Aggiornato al 16/09/2024

Non sono d’accordo con quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo

Voltaire

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Bogianén in Sardegna (2)

di Annalisa Rabagliati

 

Pochi giorni ancora di vacanza per la nostra coppia: una puntata a Santa Maria Navarrese e una gita all’altopiano del Golgo di Baunei con amici Bogianén rimasti lì e poi via, con la superstrada, verso sud. Breve sosta a Chia, dove, dall’alto della sua torre sul mare, presidio un tempo contro i pirati, si possono ammirare splendide spiagge di finissima sabbia e l’acqua azzurro intenso chiazzato di turchese. Un po’ di invidia per i fortunati che sostano nella cala con i loro piccoli yacht, che magari chiamano modestamente “barca”, e via, verso Sant’Antioco, isoletta collegata alla Sardegna da un ponte, dove mio marito ha prenotato un paio di notti in un albergo gestito dal Museo Marittimo cui è adiacente.

Sant’Antioco è una cittadina interessante: risale all’epoca nuragica, è stata ampliata dai Fenici e dai Cartaginesi, per poi diventare romana. Ai primi secoli dopo Cristo risalgono le catacombe cristiane sorte su ipogei punici. 

Nonostante il gran caldo e l’ora tarda del pomeriggio ci armiamo di piantina e andiamo alla ricerca di questi ruderi visitabili. Non riusciamo subito a localizzarli e chiediamo informazioni a una passante. La signora, una donna moderna che si rivelerà molto colta, si offre addirittura di accompagnarci!                                         

Mentre camminiamo verso i siti, ormai in orario di chiusura, ci fornisce molte informazioni storiche e artistiche, tanto che le chiedo se sia un’insegnante o un’archeologa, ma lei rivela di essere una farmacista: la passione con cui ci ha spiegato molte cose la fa annoverare tra i personaggi un po’ speciali che abbiamo incontrato in Sardegna. È vero che il nostro giro è stato così lungo da permetterle di arrivare fino a casa sua, ma ci ha risparmiato delusioni e ci ha elargito consigli: ad esempio, avendo poco tempo a disposizione, si può evitare di visitare la cattedrale, dalla facciata tardo barocca, secondo molti rimaneggiata in modo assurdo durante gli anni sessanta, meglio andare a vedere quella gemella a Tratalias, che invece è romanica e originale.

Non si può andare in Sardegna e non farsi un bagno nel suo mare pulito: il tempo atmosferico non è stato molto favorevole, ma una sosta a Cala Liberotto, vicino a Orosei, è stata possibile e qui, a Sant’Antioco, possiamo cercare di conoscere alcune delle sue numerose spiagge. Secondo il dépliant illustrativo le spiagge sono sabbiose sulla costa est, che guarda l’isola madre, mentre a ovest, verso il mare aperto, sono più rocciose.

Facciamo un giro con l’auto e sostiamo in qualcuna: quella ritenuta la più bella, dove c’è ancora poca gente perché il tempo non sembra buono, la caletta nascosta dove non c’è quasi nessuno, la spiaggia di rocce piatte dove non c’è un filo d’ombra, ma riusciamo finalmente a bagnarci, quella con gli ombrelloni, dove c’è ombra (a pagamento), ma ci sono troppe persone, anche perché si trova adiacente a un campeggio. Insomma, una giornata e mezza al mare su otto giorni! Pazienza, meglio che niente. La prossima volta ci fermeremo un po’ di più e cercheremo di trovare quelle belle spiaggette che ti fanno sentire davvero a contatto con la natura.

Andiamo a Tratalias dopo la nostra partenza da Sant’Antioco, facendo una piccola deviazione prima di dirigerci verso Olbia per l’imbarco. Abbiamo fatto bene a fidarci del consiglio della farmacista perché qui troviamo la cattedrale romanica del XIII secolo perfettamente conservata. Da quando il Sulcis, la zona in cui sorge il paese, fu conquistato dagli Aragonesi, nel Trecento, la Cattedrale è dedicata a Santa Maria del Monserrato. 

All’interno vi è la solita atmosfera di raccoglimento tipica delle chiese romaniche, pur essendo questa molto grande e luminosa. Vi si ammira un trittico della fine del Cinquecento dedicato a San Giovanni Battista e a San Giovanni Evangelista, oltre che alla Madonna e in alto, sulla parete dell’ingresso opposta all’altare, qualcosa che non avevo mai visto prima: la scala Mariana, cioè una serie di gradini infissi nel muro all’altezza del rosone, che prosegue all’esterno e formerebbe una scala santa per raggiungere il cielo.

La Cattedrale, mi dice la guida, viene aperta per celebrazioni solo una volta all’anno, all’Ascensione. Il borgo di Tratalias vecchio, che durante il Medio Evo aveva una grande rilevanza commerciale, è infatti disabitato ed è stato soppiantato da un paese di edifici più recenti, dopo la costruzione, negli anni Trenta, della diga di Monte Pranu, che ha dato problemi di stabilità alle case antiche del borgo vecchio. Questo è ora diventato un museo etnografico e noi visitiamo la casa che ospita interessanti fotografie della popolazione scattate negli anni dell’abbandono.

Il nostro viaggio in Sardegna questa volta è stato breve, ma ci ha concesso di conoscere aspetti che normalmente durante una vacanza marina sfuggono. Ti ho detto di aver incontrato nell’isola diverse persone speciali. La conoscenza di Chiara, una signora ultrasessantenne, è stato un momento emozionante. Tra tanti è il personaggio che mi ha colpita di più.

Ho saputo della sua esistenza grazie a un documentario di Geo, ma non avrei mai pensato di vederla di persona. Invece, mentre ero all’agriturismo in Baronia, ho sentito il titolare parlare con altri ospiti di questa donna che si fregia del titolo di ultimo maestro di bisso, così, dovendo andare a Sant’Antioco, dove lei vive, gli ho chiesto se e come potessi conoscerla. Michele mi ha fornito alcune spiegazioni e l’assicurazione che nel caso non la trovassi, ci avrebbe messe in contatto lui.

In realtà non è stato necessario, perché il laboratorio di Chiara è segnato sulla mappa dei luoghi da visitare a Sant’Antioco e c’è perfino il numero di telefono. Però al telefono lei non sempre risponde e dalla cartina non si capiva bene dove fosse di preciso. Così, alla maniera antica, abbiamo chiesto a qualcuno del posto e siamo arrivati al suo laboratorio.

Sulla porta di vetro una scritta che invita a non avere fretta. Chissà perché? Suono e ci viene fatto segno di entrare, ma io sono un po’intimidita, e, probabilmente, lo è anche mio marito, che, comunque, lascia che sia io a condurre la conversazione. La nostra sensazione è quella di fare un’intrusione nella vita privata di una persona, che, in effetti, sta conversando con un’amica, alla presenza di una bimbetta che non smette di provare a ricamare.

Anche Chiara ha imparato da piccola il suo lavoro, che, anzi, non è un lavoro, ma una missione che lei compie dopo aver giurato a sua nonna, che le ha insegnato l’arte, di non chiedere denaro per la sua opera, perché i doni del mare sono di tutti. Noi due stiamo ad ascoltare in silenzio senza sapere che succederà, ma davvero non bisogna avere fretta. Dopo un certo tempo che a me pare eterno, anche perché penso al mio lui che si trova qui solo per seguire i miei desideri, interloquisco con Chiara, approvando alcune idee che espone e aggiungendo qualcosa di mio, che mi trovo ad avere lo stesso parere. Lei ci pone allora alcune domande, che sortiscono l’effetto di farci riconoscere come persone davvero interessate e non piombate lì senza motivo. 

Ora Chiara sa che noi siamo informati della sua arte e che vogliamo saperne di più. Le viene un sorriso sul volto mentre lavora per creare un filo di bisso e, nel contempo, ci spiega in che cosa consiste il procedimento. Cercando su youtube i filmati dedicati a Chiara, o leggendo su siti specifici, forse si possono ottenere le stesse informazioni sulla filatura del bisso, ma un conto è assumerle via web, un altro è assistere di persona e partecipare a questa specie di seduta di magia e conoscere nel suo laboratorio un personaggio che è sicuramente unico.

Ma tu, lo sai che cos'è il bisso? Si tratta di un filato prezioso che veniva usato un tempo per confezionare ricami per indumenti o paramenti sacri o anche stemmi o altri oggetti raffinati per fruitori ricchissimi.
Il bisso si ottiene dalla Pinna Nobilis, una specie di cozza gigante del Mediterraneo (può arrivare a un metro di lunghezza), che però è in via di estinzione. Il filato si ricava da quella specie di peluria o “barba” con cui le cozze si attaccano a una superficie rocciosa. Il nome di questa “barba” è proprio bisso.

Fin da bambina Chiara ha imparato ad immergersi in mare in profondità per cercare la Pinna e, siccome vuole salvaguardare l’ambiente, ha inventato un sistema per raccogliere la “barba” senza sacrificare il mollusco: ne taglia solo una parte e ottiene il prodotto grezzo che poi con maestria farà diventare un filo sottilissimo. Il materiale appena raccolto deve essere dissalato, tenendolo a bagno in acqua dolce e sostanze naturali e l’acqua va cambiata ogni tre ore. Lei da sempre si alza anche alle tre di notte per farlo e per pregare.

Per mostrarci come nasce il filo Chiara usa un ciuffo di questa “barba” di Pinna Nobilis che ha tratto da un astuccio dove è conservato da decenni. Inizia la lavorazione cardandolo per togliere le impurità e lo fa con uno spazzolino fatto di spilli, anziché di setole, che si è preparata apposta. Il materiale grezzo già pesava pochissimo, ma Chiara mi chiede di porgerle la mano e di chiudere gli occhi: quando li riapro mi trovo in mano un batuffolo impalpabile, talmente leggero da non sentirne la presenza.  Chiara continua con la torsione del pelo di questa bambagia, una torsione prima ad esse, poi a zeta, che lei pratica con un fuso speciale che si è fatta modellare sulla base di antichi disegni ed è da quella torsione che nasce il filo.

Ma per giungere a questo a un certo punto assistiamo a una sorta di rito magico, che, sulle prime, non so come considerare: mi pare quasi che sia una specie di coreografia per affascinare lo spettatore. Il maestro di bisso smette di parlarci e si concentra nell’intonare un canto dell’acqua ebraico, una preghiera, cui fa seguire preghiere e inni sardi e anche una nenia rituale, con versi primordiali che a me ricordano molto il canto dello sciamano che ascoltai in Lapponia e che avevo associato a quelli dei nativi americani.

Davvero certe pratiche ancestrali sono simili a tutte le latitudini! Che importa sapere se i canti siano solo un orpello folcloristico o siano invece necessari per il compimento della trasformazione?  Penso alla grande opera di mantenimento delle tradizioni che compie questa donna e vengo coinvolta emotivamente dalla sua spiccata personalità. La lavorazione del bisso ha 7000 anni di storia: fu inventata dai Fenici, viene descritta da geroglifici egizi e se ne parla nella Bibbia. Il procedimento che Chiara adotta su insegnamenti della nonna è stato tramandato a lei da trenta generazioni di maestri di bisso.

Quando il procedimento è finito Chiara mi dona il filo ottenuto. Dalla “barba” marrone e ruvida è nato un filo sottilissimo, dorato e liscio, grazie ai prodotti naturali usati, che sono il segreto del maestro. Non è un filo molto lungo, ma è prezioso: ci vogliono cento immersioni in mare per ottenere circa trecento grammi di grezzo, che diventano 30 grammi di bambagia con cui si fanno 14 metri di filo sottilissimo che serviranno per realizzare un ricamo al telaio lavorandoci 5 anni! Anche perché al telaio lei lavora soprattutto con le unghie. E proprio con le sue mani ha tessuto ricami che ha donato a importanti personaggi pubblici, ma anche stendardi di città, alcune delle quali in provincia di Torino.

Chiara incarta il filo per me e disegna sulla carta un uccello stilizzato, una pavoncella, tipico motivo sardo, che a me ricorda la colomba di Picasso. Ci saluta con calore e si fa fotografare con noi. E io ho capito che la vita del maestro di bisso è una vita di sacrificio, di fatica, che solo una donna dal carattere forte può sostenere e mi auguro che lei possa tramandare quest’arte antica e che trovi una persona giovane cui lasciare il testimone, anzi il fuso. 

 

Inserito il:10/08/2024 16:55:52
Ultimo aggiornamento:11/08/2024 09:39:09
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