservare le tradizioni. Per quanto lodevoli potessero essere le loro intenzioni, l’aggressività con la quale si opposero venne sapientemente sfruttata dai plutocrati, che grazie ad una lungimiranza rara parevano aver già messo in conto l’arrivo di una veemente voce di protesta. Il risultato a cui auspicavano era lo scontro tra due schieramenti, inquadrati all’interno di una visione manichea.

Nella confusione dilagante, gli Osservatori rimanevano dietro le quinte nel tentativo di scoprire le strategie messe in atto dal sistema e trovare un escamotage per renderle visibili ai più. Infatti, seppur consapevoli della loro posizione “privilegiata” rispetto agli individui-massa, -in quanto capaci di osservare il sistema da un punto di vista esterno ad esso-, erano altresì consapevoli di non avere la forza necessaria per contrastare la Lobby, poiché questa godeva dell’indiscussa approvazione della Massa.

Mi stupii di quanto fossi stato in grado di empatizzare con quegli spettatori passivi della loro stessa esistenza e della frustrazione che sicuramente dovevano aver provato dinnanzi all’insorgere di una potente industria culturale capace di sovvertire i costumi tradizionali in nome della fede riposta nella nuova massima del “politically correct”. Idolatrato e deificato quale cardine della nuova morale si presentava come paladino della minoranza, che tale, tra l’altro, più non era da tempo.

Leggendo quelle pagine venni tormentato da un terribile cruccio, lo stesso che poco dopo scoprii aver turbato anche l’anonimo autore del memoriale: com’era stata possibile una “lobotomizzazione” di massa? Infatti, se da un lato era comprensibile la devozione della minoranza alla Lobby, dall’altra era assurdo che anche la controparte si affidasse ciecamente ad essa. Ma alla fine, tutti i tasselli cominciarono a combaciare: l’astuzia dei plutocrati era stata far passare la nuova ideologia quale prodotto della minoranza, -quella poi tutelata in quanto tale in nome dell’uguaglianza e delle pari opportunità-, e aver successivamente fatto in modo che l’opposizione, dapprima maggioritaria, diventasse la nuova minoranza, bisognosa, pertanto, di quello stesso aiuto che la Lobby aveva sapientemente mostrato di poter offrire. Il tutto era stato facilitato da un astuto stratagemma: far leva sulle ataviche paure insite nell’uomo, quali solitudine, insensatezza, indecisione, vuoto, assenza di scopo. In una prospettiva in cui il futuro veniva percepito come un limbo incapace di aiutare l’uomo a realizzarsi appieno come individuo, ma, al contrario, dandogli la parvenza di essere un non-luogo, ove trovano rifugio le più grandi paure, la Lobby offriva la sola via di fuga: la possibilità di sentirsi parte di un gruppo garantendo l’illusione di fare qualcosa di significativo.

In sintesi, diede alla Massa uno scopo attraverso un verbo, -canti, slogan, frasi propagandistiche facilmente reiterabili-, una guida, -atta, invero, a cancellare l’onere di dover scegliere-, e, infine, un simbolo in cui riconoscersi.

(Continua)

 

Inserito il:22/08/2019 06:35:18
Ultimo aggiornamento:27/08/2019 19:13:35
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