Rocco Guerriero (Torino – Contemporaneo) – Piazza Castello
Il nostro novecento - Capitolo 7
di Tito Giraudo
7. La grande guerra. Pietro diventa importante
Aveva ragione il capitano medico confermando a Pietro che in guerra un operaio è più prezioso in fabbrica che al fronte. La Fiat era in piena espansione, ma la guerra giocherà un ruolo che la porterà a un grande sviluppo e a una diversificazione produttiva. FIAT, Terra, Mare e Cielo sarà lo slogan degli anni a venire. Ma molto dello sviluppo nascerà proprio dalla guerra.
Pietro era un “ruscone” in tempo di pace, ora che la guerra la fa in fabbrica, diventa ancora più infaticabile: adesso ha uno scopo. Nei primi mesi del conflitto le polemiche interne ai socialisti si smorzano, molti attivisti sindacali e di partito sono al fronte, certo non volontari. All’interno c’è un giro di vite disciplinare, anche in fabbrica vengono applicate le leggi di guerra. Stanno entrando le donne che in molti casi sostituiscono i mariti.
Come qualcuno aveva previsto, la guerra non porterà solo un carico di morte e distruzione, modificherà in qualche modo vecchi equilibri, non solo politici ma anche sociologici. Nulla sarà più come prima, nemmeno il ruolo della donna, anche se questo riguarderà essenzialmente il centro nord.
Agnelli, che è ormai il padrone incontrastato della fabbrica, allarga i settori produttivi. Al fronte servono auto, autocarri e aeroplani. Si progettano e si costruiscono anche motori marini destinati ai cantieri navali. Almeno nel primo anno, Torino non soffre per la guerra: anzi, il lavoro aumenta.
Al fronte, per contro, nonostante la propaganda, è un’altra musica. Male armati e peggio equipaggiati i soldati italiani hanno dalla loro una sola componente: il numero. A migliaia saranno falcidiati dalle mitraglie nemiche in un’assurda tattica di attacchi e ritirate. Lo stato liberale, che si era già mostrato debole nell’affrontare le riforme, lo è anche in guerra. Mancano le armi, i mezzi, i viveri e l’equipaggiamento. Gran parte degli ufficiali sono improvvisati. Cadorna, il comandante in capo, è un generale vecchia maniera, inadatto a una guerra moderna.
Si raccoglie quello che si è seminato, bisogna rimediare. Non sarà una guerra lampo come tanti si aspettavano e quindi, se non si vuole soccombere, le fabbriche devono produrre le armi, i contadini i viveri.
Si scopre che in Italia ci sono gli approfittatori, quelli che dovrebbero produrre perché pagati profumatamente, ma producono poco e male, e quelli che producono bene ma triplicano i costi. L’esercito, a cui sono demandati gli ordinativi militari, fuori dal fronte si trasforma in una grande fureria truffaldina e la politica non è da meno. Si decide di correre ai ripari.
Un giorno Pietro viene chiamato in Direzione. Non sa con chi dovrà parlare, brevemente passa in rassegna le sue possibili mancanze, ma non ne trova. Lo portano dal capo del personale che gli dice: «Giraudo, ti devo portare dal Presidente che ti deve parlare. È un grande onore! Il Presidente mi ha chiesto informazioni su di te. Gli ho detto che, anche se sei un anarcosindacalista, sei un lavoratore onesto e capace. Vai nel mio bagno, lavati le mani e mettiti un po’ a posto, poi andiamo dal Presidente.»
Mentre si lava in un bagno, che non è quello della fabbrica dove le latrine sono chiuse da una porta a mezz’altezza che consente di vedere il viso del defecante, si chiede cosa possa volere il padrone. Nulla di male, pensa, altrimenti il capo del personale non avrebbe fatto quella sviolinata!
Naturalmente Pietro ha visto molte volte Agnelli in fabbrica, la Fiat è ancora una media azienda, anche se in grande espansione. L’ingegnere scende spesso nei reparti, vuole sempre osservare e sapere tutto. È un borghese e non un aristocratico come il suo socio Biscaretti di Ruffia, che quando entra in fabbrica ha sempre paura di sporcarsi. Pietro non ha mai parlato con lui. È stato nella delegazione Fiom per il rinnovo del contratto di lavoro nel 1914, dopo molti giorni di sciopero. In quel caso, anche se seduto allo stesso grande tavolo, non ha certo preso la parola. Per la Fiom hanno parlato Buozzi, il segretario nazionale, e Parodi, il capo delle commissioni interne.
Quando raggiungono l’ufficio di Agnelli le gambe gli fanno giacomo-giacomo. Agnelli non alza la testa: «Scusate, finisco di scrivere», firma una lettera e rivolgendosi alla segretaria dice: «La faccia spedire immediatamente». Poi al suo dirigente: «Dottore grazie, mi lasci solo con l’operaio Giraudo.»
«Ti chiami Pietro, vero?»
«Sì» risponde Pietro con un filo di voce. E Agnelli brusco: «Tu sei uno di quelli che vogliono portarci via la fabbrica. Sei uno di quelli che si illudono che le fabbriche vadano avanti anche senza noi industriali». Agnelli si alza in piedi e improvvisamente il suo tono cambia: «So anche che sei un bravo lavoratore e che sei onesto. Mi hanno detto che hai seguito quel Mussolini e anche tu, come lui, sei diventato interventista. Il tuo amico non mi piace, è stato quello che ha contributo a indebolire il socialismo riformista, è violento e demagogo. Io mi fido di più di quelli come te. So che sei attaccato alla fabbrica che ti ha cambiato la vita, il capo del personale mi dice che sei un gran lavoratore. Questa guerra produrrà grandi cambiamenti, noi dobbiamo contemporaneamente fare l’interesse della Fiat, che ci dà da mangiare, e dell’Italia che è la nostra Patria. Giraudo, questo paese è ancora troppo arretrato. Le cose sul terreno produttivo non vanno bene.»
Agnelli a questo punto volta le spalle a Pietro e, guardando dalla finestra che dà sul cortile della fabbrica, dove sono parcheggiate molte automobili pronte per la consegna, prosegue: «Le fabbriche non producono abbastanza, le campagne meno ancora. A causa della guerra, in fabbrica manca mano d’opera. Come puoi vedere abbiamo fatto entrare in FIAT mogli e figli. Manca soprattutto uno sforzo guidato e organizzato. Per questo il Governo ha dato vita a dei Comitati per la Mobilitazione Industriale.
«In questi comitati sono rappresentate tutte le forze vive del paese. Gli operai lo sono, che piaccia o meno a noi industriali. Mi hanno comunicato che sei stato nominato nel Comitato in rappresentanza degli operai. Il tuo nome non viene certo dai socialisti o dal sindacato, il signor Prefetto mi ha chiesto se avevo delle obiezioni, ho detto che mi andava bene. Nel Comitato ci sarò anche io. Fatti onore!» Bruscamente gli dà la mano, gira sui tacchi e si risiede alla scrivania.
Pietro esterrefatto non sa cosa fare. Lo toglie d’impaccio la segretaria accompagnandolo alla porta dove, nell’anticamera, lo aspetta il capo del personale piuttosto nervoso. «Cosa ti ha detto?» gli chiede mentre lo riaccompagna verso il suo ufficio. Pietro solitamente non è dotato di grande spirito, ma questa volta non si lascia scappare una piccola vendetta: «Mi ha chiesto cosa pensavo dell’ufficio personale!» Aveva collezionato così un altro nemico.
Quando raggiunge il reparto, il tam tam di fabbrica aveva già segnalato che era stato da Agnelli in persona. Pietro non aveva ancora metabolizzato quello che gli stava succedendo. Una cosa però l’aveva capita; il suo nome era stato fatto da gente vicina ai fasci di combattimento; si ricordò allora delle parole di Mario. La sua posizione interventista in fabbrica aveva lasciato segni profondi nei rapporti con i compagni politicizzati, i più settari tra i socialisti avevano fatto il vuoto attorno a lui, sovente nel pieno delle discussioni erano venuti alle mani. Pietro ne aveva prese, ma ne aveva anche date. La sua energia si moltiplicava quando difendeva le sue idee. Adesso però capiva che doveva conservare la calma: «Segreti tra patrioti interventisti», sibilò sghignazzando.
Qualcosa dovette però dire quando arrivò Parodi, il capo della commissione interna della FIOM. «So che ti ha mandato a chiamare il padrone, – gli chiese – cosa voleva?» Pietro stimava Parodi, non aveva quindi motivi per nascondergli la verità.
«Mi hanno nominato nel Comitato per la Mobilitazione Industriale, come rappresentante operaio.»
Parodi ebbe uno scatto: «I soliti bastardi, nominano chi vogliono loro!» Poi si calmò: «Giraudo, nonostante le nostre divergenze, tu sei un compagno onesto. Lo so che non sei stato tu a chiedere quell’incarico, sarà il tuo amico Gioda o forse quel porco di Mussolini ad aver fatto il tuo nome. D’altra parte la Fiom e il partito hanno deciso di non partecipare. Nessun compromesso con i guerrafondai! Spero comunque ti ricorderai di essere un compagno. Se vuoi, tienici al corrente di quello che succede.» Gli diede la mano e se ne andò.
Stringere le mani del padrone e del capo della commissione interna nella stessa giornata non gli era mai capitato. Quel giorno nessuno in fabbrica parlò con Pietro.
La prima seduta del Comitato per la Mobilitazione Industriale si svolse in prefettura, in Piazza Castello. Un carabiniere portò l’avviso in Via Genova a casa di Pietro una settimana prima. Pietro andò dal capo del personale per avere il permesso; questo, memore della battutaccia, stava sulle sue. Quando Pietro fece vedere la convocazione la guardò dicendo: «Ecco, adesso ho capito. – e aggiunse: – Come diavolo hai fatto? Te, un analfabeta figlio di N.N., a farti mettere in un comitato così importante?» A Pietro saltò immediatamente la mosca al naso. Rispose perciò sgarbatamente: «Chiedilo al tuo padrone!»
«Attento! – disse il capo del personale – la guerra finirà e i rapporti torneranno quelli di prima!»
E Pietro: «Attento tu! Quando la guerra sarà finita il problema potrebbe essere tuo!»
Il dirigente capì che non era il caso di litigare con un operaio che sarebbe stato in contatto con il Presidente. Incassò, ma si ripromise di fargliela pagare alla prima occasione.
Pietro lasciò il lavoro alle 12 di quel giorno, andò a casa, si lavò, si fece la barba e si mise il miglior vestito, la camicia bianca e una cravatta Lavallière. Si rimirò allo specchio e pensò che la figura che vedeva riflessa era ben lontana da quella del panettiere disperato e analfabeta di qualche anno prima. Certo leggeva ancora stentatamente e ci metteva un po’ a scrivere una frase, ma aveva compiuto grandi passi avanti. Sentiva la mancanza di Mario, ma capiva altresì di potersi muovere con le proprie gambe. Anche in politica.
Pietro Giraudo
Quando entrò in prefettura facendo vedere l’invito, il carabiniere di guardia lo squadrò con fare sospetto poi, letto il biglietto, si mise sull’attenti, chiamò un commilitone e lo fece accompagnare nella sala dove si sarebbero svolte le riunioni del Comitato.
C’erano ancora poche persone. Quando Pietro entrò questi si presentarono, erano rappresentanti di categorie minori. Poi arrivò Agnelli con altri industriali, lo vide, si avvicinò, gli strinse la mano e disse: «Set-te sì davzin a mi» (Siediti vicino a me). Pietro aveva scritto a Mario il quale, per le sue precarie condizioni di salute non era più al fronte, ma all’ospedale militare di Novara, informandolo della nomina e del colloquio con Agnelli. Nella riposta, che gli era arrivata proprio il giorno prima, Mario lo aveva messo in guardia: «Attento Pietro, sei stato segnalato da Benito, ha chiesto a me se ce l’avresti fatta. Io gli ho risposto: Meglio di chiunque altro! Detto questo fatti passare l’emozione, non fidarti di Agnelli. Non è il peggiore, ma cercherà di strumentalizzarti se ne avrà bisogno. Tienilo alla larga, non sei lì come rappresentante degli operai della Fiat, ma nostro, dei fasci di combattimento».
Pietro si sedette vicino al presidente, ma – memore delle parole di Mario – si ripromise di cambiare posto alla riunione seguente. Quel giorno comunque le sorprese non erano finite. Entrò in sala l’ingegnere Camillo Olivetti. La sua personalità era notevole, molti membri si alzarono per salutarlo. Anche Agnelli lo guardò e fece un cenno con la testa, abbozzando un sorriso. Rispondendo ad Agnelli, Olivetti vide Pietro, si illuminò in volto, si avvicinò e lo abbracciò dicendo: «Anche tu qui, sei in rappresentanza degli operai della Fiat?»
Poi guardando Agnelli continuò: «Buongiorno signor Agnelli, come sta?» Pietro, preso il coraggio a due mani, rispose: «No, ingegnere, non sono qui in rappresentanza degli operai Fiat, ma degli operai interventisti.»
«Ah, bene! – continuò Camillo aggiungendo – Quand ch’i l’oma finì, spet-me» (quando abbiamo finito, aspettami).
«Sei una fonte di sorprese – gli sussurrò Agnelli. – Come fai a conoscere quel mezzo matto?»
«L’ho conosciuto alla Camera del Lavoro, teneva una conferenza sui suoi viaggi in America. E non è un mezzo matto!»
Agnelli si rese conto che quell’operaio non era malleabile, ma a lui piacevano i duri. Perciò sorrise: «Già! È un socialista come te e un padrone come me. Per questo ho detto che è matto, ma forse vede lontano».
Dopo si girò e si mise a parlare con un altro Olivetti, che non aveva nulla a che fare con Camillo: era il presidente degli industriali torinesi. Finalmente, arrivati tutti i membri, la prima riunione del Comitato ebbe inizio.
Il presidente del Comitato era un generale in pensione. Dopo i saluti ai convenuti, iniziò la relazione: il Re, la Patria, i soliti bla bla che si usavano allora come oggi in queste occasioni. Prese poi la parola il presidente degli industriali. Il tono era lo stesso, ma con la differenza che non perse occasione di lamentarsi delle difficoltà dell’industria e della necessità di ulteriori interventi governativi.
Da questi discorsi traspariva la superficialità e l’ottimismo, soprattutto riferito alla durata della guerra e all’immancabile vittoria finale. Tutto sarebbe finito a tarallucci e vino se non avesse chiesto la parola Camillo Olivetti.
«Signori» disse, facendo calare il silenzio nella sala: era infatti un oratore non previsto in un copione scontato. «Perdonatemi, ma io personalmente non nutro il vostro ottimismo. Questa guerra secondo me sarà lunga e sanguinosa. Il mio interventismo non è entusiasta come quello dell’amico Giraudo» disse guardandolo sorridente.
«Io penso, come voi, che stiamo dalla parte giusta, la guerra è probabilmente un fatto inevitabile. Ma detto questo, credo che il Comitato abbia grandi compiti e grandi responsabilità. Abbiamo un nemico potente e agguerrito e, per nostra disgrazia, degli alleati con risorse ben diverse dalle nostre. Conosco abbastanza bene gli americani, se entreranno anche loro in guerra vedrete quanto sapranno mettere in campo! Tra gli alleati, il nostro paese è quello che registra i maggiori problemi sul piano degli armamenti e degli approvvigionamenti».
E, alzando la voce, aggiunse: «Questa non è una guerra come le altre! Sono due concezioni politiche che si scontrano. Stiamo combattendo contro gli imperi centrali. Se avremo la fortuna di vincere, si affermerà un concetto più moderno della politica e del rapporto tra le classi. Ma da qui alla vittoria, che io auspico con tutto il cuore, ci saranno lacrime e sangue!
«Ricordatevi che questo paese è arrivato alla guerra profondamente lacerato. Ricordate altresì che la gran parte dei lavoratori italiani non era per la guerra, per questo non dobbiamo deluderli. Ora io credo che tutti faranno uno sforzo patriottico, ma non dobbiamo nasconderci i problemi. Quelli di questi primi mesi di guerra sono nulla a confronto di ciò che verrà! Signori, – continuò Camillo – una gran massa di denaro è stata stanziata in direzione dell’industria, ma questo non significa che in tempo di guerra dobbiamo arricchirci.
«Le nostre fabbriche avranno sicuramente un grande sviluppo, e questo è positivo. Tutti stiamo vedendo il fiorire di nuove aziende e lo sviluppo delle esistenti, ciò è sicuramente una buona cosa, ma siamo proprio sicuri che questo avvenga in un disegno industriale corretto? Siamo sicuri che nel pieno dello sforzo produttivo non si tenda allo sfruttamento disumano degli operai? Ci sono anche donne e ragazzi, i capifamiglia sono stati mobilitati, e noi dobbiamo avere un’attenzione ancora maggiore.
«Ecco, signori e colleghi, come interpreto io il ruolo di questo Comitato. Un momento di unione di tutte le categorie, ma anche un momento di stimolo, soprattutto di controllo. I capitali che si stanno muovendo hanno come fine la vittoria e il bene futuro del paese, non solo il nostro profitto personale, giusto in tempo di pace, ingiusto in tempo di guerra, quando tutti sono chiamati al sacrificio.
«Scusatemi se sarò la vostra coscienza critica. Io non sono un grande industriale come lei, signor Agnelli. Ma nella mia fabbrica, oltre a realizzare macchine il più avveniristiche possibile, abbiamo realizzato un rapporto di collaborazione con tutti quelli che ci lavorano, dai più umili ai dirigenti. Prova ne è che non c’è mai stato nessuno sciopero da parte delle maestranze.
«Signori, – continuò l’ingegnere di Ivrea – dico queste cose non per spirito vanaglorioso, ma perché sono convinto che in questo momento occorra prevenire, per non dover poi reprimere, magari ingiustamente. Non è sufficiente la sola propaganda bellica senza sacrifici equanimi, quelli dei lavoratori e anche i nostri. Questo è lo spirito per cui ho accettato di far parte di questo Comitato, che ritengo non solo utile, ma in questo momento indispensabile. Per questo sento il dovere di richiamare tutti alle grandi responsabilità che sono su di noi. Non siamo qui per fare delle celebrazioni, ma per lavorare per il bene del paese!».
Le parole piene di buon senso di Camillo lasciarono l’uditorio esterrefatto: nelle riunioni ufficiali erano abituati a sentire discorsi demagogici. Fu Agnelli il primo ad applaudire. Si alzò e andò a stringere la mano all’ingegnere di Ivrea, certo diverso da lui, ma geniale e logico almeno quanto lui.
Finita la riunione, Camillo prese sottobraccio Pietro dicendogli: «Andoma a sin-a» (andiamo a cena). Si avviarono così a piedi verso la vicina Piazza Carignano e, con grande sorpresa di Pietro, entrarono al Cambio, il miglior ristorante di Torino.
Piazza Carignano è una piazza importante. Sul lato sinistro, si trova il Parlamento Subalpino, l’ex Parlamento Italiano fino al trasferimento del Regno. Sul lato destro, il teatro Carignano e, appunto, il mitico Cambio. Il vecchio Parlamento è un bel palazzone barocco dalla facciata severa di mattoni “a vista”: si dice che l’architetto avesse previsto l’intonaco ma poi, mancando i denari, le facciate rimasero di quel colore rosso cupo tipico della terra piemontese.
Il Cambio era il ristorante frequentato dai nobili, dai ricchi e dai deputati prima piemontesi e poi italiani. In fondo al salone principale una targa ricorda dove sedeva Camillo Benso conte di Cavour. Il pavimento delle sale è in palchetto, gli arredi barocchi sono molto ben tenuti, nonostante gli anni. Colgo l’occasione per raccontare un episodio che capitò a me quando ancora lavoravo alla Camera del Lavoro nella vicina via Principe Amedeo.
Una sera, avendo qualche lira in tasca, decisi di fare una follia e cenare nel più lussuoso ristorante di Torino. Era esattamente lo stesso dove fra un po’ entreranno Camillo e Pietro. Forse anche i clienti e i camerieri, tutti mediamente decrepiti. Io, al confronto, quasi trentenne, ero uno scappato dall’asilo. Arrivò da me un cameriere tremebondo con il menù e scelsi il cibo. Quando il cameriere ciabattando con gli immancabili piedi piatti si allontanò dal mio tavolo, pensai: «Mi sa che questo schiatta prima di arrivare in cucina!». Fatti pochi passi il poveretto stramazzò, e fu portato rapidamente via. Che portassi sfiga?
Pietro è imbarazzato, non avendo mai frequentato posti del genere. Camillo tuttavia lo toglie d’impaccio: «Qui non mangeremo certamente bene come quella sera con il tuo amico Gioda, ma il locale è vicino alla prefettura.» Un cameriere li fa sedere e mette loro davanti un menù scritto in bella grafia su un grande foglio di carta pergamena piegata in due.
«Il solito vino ingegnere?» chiede rivolto a Olivetti. «Grazie sì» risponde Camillo e rivolgendosi a Pietro: «Qui servono un ottimo Barolo invecchiato». Pietro sapeva che il Barolo era un vino pregiato, ma non lo aveva mai bevuto. Nelle piole e osterie in cui era sempre stato si beveva la barbera sfusa, messa nei litri o nei mezzi litri di vetro, con il collo largo e il sigillo, al massimo il Dolcetto.
Arriva intanto un altro cameriere, non più con la giacca bianca ma con una specie di frac nero. Apre la bottiglia con un cavatappi luccicante, annusa il tappo, poi versa una piccola porzione di vino nel bicchiere di Camillo che, meno formalmente, lo assaggia, sorride e dice: «Va bene». Poi rivolto a Pietro: «At van bin j’agnolòt e peui la finansiera?» (Ti vanno bene gli agnolotti e poi la finanziera?). Pietro fa di sì con la testa: conosceva e aveva già mangiato gli agnolotti, ma la finanziera non l’aveva mai assaggiata. Sapeva che era un piatto piuttosto complicato a base di frattaglie cotte in una salsa acidula, un cibo che mangiavano solo i ricchi.
«Come sta Gioda?» chiede Camillo.
«Non bene, ingegnere – risponde Pietro. – È stato ricoverato all’ospedale militare di Novara, e la sua salute lascia a desiderare. Non è mai stato un robustone, ma credo che la guerra gli abbia dato un brutto colpo.»
«Dopo l’incontro di quella sera, – continua Camillo – mi ha scritto molte volte. È una persona di grande sensibilità e mi piace molto. Certo non sono totalmente d’accordo con le sue analisi sull’interventismo, troppo ottimistiche e troppo nazionaliste. Lo so, – prosegue Camillo con un accenno di sorriso – anche tu sei su quella linea, me l’ha scritto Mario che avete seguito Mussolini!
«Francamente il suo cambiamento repentino mi ha stupito, ma poi amici comuni mi hanno detto quanto fosse stato colpito dagli avvenimenti sindacali di Milano e dalle agitazioni in Emilia, – e, abbassando la voce, – credo sia stato colto da una sfiducia nelle capacità delle masse di modificare i rapporti di forza nella società. Su questo sono d’accordo con lui. Anch’io nell’altro secolo sono sceso in piazza, a momenti mi arrestavano a Milano. Poi ho capito che solo il gradualismo può risolvere i problemi del popolo».
Camillo capì che Pietro non conosceva la parola e spiegò: «Ci sono due strade per cambiare le cose. Una, quella violenta, cambia tutto distruggendo il vecchio. E come si dice per il parto, si buttano via non solo le acque, ma anche il bambino! L’altra, basata sui rapporti di forza, ma soprattutto sulla democrazia, elimina a poco a poco i difetti del sistema e introduce nuove regole che vanno incontro ai bisogni della maggioranza della popolazione».
Pietro, che era un rivoluzionario convinto, sbottò: «Di padroni come lei ce n’è uno solo, gli altri sono tutti approfittatori!» Camillo lo guardò, accennando un sorriso: «Vedi Pietro, non si tratta di buoni o cattivi. Io ho girato il mondo, come sai da giovane sono andato negli Stati Uniti poi, subito dopo l’università, ho vissuto e lavorato in Inghilterra. Pensa che dovevo pure sposare un’inglese! Che fesseria avrei fatto, considerato la moglie eccezionale che ho! Lascia che ti spieghi, se non ti annoio. Molte cose che in questi paesi sono avvenute tanti anni fa, adesso avvengono anche in Italia. Gli inglesi nel Seicento hanno fatto la prima rivoluzione contro l’assolutismo del Re. Da quel momento, pur non cancellando la monarchia che è il simbolo della nazione, il vero potere politico è passato al parlamento. Un parlamento ancora oggi pieno di nobili, ma comunque eletto democraticamente. Nel settecento è toccato agli americani, che hanno fatto la rivoluzione proprio contro gli inglesi per essere indipendenti. Hanno vinto e non hanno fatto la fesseria di riproporre il modello inglese troppo classista, ma sono diventati una repubblica e una democrazia, magari imperfetta, ma una democrazia. Dimenticavo i francesi! I francesi hanno fatto la rivoluzione più cruenta di tutti, eliminando fisicamente il re e la vecchia classe nobiliare. Pur servendosi del popolo, la rivoluzione era ispirata dalla borghesia che di fronte agli eccessi dei soliti estremisti, anche se non restaurò il vecchio ordine, lo sostituì con uno moderato che poi porterà a Napoleone. Ma veniamo all’Italia. Il Risorgimento non è stata solo una guerra di liberazione e di unificazione del paese. È stata una specie di rivoluzione borghese per condizionare il potere del re, tutto questo anche da noi è stato voluto dalla borghesia e non dal popolo. E, continuando a sorridere, concluse: «Ma lo sai Pietro che in meridione la gente difendeva i Borboni? E che pochi tra i padri della patria pensavano di allargare il potere? I liberali, partiti come rivoluzionari, hanno ben presto fatto il compromesso con il re. Un po’ di potere in cambio della conservazione della monarchia!
Esclamò: a parte Mazzini e pochi altri, pure Garibaldi si è piegato! Pietro, il popolo fa paura, non solo ai tiranni, ma anche ai cosiddetti ceti medi, la piccola e la grande borghesia».
«Allora vede, ingegnere, – sbotta Pietro intravedendo una parvenza di giustificazione alle proprie convinzioni, – “L’oma rason nojàutri!” (abbiamo ragione noi): il potere si può prendere solo con la rivoluzione!»
«Già, può darsi, – lo fermò Olivetti – ma poi chi governerà? Voi operai? Io non credo. Guarda chi sono i veri capi socialisti, borghesi pure loro. Sai cosa succederebbe? I lavoratori, usati come truppa prenderebbero il potere, magari con il loro sangue, e i capi borghesi governerebbero. A parole li appoggerebbero, ma nei fatti sarebbero contro di loro! Vedi amico mio, è anche un problema di istruzione. In questo tipo di società, piaccia o meno, ci sono dei ruoli da rispettare. Le fabbriche devono produrre le macchine e le campagne devono produrre il cibo. Qualcuno che lavora ci vorrà sempre!»
«Sì, interrompe Pietro, – ma con più giustizia! E poi ci sarà il controllo operaio.»
«Anche questa, ho paura, sia un’illusione! Se fai la rivoluzione e prendi le fabbriche e le terre, questo non avviene pacificamente. I cosiddetti padroni, distruggeranno tutto prima di cedere il potere. Ma anche non lo facessero, mancherebbero i dirigenti e i capitali. Gli intellettuali rivoluzionari che prenderanno il potere dovranno fare i conti con una realtà ben peggiore. Dovranno imporre sacrifici e togliere al popolo quella stessa libertà che non ha mai avuto. Lo faranno in modo molto più crudele dei vecchi padroni, perché la situazione economica sarà peggiorata. Poi, assestate le cose, si creeranno delle nuove gerarchie politiche e per il popolo non cambierà molto.
«Vedi, caro Pietro, io spero che in Mussolini abbia prevalso questa analisi quando ha rotto con il partito. Prima, per me, era troppo estremista. Ho paura però che faccia lo sbaglio di allearsi, magari per tattica, con la reazione che si è formata in questi anni a seguito della crescita di noi socialisti. Dovrebbe guardare ai riformisti presenti, non solo tra i socialisti, ma nei liberali e anche nei cattolici: l’esperienza di Don Sturzo mi sembra interessante».
«Benito non commetterà questi errori!» sentenziò Pietro, poco propenso ad ascoltare critiche nei confronti del suo amico e idolo Mussolini.
«Speriamo – concluse Camillo. – Ma adess mangioma e beivoma, i soma meritass-lo!» (ma adesso mangiamo e beviamo, ce lo siamo meritato).
Pietro non aveva compreso tutto quello che il suo amico ingegnere gli aveva detto, ma aveva colto il succo del discorso. La vecchia strada rivoluzionaria non andava molto bene. Ci volevano nuove alleanze, nuovi piani. Il discorso di una trasformazione lenta della società non lo entusiasmava, ma la capiva. Lui non voleva distruggere le fabbriche, sapeva però che gli operai non erano in grado di dirigerle. Doveva parlarne a Mario, lui avrebbe saputo cosa rispondere. Non se la sentiva di contraddire Camillo, era la figura paterna che non aveva mai conosciuto e non voleva urtarsi con lui.
Camillo, tuttavia, da quella persona sagace che era, doveva essersi reso conto che il suo amico stava navigando in acque sconosciute, perché spostò gradatamente il discorso verso un argomento più neutrale: la fabbrica di Ivrea. «Devi venirla a vedere Pietro! Non è grande come la Fiat e non fa nemmeno un prodotto di moda come le automobili. Costruiamo macchine per scrivere. Tu dirai che bisogno c’è di una macchina per scrivere quando la mano lo fa altrettanto bene? Vedi, io mi sono posto lo stesso problema che si è posto Gutenberg nel medioevo». Pietro, che a proposito di Gutenberg si trovava nelle stesse condizioni di don Abbondio nei confronti di Carneade, gli indirizzò uno sguardo interrogativo.
«Ah! Scusami. Gutenberg è quello che ha inventato la prima macchina per stampare a caratteri mobili. Ha dato così la possibilità di leggere a molte persone, senza usare migliaia di scrivani o di monaci. La nostra civiltà sta diventando industriale e gli scambi sempre più veloci. Il tempo gioca un ruolo sempre più determinante e, tu sai, la scrittura è fondamentale nei rapporti tra gli uomini.
«Tu quella sera, a cena, mi hai detto di avere dei problemi a leggere, ma io sono portato a ritenere che le tue difficoltà siano ancora più grosse con la scrittura, e una scrittura difficile diventa assai spesso illeggibile. La macchina per contro scrive bene, chiaro e sempre allo stesso modo. Come quando leggi il giornale. A ogni modo, per non annoiarti troppo…»
«Ma no ingegnere, lei non mi annoia affatto, anzi!» si affrettò a dire Pietro che beveva letteralmente quelle parole.
«Nell’ultimo viaggio fatto in America, – continuò Olivetti – ho visitato fabbriche che producono migliaia di macchine per scrivere. Pensa che la Underwood ne fabbrica 21.000 all’anno!
«Con il mio capo operaio, un ex fabbro, un vero genio della meccanica, abbiamo progettato e poi prodotto un modello di macchina che, secondo noi, è meglio di quelle americane. Prova ne sia che non le vendiamo solo in Italia, ma in Francia e Inghilterra, e speriamo presto anche in America. La cosa tuttavia che mi rende più fiero, sono i rapporti con quelli che lavorano con me. Io rispetto loro e li faccio vivere bene, loro rispettano me e mi consentono di produrre bene. Questo, Pietro è il modello che io sogno. Questa è la fabbrica che voglio lasciare ai miei figli. In particolare ad Adriano, che sembra avere una buona vocazione industriale.
«Se mi vieni a trovare a Ivrea, vieni a pranzo da noi, conoscerai mia moglie e i miei sei ragazzi. Abitiamo poco sopra la fabbrica, su una collinetta che si chiama Monte Navale. La nostra casa era un vecchio convento; a fianco c’è una chiesetta con dei dipinti medievali molto belli. Pensa che la seconda volta che sono andato negli Stati Uniti ho cercato di venderli per finanziare la mia nuova fabbrica. Meno male che non se n’è fatto nulla. Sono troppo belli e io spesso entro e mi fermo dieci minuti a guardarli!. Tu, Pietro, che lavoro fai in Fiat?»
«Non faccio l’operaio specializzato. Lei sa che io sono un trovatello ignorante. Ho fatto il panettiere quando sono scappato dalla famiglia che mi aveva adottato. Poi, arrivato a Torino, sono entrato in Fiat. Ho fatto prima il manovale e ora sono operaio. Sono soddisfatto del mio progresso ma, come tutti, vorrei ancora migliorare. Non aver fatto le scuole mi impedisce di fare molte cose. Comunque non ho tempo per studiare. Quello che ho imparato me l’ha insegnato la politica e soprattutto Mario. Siamo amici dal 1909, io l’ho seguito, e lui mi è stato veramente amico e maestro».
«Pietro, disse Olivetti, ti assicuro che in me avrai un altro amico. Quando avrai bisogno io ci sarò». Mai parole furono più profetiche.
Ma le profezie non finirono lì. Dopo pochi mesi scoppiò la rivoluzione russa. I bolscevichi presero il potere e tutto quello che Camillo aveva previsto si realizzò, senza che nessuno, a sinistra o a destra, ne capisse la vera portata. Dovrà passare un’altra guerra, e poi altri quarant’anni, prima di capire finalmente che la grande illusione del socialismo rivoluzionario era miseramente fallita.
(Continua)