Anton Dymtchenko (Rostov-on-Don, Russia, 1993 - Canada) - The Allegory of the Cave
Eppure Platone ce l’ha detto: il film è sempre lo stesso.
Da oltre due millenni. E mezzo.
di Alessandra Tucci
Schermi come questi nostri non ce n’erano. Non a cristalli liquidi, non virtuali, non ad altri miracolosi marchingegni di questa nostra epoca che si dice la più evoluta.
In realtà, all’epoca loro ma a ben vedere anche in questa nostra così sapientemente robotizzata, non credevano neanche ai miracoli a quanto pare, pensavano tutti solo a sopravvivere.
Per quanto venerassero una quantità spropositata di angeli e demoni, le divinità dei tempi passati. Per imbonirseli perché correva voce che quelle fossero capricciose, viziose, viziate. Estremamente.
E perché in fondo non si sa mai dove sia la salvezza, nel dubbio meglio dare un colpo pure al cerchio del divino oltre ad acclamare narcotizzanti botte dal potere (trans)umano. Il sempre celebrato masochistico cerchiobottismo. Ma andiamo con ordine. E piano.
Senza il miracolo della tecnologia odierna, dunque. E senza credere loro stessi nel miracolo divino, figurarsi se credevano in quello della vita piena. Libera e viva.
Credevano però a qualsiasi narrativa venisse loro proiettata sul nudo esistere, una credulità tanto cavernosa da mettere pensiero alla sibilla in persona, quella cumana, che ad ogni risposta che forniva si faceva lei una domanda dentro la sua grotta, sempre la stessa: ma possibile sia tanto cieca la fede che questa massa di persone ripone in qualunque fanfaluca io le spacci per verità assoluta?
Sì. Veramente. Una cavernicola ignoranza del gioco della vita. Ma andiamo oltre.
Disciplinati lo erano, c’è da dargliene atto e tutto il merito a chi fin dalla culla si premuniva di indottrinarli ad accettare lacci e laccioli vari come strumenti di protezione del bene unico supremo. Quello collettivo e sempre corretto. E collettivamente se ne stavano tutti appollaiati dentro la caverna, fermi nel corpo e con il capo, sguardo fisso in avanti. Un po’ come i cavalli quando gli mettiamo i paraocchi e li imbrigliamo. Per il bene loro chiaramente, non perché ci torni utile che essi non vedano né si muovano più di quanto noi gli consentiamo. E amen.
Non che le catene leziosamente serrate attorno al collo e alle caviglie lasciassero agli uomini in caverna una qualche alternativa di movimento o visuale, questo c’è da dirlo, neanche una sgranchitina di gambe e prospettiva era loro consentita. Ma, a onor del vero, guinzaglio e cappi vari erano da (quasi) tutti i detenuti ritenuti un sacrificio personale in fondo sopportabile per avere credito sociale. E comunque neanche si accorgevano di averli indosso, ormai c’avevano fatto il callo. E in fondo si sentivano al sicuro.
E sicuramente gradivano lo stare tutti al riparo dalle varie intemperie del decidere che fare del proprio esistere e dalla faticaccia dell’attivare un qualche neurone e magari risponderne, personalmente. Cui prodest? Ma se lo chiedevano in greco quegli antichi e non in latino, chiaramente. A chi giova(va) essere dissidente dal pensiero unico corale se dentro quel granitico recinto avevano a disposizione panem et circenses?
E sì, la scodellina gli veniva quotidianamente riempita se restavano buoni e senza dare noia. E avevano la vita già sbrogliata e proiettata dalla cabina di regia sull’unica parete che potevano guardare, quella di fronte. E fronte tutti dunque, disciplinati e beneducati, allo spettacolo di ombre che sfilavano in visione generale. E senza interruzione.
Non un qualche schermo multimediale, l’abbiamo detto, erano tempi antichi, niente proiettori pellicole effetti speciali, l’elettricità neanche a pensarci, per avere quella dovevano passarne di secoli, oltre due millenni. All’epoca avevano il fuoco, solo questo, per riscaldare arrostire e far luce nella notte. E cosa ti inventano dalla regia i produttori massmediali? Pensa che ti ripensa pensa che ti ripensa, si sono detti “mah, del fuoco non si butta niente”, un po’ come col maiale. E l’hanno riciclato a mo’ di proiettore.
Precisamente, e questo è l’artifizio che da sempre il deus ex machina mondano ci vende come somma arte. E cum summo gaudio. Suo chiaramente.
Un bel fuoco fiammante, statuette, burattini. Questi gli strumenti dei teatranti. Così usati.
Il fuoco costantemente acceso dietro quella massa informe di prigionieri addomesticati, tecnicamente: alle loro spalle. Statue statuine e statuette raffiguranti ogni genere di cosa e di soggetto portate in sfilata davanti al fuoco dai burattini di quel filantropico potere. Per il bene generale. Appunto, circense.
Geniale era geniale, negare l’evidenza non è mai bene: la luce delle fiamme puntata sulle belle statuine che venivano portate dai paggetti di regia a spalla, come nelle feste di paese il santo e la madonna, dava origine e lunga forma alle rispettive ombre che, guarda un po’ il caso, finivano sulla parete di visione generale. Un miracolo che manco Silvan e la maga Circe confabulando insieme avrebbero saputo eguagliare: il far credere a tutta quella bella gente giulivamente incatenata a quell’unica visione che quella, appunto, fosse l’unica realtà reale. E che al di fuori non ci fosse niente.
Solo che non tutte le ciambelle riescono col buco, neanche alla corte dei miracoli. Pur se i nani, i saltimbanchi e le ballerine del reame fossero tutti master chef. Dei più seguiti.
E forse per una mosca che ha saltato il banco generale, quello di prova, e gli è saltata fastidiosa al naso, uno dei tapini, un prigioniero, si è liberato. Più per grattarsi via la seccatura del prurito forse che perché eretico e temerario, non c’è modo di sapere cos’abbia spezzato il sortilegio, resta un mistero. Ultramillenario.
Fatto sta che, tra gli ultrà di quel sistema conformato e acclamato, il tizio si è all’improvviso bello bello liberato da tutte le catene e, già che c’era, s’è pure alzato. Una fatica quel sollevarsi dalla nuda terra che manco Ercole o Atlante, era completamente anchilosato.
Comunque. A forza di Oplà Oh issa e Ulalà quello lì coi tempi suoi irrigiditi si è pure girato, guardandosi (al)le spalle. Ed è rimasto folgorato. Anzi che dell’inganno si è immediatamente reso conto.
Sbattendo gli occhi a riprese sempre più veloci, le ha contate tutte le statuine e i portatori, una ad uno, ed ha capito che quella lì alle spalle era la realtà ed era gestita da un sistema perfettamente oliato. E tutte quelle ombre proiettate sulla parete generale? Una mera illusione.
Si sa che l’appetito vien mangiando e, mangiata quella colossale foglia di fico stesa a coprire gli attributi del potere, il dominante, il galeotto si è guardato tutto attorno alla ricerca di altro ancora da scoprire e divorare. Era affamato di sapere tutto a questo punto. E voleva confrontarsi con qualcuno, che non fosse il solo. C’è dunque da immaginarlo lo sconforto che gli ha invaso cuore e viso alla vista del tappeto umano completamente inebetito ai suoi piedi. L’ha dunque attraversato ben attento a non pestare calli incatenati, almeno questo, e si è avviato al cunicolo che portava all’aperto. Ed è uscito. A riveder le stelle come Dante alla fine dell’inferno, entrambi ormai fuori dal tunnel. E con una montagna intera al cospetto. Da scalare.
Solo che il nostro evasore non aveva fatto i propri conti con la clessidra in mano, quella del tempo che scivola via di astro in astro, e senza averlo dunque previsto si è ritrovato al cospetto di quello dominante, restandone abbagliato. Oltretutto senza avere per le mani neanche un paio di occhiali a schermare il sole. Quello reale.
Accecato, quindi, questo sul momento. La sua vista, già indebolita dall’ombrosità perenne della caverna oscura, lo sfolgorio del sole glie l’ha fatta secca al nostro prode evaso. E lui ha abbassato il capo, cosa che oltretutto gli veniva in automatico, cercando il riflesso delle cose, quelle vere, nel cristallo di pozzanghere o di un qualche lago. E attendendo il sorgere delle più miti stelle che, puntuali, sono arrivate a notte inoltrata a mostrargli la seconda verità, la più liberatoria pur se dura.
Che non soltanto le ombre proiettate, ma le stesse statuette in proiezione sulla parete di quella specie di cratere non erano l’autentico esistente, ma banali copie, pure malriuscite, di ciò che nel reale, lì di fuori, aveva ben altra sembianza. E una lucentezza inaspettata.
Una rivelazione, la vera apocalisse per ogni essere umano, sollevare il velo dell’inganno e scoprire l’autenticità della vita e del reale. Regale quanto sa esserlo il sole infrangendosi sul mondo vero così da illuminarne la bellezza dal pluriforme volto. La vera perfezione. Sì, perché, mentre il meschino si sorprendeva come un bambino, Apollo aveva provveduto a riportare in cielo la vera stella dominante nel nostro sistema. Perché lo illuminasse per intero e lo iniziasse al senso dell’esistere che è conoscere.
Un iniziato, dunque, un autentico illuminato il nostro antieroe. Dal sole e dal sapere. Finalmente un uomo. Vivo e cosciente.
Solo che.
Anziché goderne e procedere nel cammino di consapevole ascensione che i testi antichi chiama(va)no iniziazione, il nostro risvegliato ha pensato bene di condividerne le gioie con quelli che con lui fino ad allora avevan condiviso solo pene ed illusioni. Ed è tornato indietro. A risvegliare gli altri prigionieri con quella fede immensa e cieca che alla fine, non si capisce proprio come, si riduce sempre a martirio. Sistematicamente.
Il buio improvviso è stato il primo giustiziere del poveretto, ormai assuefatto al sole e alla sua luce egli non riusciva più a vedere le ombre proiettate sulla parete della grotta oscura. La sua vista oramai si era (e)levata.
Si dice che una volta risvegliato un uomo non possa più tornare indietro, gli sia precluso. E forse è questa la ragione di quell’incapacità acquisita dal nostro liberato, egli davvero non riusciva più a visualizzare l’illusione spacciata a tutti quanti per reale. E per lui oramai non più visibile.
Visibile lo era però lui per tutti gli altri che ritrovò esattamente dove li aveva lasciati, immobili incatenati e ipnotizzati dall’ombra delle belle statuine. Così com’era, scatenato e non più addomesticato né più in grado di subire l’illusione che per gli uomini in catene era l’unico reale, lui che voleva risvegliare alla vita viva gli ex compagni di prigione apparve a tutti inizialmente come uno che aveva perso buon senso e la ragione, quella comune.
E in comune tutti quanti cominciarono a deriderlo, denigrando con sarcasmo e cinismo ciò che egli tentava di spiegare e che essi non avevano la minima intenzione di comprendere e tentare. Non c’era dunque gara né alcun margine per discutere perché di un confronto i carcerati proprio non ne volevano sapere.
E senza confrontarsi, senza stare almeno ad ascoltare quello che l’uomo illuminato dal vero sole tentava in tutti i modi di descrivere e raccontare, passarono veloci dal deriderlo all’insulto. Il più feroce.
Fa male ma bisogna riconoscerlo: il risveglio di quell’uomo l’aveva reso a tutti alieno, ridicolo all’inizio. E progressivamente un pericolo per quella totalitaria maggioranza assuefatta all’osservanza di una sola dogmatica credenza che mette(va) al bando e combatte(va) chiunque esca dalla litania di gregge omologata e insinui solo il dubbio di una diversa prospettiva.
Deriso. Ridicolizzato. Insultato. Marginalizzato. Combattuto.
Quando poi il prigioniero liberato provò a spronare la sua gente ad uscire dalla caverna oscura e verificare personalmente chi di loro avesse ragione e chi torto, dove fosse il reale e dove l’illusione.
Beh, a quel punto ci fu il primo grande plebiscito della storia, fu no all’unisono, un’ovazione. E l’eretico fu ucciso.
Esattamente come accadde mezzo millennio dopo. Più o meno.
Un referendum popolare, un consenso totale. E la ricerca della verità fu messa in croce.
E a chi oggi o domani dovesse lamentare di non essere mai stato edotto a scuola o dal padrone di come vanno realmente le cose in questo mondo: E no! niente alibi, nessuna giustificazione.
Platone ce l’ha detto che il film è sempre lo stesso.
Da almeno due millenni. E mezzo.