Mirek Kuzniar (Boleslawiec, Polonia, 1968 - Heilbronn, D) – Porta di Brandeburgo (2018)
Germania ultimo atto (9)
di Mauro Lanzi
Germania Kaputt
A Berlino, in quell’aprile del’45, mentre infuriavano gli ultimi combattimenti, si respirava un’atmosfera incredibile, tra allegria apparente ed ingiustificata spensieratezza; la città era affollata da profughi, sbandati, disertori, ma chi poteva si dava al divertimento più sfrenato, tra alcol, improvvisamente emerso non si sa come, musica e sesso; i berlinesi sembravano volersi stordire per esorcizzare la paura; paura dei bombardamenti, paura della polizia, paura dei russi, paura del proprio passato. Soldi non ce n’erano, si ricorreva al baratto: si barattavano sigarette, alcol, documenti falsi, targhe automobilistiche contraffatte; al Tiergarten si esibiva una orchestrina cubana spuntata da chissà dove; la feroce presa del terzo Reich si stava allentando, una sorta di ottuso fatalismo sembrava essersi impossessata dell’animo della gente.
Chiuso nel suo bunker, sotto i giardini della Cancelleria, Hitler viveva gli ultimi giorni del suo potere, tra piani farneticanti di impossibili contrattacchi, scoppi d’ira sempre più violenti contro i suoi collaboratori, momenti di assenza mentale; Guderian , nominato capo di Stato Maggiore dopo le Ardenne, lavorava in perenne conflitto con il Führer di cui cercava di arginare le iniziative più rovinose, spesso senza esito; alla fine Hitler lo sostituì col generale Krebs, rinunziando così all’ultimo grande comandante rimastogli.
Una ventata di speranza aveva scosso il bunker nazista all’annuncio della morte di Roosevelt il 12 aprile. Hitler era un cultore della storia di Federico II il Grande: in quei primi giorni di aprile gli stavano leggendo la biografia del Re, che stretto d’assedio a Berlino, meditava il suicidio, quando era giunta la notizia della morte della zarina di Russia, il miracolo per la salvezza della Prussia. “Abbiamo sentito le ali dell'Angelo della Storia frusciare nella stanza” riferisce uno dei presenti, commentando l’improvvisa commossa esaltazione del Führer alla notizia della morte del grande avversario.
Poi la dura realtà tornò a proporsi in tutta la sua drammatica evidenza, al punto che si cominciarono a studiare piani di evacuazione; in uno dei rari momenti di lucidità, Hitler rifiutò la proposta fattagli dai suoi gerarchi di fuggire a Berchtensgaden, in Baviera, per dirigere la resistenza dal sud: ”Nell’ignominiosa veste di fuggiasco, non potrei vantare alcuna autorità, né a nord, né a sud.”
Se c’era una cosa che il dittatore aveva ben chiaro era che sarebbe scomparso con la caduta del suo regime; intendeva farlo portando con sé quante più persone possibile; nelle prime settimane di aprile salirono al patibolo nelle famigerate carceri della Gestapo imputati di ogni genere: comunisti, disertori, gerarchi implicati nel fallito attentato a Hitler, come l’ammiraglio Canaris, il leggendario capo dell’Abwehr, il servizio di informazioni dell’esercito.
Non basta; dopo aver condotto una delle società più evolute, raffinate ed istruite del mondo in un abisso di abiezione morale, politica e militare, Hitler cercò di trascinare con sé nel baratro, il maggior numero possibile anche di connazionali innocenti; in una della sue più tristemente memorabili frasi aveva detto: “Se dovessimo perdere la guerra, allora anche la nazione sarebbe perduta. Non vale la pena salvare un popolo perché conduca un’esistenza primitiva: al contrario, è meglio distruggerlo, il futuro apparterrà ai più forti popoli dell’est. Del resto, alla fine della battaglia restano vivi solo gli individui inferiori, i migliori sono caduti.” Impressionante, anche per uno come Hitler.
Fino alla fine di marzo, la III Armata Panzer agli ordini di Von Manteuffel aveva tenuto delle teste di ponte sulla riva destra dell’Oder; alla fine si era ritirata facendo saltare i ponti: il 16 aprile Zukov e Konev iniziarono gli assalti al di là dell’Oder, senza badare a perdite. Il comando tedesco era stato affidato ad uno dei migliori tattici in materia di difesa della Wehrmacht, il generale Heinrici; Zukov ebbe modo di apprezzare le sue qualità nella battaglia delle Alture Seelow, dove le difese tedesche resistettero per quattro giorni ai furibondi assalti russi. Zukov fu costretto ad informare Stalin dell’insuccesso; Stalin, per spronarlo, lo minacciò di fare avanzare Konev. Una assurda gara cominciò allora tra i due comandanti russi per dimostrare a Stalin chi riusciva ad arrivare per primo a Berlino.
Vinse la gara Zukov, ma il suo ultimo assalto alle Alture Seelow fu un massacro, una delle pagine più nere dell’Armata Rossa per imperizia ed inutile sacrificio di soldati, che venivano fatti avanzare allo scoperto, a volte su campi minati non bonificati, mentre i carri venivano falciati dal fuoco preciso dei cannoni tedeschi. L’ Armata rossa pagò un prezzo esagerato alla rivalità tra i suoi due capi; tra il 16 aprile e l’8 maggio l’esercito russo perse 350.000 uomini, l’ammontare di perdite più alto, in un periodo così breve, di tutta la guerra. Heinrici il 19 aveva richiesto ad Hitler il permesso di ritirare le sue truppe, senza avere risposta; così l’ultima armata della Wehrmacht fu accerchiata e perduta. Superate le Alture, non c’erano più ostacoli sulla via di Berlino.
Il 21 aprile le avanguardie di Zukov avevano raggiunto la periferia di Berlino, il 25 la città era completamente circondata; per l’ultimo atto del conflitto i russi avevano schierato 460.000 uomini, 1500 carri armati, 12000 pezzi di artiglieria, più le famigerate ”katiuscha”, piattaforme di lancio a canne multiple. I tedeschi disponevano di 45.000 soldati della Wehrmacht, 40.000 “volontari” della Volksturm (chi sfuggiva all’arruolamento forzoso veniva impiccato), più alcune migliaia di ragazzi della Hitlerjugend; malgrado la disparità di forze, i progressi dei russi furono penosamente lenti, per la disperata tenacia dimostrata dai difensori, ogni cumulo di macerie era un ridotto difficile ad espugnare, ad ogni angolo di strada la morte aspettava i russi che avanzavano, magari per mano di ragazzini che strisciavano fino due o tre metri dai carri russi e poi li colpivano con un Panzerfaust o una molotov: un dodicenne aveva fama di aver distrutto più di dieci carri russi.
Nel bunker di Hitler si respirava l’aria della fine: i principali gerarchi del nazismo si erano allontanati o lo avevano tradito.
Speer dopo un’ultima visita a Hitler il 22 aprile si era ritirato ad Amburgo; sperava che Hitler lo nominasse suo successore, cosa che non avvenne; sarà processato a Norimberga. Goering, il capo della Luftwaffe, era riparato a Berchtesgaden, da dove cercò di occupare il posto del Führer ormai rinchiuso a Berlino; Hitler la prese male e lo condannò a morte come traditore, si suiciderà nelle carceri di Norimberga.
Himmler aveva incontrato Hitler per l’ultima volta il 20 aprile, data dell’anniversario del capo; uscito dal bunker, il truce massacratore di ebrei aveva aperto trattative con gli Alleati ed addirittura con esponenti del fronte ebraico, promettendo vanamente di salvare gli ultimi reclusi nei campi di concentramento; si gabellava per successore di Hitler, ma il dittatore lo smentì, condannandolo a morte. Dopo l’armistizio tentò la fuga, ma, arrestato dagli inglesi si suicidò col cianuro.
L’unico che rimase al suo posto fu Goebbels, che si suicidò nel bunker con la moglie, dopo che questa aveva dato la morte col cianuro, in una drammatica sequenza, ai loro sei figli. ”La terra tremerà quando usciremo di scena”, le ultime parole del ministro nazista.
Hitler sposò Eva Braun il 30 aprile, tra l’incredulità degli agenti della NKVD che avevano cominciato a dargli la caccia in tutta Berlino; il pomeriggio del 30 aprile, con i russi giunti a 200 metri dal ridotto, entrambi si suicidarono: Hitler aveva appreso il giorno prima della fine di Mussolini.
La morte del dittatore non segnò la fine dei combattimenti; a Berlino resistevano ancora gruppi della Hitlerjugend, i volontari spagnoli dell’Einsatzgruppe Ezquerra, i francesi della, Divisione Charlemagne, unità residue di SS, tutti combattenti che ben sapevano che non avrebbero trovato salvezza arrendendosi; dopo un vano tentativo di spezzare l’assedio russo, morirono tutti combattendo.
Epilogo
Alla sua morte Hitler aveva nominato suo successore l’ammiraglio Karl Doenitz, che il giorno seguente annunciò per radio la propria designazione con un incredibile eulogio del defunto dittatore;
“Il nostro Führer, Adolf Hitler è caduto. Il popolo tedesco si inchina nel cordoglio e nell’ossequio più profondi. Egli seppe riconoscere per primo i pericoli del bolscevismo dedicando l’intera sua esistenza a combatterli. Alla sua vita inconcussa ha posto fine una morte eroica……”
A parte la retorica, Doenitz prolungò inutilmente di una settimana i combattimenti, che erano particolarmente accesi attorno ad alcune sacche di resistenza ad est, e che furono causa di ulteriori inutili perdite; il 7 maggio il governo tedesco si arrese agli Alleati, destando, ovviamente, l’ira dei russi. Il giorno 8 maggio, poco prima di mezzanotte, il maresciallo Wilhelm Keitel fu condotto in uno dei pochi edifici di Berlino rimasti in piedi, un istituto tecnico, dove firmò la resa a nome del Reich davanti ai rappresentanti delle quattro potenze vincitrici.
Non è questa la sede per tracciare un bilancio di uno degli eventi più tragici dell’età moderna; di sicuro i tedeschi pagarono un prezzo altissimo per la loro adesione al nazismo. Non solo il territorio nazionale amputato e diviso in zone di occupazione, ma anche e soprattutto le sofferenze patite dai civili; basterebbe ricordare il dramma dell’evacuazione delle popolazioni tedesche dai paesi dell’est, condotta dai sovietici con inaudita efferatezza.
Dalla guerra emersero due potenze vincitrici, Stati Uniti ed Unione Sovietica, mentre la Gran Bretagna si avviava ad un rapido, inevitabile declino.
Gli errori, le ingiustizie, i misfatti che accompagnarono anche la fine del conflitto furono tali, che a settant’anni di distanza dobbiamo ancora rendere grazie al cielo che non sia occorsa un’alta guerra per correggerli. Gli uomini che combatterono e morirono per la libertà dell’Europa dal nazismo hanno avuto la loro vera ricompensa solo due generazioni più tardi, con il crollo di un regime altrettanto infame, il comunismo sovietico.