Aggiornato al 27/04/2024

Non sono d’accordo con quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo

Voltaire

Camillo Olivetti, Benito Mussolini, Palmiro Togliatti, Antonio Gramsci, Giovanni Giolitti, Pietro Nenni, Adriano Olivetti, Luciano Lama, Gianni Agnelli, Sandro Pertini, Giovanni Agnelli

 

Cari amici che avete la pazienza di leggere i miei pezzi su “Nel Futuro”, anni fa ho scritto “Il nostro novecento” che ha preceduto “La fabbrica di mattoni rossi” pubblicata tre anni or sono. Di questa prima fatica letteraria, a differenza della seconda non ho mai cercato la pubblicazione, un po’ perché si parla anche di me, un po’ perché non ero convinto delle mie qualità letterarie. Rileggendola in questi giorni ho scoperto che il mio stile di scrittura si è un po’ affinato e quindi, capitolo per capitolo, li sottopongo alla mia revisione. Mi è venuta un’idea. Perché non sottoporre lo scritto a puntate per chi dei miei amici avesse la pazienza di leggermi e quindi farmi un’idea del possibile gradimento. Sono gradite soprattutto le critiche e se mai l’interesse di chi vorrà andare avanti nella lettura segnalandosi come aficionado.

 

Il nostro novecento

di Tito Giraudo

 

Un padre e un figlio nel periodo saliente della loro vita. “Il nostro novecento” è una biografia incrociata sulle vicende personali e politiche di Pietro, il padre e Tito, il figlio che è anche l’autore. Il primo socialismo fino alla marcia su Roma è il percorso di Pietro, il decennio dei mitici anni sessanta quello di Tito.

L’autore ha romanzato la biografia del padre nella cui vita reale sono entrati personaggi che l’hanno fortemente influenzata: Mario Gioda il giornalista tipografo, prima anarchico poi interventista ed infine fondatore del Fascio torinese. Mussolini conosciuto nel periodo in cui era socialista massimalista, Gramsci, Togliatti e su tutti: Camillo Olivetti che gli cambierà la vita e per lui sarà sempre il padre mai conosciuto.

Di sé, riporta con fedeltà e crudezza avvenimenti, personaggi, soprattutto comportamenti umani durante l’arco di un decennio che lo vede: operaio, sindacalista e dirigente di partito a Torino. Un libro che l’autore ha scritto per i figli cercando di spiegare perché al crepuscolo dell’esistenza potendo trarre un bilancio delle esperienze del novecento si possano prendere posizioni politiche apparentemente moderate, comunque anticonformiste rispetto al mondo della sinistra cui ha appartenuto.

 

Introibo

È vero che invecchiando si scordano i fatti recenti e alla memoria riaffiora il passato. Già, il mio passato.

Il tempo crea strani legami. Quasi la nostra vita fosse il proseguimento di altre, quelle di chi, mettendoci al mondo, ha dato il via a una sorta di reincarnazione logica e incontrovertibile.

Nel caso specifico, mio padre e mia madre che hanno avuto in me un figlio distante e deludente. Forse queste pagine sono un inconscio esame di riparazione.

I miei primi ricordi sono legati alla guerra. Sono nato nel 1941 in pieno conflitto mondiale; allora abitavamo in affitto in una villetta condominiale al 54 di via Giacomo Medici.

Le prime immagini impresse nella mia mente di bambino riguardano i bombardamenti: io e la mia famiglia in quel rifugio nella cantina di casa a filo strada, quindi del tutto inutile. Papà non aveva la minima fiducia nel potenziale bellico alleato, era convinto che bastasse quell’infernot sotto la palazzina e che il nemico nulla avrebbe potuto contro la potenza del Duce. Quando però gli Alleati mostrarono di fare sul serio, corremmo nei rifugi pubblici, gallerie scavate sotto corso Lecce e Piazza Risorgimento.

Gli aerei arrivavano sempre di notte. Vestiti alla bell’e meglio, io piccolissimo avvolto in una coperta, attendevamo la sirena che avvisasse lo scampato pericolo. Quei pellegrinaggi notturni furono la causa probabile di una broncopolmonite che, accompagnata dalla carenza di cibo, mi fece crescere gracile.

Ricordo ancora quando attraversammo a piedi Piazza Statuto il 25 aprile del 1945. Mia madre, normalmente svagata, aveva capito perfettamente che eravamo la famiglia di un gerarca fascista e quindi, in assenza di mio padre, peraltro giustificata, come spiegherò più avanti, prese me e mia sorella e ci portò a piedi dalle zie, presenze importanti negli anni della giovinezza.

In quella piazza sparavano: erano i partigiani che facevano giustizia e, talora, vendetta sommaria; forse alcuni meritavano il trattamento loro riservato, altri sicuramente morivano senza colpa: come avrei imparato anni dopo, le masse sono imprevedibili! Seguono logiche schizofreniche, talvolta danno il meglio, ma spesso il peggio, i repressi trovano così modo di esprimersi, l’avrei capito più tardi da sindacalista.

Quel giorno, però, il bambino che ero registrava solo spari, urla e la paura di mia madre e di mia sorella Edda. Edda era stata battezzata così in onore della figlia del Duce, mio padre aveva un’adorazione per il Dittatore. Conosciuto da socialista, l’aveva seguito in tutte le sue scelte, fino al fascismo. Sempre critico nei confronti dei fascisti era per contro totalmente acritico e adorante nei riguardi di Mussolini.

Il mio primo ricordo del “gerarca”, è a guerra finita quando papà tornò da Pino Torinese, un paese della collina che delimita Torino ad Est.

Pino era anche il nome che la mamma aveva dato alle Nuove, le carceri torinesi, quando andava a trovare Papà per non dire a noi bambini che era in carcere. Mio padre, tornato dalla “mattanza canavesana”, fu incarcerato insieme ai fascisti che l’avevano messo in galera negli anni del consenso, in qualità di “sovversivo pericoloso per lo Stato”. Il suo ingresso nel camerone penitenziario sollevò l’ilarità di molti ex gerarchi, che ricordavano come quel rompiballe di “fascista della prima ora” veniva regolarmente arrestato e rinchiuso ad ogni visita torinese del Duce.

Papà tornò da “Pino magro e macilento, magro per la dieta a pane e sòma d’aj (oggi si chiama bruschetta); macilento per le disavventure canavesane; per tre giorni fu legato a un albero, picchiato e pugnalato dai partigiani della Brigata del comandante Piero.

La causa di tutto questo fu la Rosi, una donna di Campo, paese d’origine di un ramo della famiglia di mia madre. I fascisti le avevano fucilato il marito; il poveretto, come quasi tutti i contadini della zona, faceva la borsa nera, fermato dai fascisti e dai tedeschi era stato giustiziato. Tuttavia papà non c’entrava nulla, se non per gli strali patriottici che lanciava abitualmente contro i “borsarenisti”.

Per permettervi di comprendere vi spiego l’antefatto: la mamma, più pratica e realistica come tutte le donne, convinse papà della necessità di sfollare e in quale posto, se non quello dove c’erano i suoi cugini, ma dove soprattutto gli alleati non avrebbero mai sognato di sganciare bombe. Campo era allora un piccolissimo comune montano a cinquecento metri di altezza, oggi è una frazione di Castellamonte.

Tornando alle disavventure paterne, accadde probabilmente che mio padre, venuto a trovarci da Torino, lanciasse qualche urlo di troppo verso l’antipatriottismo contadino. Ciò fu sufficiente perché la gentildonna in questione, la Rosi, vendicasse la morte del marito, coinvolgendo qualcuno di sua conoscenza che sapeva di fede fascista.

Venne organizzata una spedizione a Torino, papà fu catturato e portato in valle Sacra dove era stanziata una brigata partigiana appartenente alle formazioni socialiste “Matteotti”: probabilmente quei tre giorni furono i più lunghi della sua avventurosa vita.

Non è chiaro come abbia portato a casa la pelle.

Dal momento che non aveva nulla da confessare, non confessò. Pare che per farlo parlare un finto prete avesse inscenato una confessione prima dell’ipotetica fucilazione. Convinti infine di avere tra le mani solo un fascista chiacchierone, lo rimandarono a Torino.

Visti i tempi, il fatto fu sicuramente bizzarro. Sono propenso a credere che si sia salvato, o grazie all’intervento di qualche paesano, che sapeva bene come erano andate le cose, oppure, qualche compagno del CLN piemontese, protetto a suo tempo da papà, ci mise una buona parola per sdebitarsi, in quei periodi si giustiziava per accuse ben meno gravi di quelle che gli vennero rivolte.

Papà arrivò a Torino proprio quel 25 aprile, anche lui dalle zie.

La nostra casa non era certamente abitabile, depredata da sedicenti partigiani, o meglio, dai vicini di casa convertiti all’antifascismo dell’ultima ora.

Non so se a quattro anni fossi particolarmente contento di rivedere quel signore, ai miei occhi già anziano; quando sono nato aveva 51 anni, una folta testa di capelli bianchissimi, spessi occhiali e una voce tonante.

Anche per causa sua fummo costretti a una fuga precipitosa, trovandoci senza quattrini ed epurati; ma si sa, i bambini non drammatizzano nulla e quindi per me quello è un ricordo neutro, un flash della memoria, il primo dove l’immagine di mio padre è chiara e definita.

(continua)

 

Inserito il:08/01/2020 18:44:16
Ultimo aggiornamento:12/01/2020 21:33:58
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