Aggiornato al 21/12/2024

Non sono d’accordo con quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo

Voltaire

Disegno sulla diatriba arancino-arancina

 

Vana contesa sul sesso dell’arancina

di Mara Antonaccio

 

Nel paragrafo precedente ho riportato la descrizione che Camilleri fa della cucina siciliana nel: "Il campo del vasaio", ma in realtà in tutti i suoi romanzi egli cita il cibo. E a proposito di Sicilia, di Camilleri e di cibo tipico, credo sia questa la sede adatta a parlare di una annosa questione: il sesso degli arancini! Proprio così, non quello degli angeli, che ha interessato per secoli gli Studiosi, ma quello delle dorate pietanze, regine dello street food. Allora vogliamo parlare dei famosi “arancini o arancine”? Perché qui si tratta di stabilire con precisione se siano masculi o fimmine. Lo scrittore intitola proprio con i soggetti della discussione un suo racconto: “Gli arancini di Montalbano”, prendendo quindi posizione sul sesso della caratteristica preparazione a base di riso e decidendo che sono maschi.

A proposito della diatriba, mi è venuta in mente la bella e per nulla scontata trattazione che uno scrittore siciliano dei nostri tempi, nonché mio caro amico, Maurizio Merlo, fa delle motivazioni per cui questo tipico piatto, principe del tradizionale cibo da strada siciliano, le “arancine”, siano femmine e quindi non “arancini”, come invece scrive Camilleri.

Ma prima di entrare nel vivo della disputa e di riportare le tesi dell’uno e dell’altro, nel tentativo certamente vano di accreditarne una, vorrei fare un po’ di chiarezza sulle origini di questo celeberrimo piatto, che pare risalga addirittura al Medioevo.

Sembra infatti che Federico II di Svevia, allora signore della Sicilia, fosse goloso di riso e che lo facesse arrivare dall’Oriente attraverso lunghissimi viaggi, e poiché il suo regno fu successivo a quello della dominazione araba, ereditò quello che l’occupazione moresca dell’Isola aveva aggiunto alla dieta mediterranea della regione: zucchero, melanzane, zafferano e pistacchi, oltre all’uso del mangiare di strada, ritroviamo nella cucina siciliana tutti questi ingredienti, sapientemente integrati. E proprio in quel periodo, forse per soddisfare l’amore di Federico per l’esotico cereale, qualcuno dei suoi cuochi unì idealmente i tre imperi, Normanno, Arabo e Cinese, mettendo insieme in un piatto i tre ingredienti: riso, zafferano e ragù, e da questa intuizione nacque l’arancina o l’arancino (non abbiamo ancora deciso chi abbia ragione). In Sicilia si trovano molte versioni sui natali del piatto e parlarne scatena faide e campanilismi, il problema è che i Siciliani non si mettono d’accordo non solo sul nome, ma anche sulla forma, a punta o arrotondata, e sugli ingredienti.

Riporto qui di seguito la ricetta di come si prepara un arancino che Camilleri fa eseguire ad Adelina, ne: “Gli arancini di Montalbano”, appunto.

<<Adelina ci metteva due jornate sane sane a pripararli. Ne sapeva, a memoria, la ricetta. Il giorno avanti si fa un aggrassato di vitellone e di maiale in parti uguali che deve còciri a foco lentissimo per ore e ore con cipolla, pummadoro, sedano, prezzemolo e basilico. Il giorno appresso si pripara un risotto, quello che chiamano alla milanìsa, (senza zaffirano, pi carità!), lo si versa sopra a una tavola, ci si impastano le ova e lo si fa rifriddàre. Intanto si còcino i pisellini, si fa una besciamella, si riducono a pezzettini ‘na poco di fette di salame e si fa tutta una composta con la carne aggrassata, triturata a mano con la mezzaluna (nenti frullatore, pi carità di Dio!). Il suco della carne s’ammisca col risotto. A questo punto si piglia tanticchia di risotto, s’assistema nel palmo d’una mano fatta a conca, ci si mette dentro quanto un cucchiaio di composta e si copre con dell’altro riso a formare una bella palla. Ogni palla la si fa rotolare nella farina, poi si passa nel bianco d’ovo e nel pane grattato. Doppo, tutti gli arancini s’infilano in una padeddra d’oglio bollente e si fanno friggere fino a quando pigliano un colore d’oro vecchio. Si lasciano scolare sulla carta. E alla fine, ringraziannu u Signiruzzu, si mangiano.>>

Per essere fedele a quanto scritto in introduzione, Camilleri si allontana dalla ricetta Federiciana, perché non fa usare ad Adelina lo zafferano, lasciato in eredità dalle contaminazioni arabe, che è uno degli ingredienti fondamentali dell’arancino; con il pepe esso rappresenta il contributo della cultura mediorientale alla cucina isolana. La salsa colla (chiamata besciamella dai Francesi) serve a tenere insieme il riso quand’è freddo; la signora Adelina usa invece un albume a questo scopo. Per quel che riguarda la carne, la ricetta antica la prevedeva mista di pecora e maiale, perché la preparazione degli arancini si faceva tradizionalmente per la festa di Santa Lucia, il 13 dicembre, quando con i primi freddi, il maiale veniva macellato. Il pomodoro è sicuramente una aggiunta di secoli dopo, poiché nel periodo Federiciano non era ancora stato importato dalle Americhe; probabilmente all’epoca era sostituito da una salsa bianca, fatta con carne e pistacchio. Per quanto concerne il formaggio Ragusano, sostituiva la carne nei periodi caldi, per aumentarne la conservabilità. Per equità di esposizione, per permettere ai lettori di farsi un’opinione propria e per aiutarli a decidere, riporto qui di seguito ampi stralci del brano in cui lo scrittore Maurizio Merlo perora la sua causa, volta a stabilire la sua convinzione sul sesso delle arancine, e racconta il suo ritorno a Palermo e il suo pellegrinaggio nei luoghi in cui mangiare i cibi che adora, in primis proprio le “arancine”.

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Da “L’età del limo”: “10 giorni a Palermo”.

L’Audacia dell’isola

«Ho un appetito diverso, sento l’audacia dell’isola (…).

Mi abbandono così (...) a pensieri che mi conducono lontano, lontanissimo nel tempo, con la memoria alla gioventù, agli anni dei primi amori siciliani, al cuore tiepido, generoso e femmineo di un’arancina, un piacere non distante per intensità e commozione alla mia relazione con i seni della giovanissima Zaira.

Sto viaggiando con la mente, mi succede a volte, improvvisamente: è come se perdessi per un momento indefinito i sensi ma non è uno svenimento, forse soltanto un abbandono. Mollati tutti gli ormeggi, sogno libero (...) l’arancina, … Zaira, e mi assale improvviso un senso di poesia e di appartenenza.

L’arancina fimmina è!

Una voce ferma e perentoria mi sussurra: “L’arancina fimmina è!”.

E insiste come un’eco.

(...). Parto da una domanda che rivolgo a me stesso: “Esistono motivazioni serie e verificate che possano indurci a sostenere che l’arancina sia di genere femminile? Insomma possiamo seriamente stabilire se è vero o no che l’arancina fimmina è?”.

(...) “Si! L’arancina fimmina è e vi spiego anche il perché, sgombrando il campo da questo falso dibattito che qualcuno ha voluto alimentare, non so quanto in buona fede. E il sospetto c’è: io penso che “fu” qualche bastian contrario, qualche rivale municipale, invidioso della natalità della splendida creatura”.

Procediamo con ordine a ricostruire le tre verità della purezza femminea dell’arancina, tre verità che così si presentano da tempo immemorabile: la prova della nascita, la prova della gioia, detta anche della “relazione”, la prova linguistica ed epistemologica.

In primis, la prova della nascita.

L’”arancina è fimmina” perché nacque in Palermo, creata da cuochi palermitani che attestarono il sesso dopo averla voluta realizzare in scienza e conoscenza; cuochi dotati di storia e tradizione, nonché muniti di antica esperienza e che per nobile autodeterminazione scelsero di denominare la prelibatezza precisamente “arancina”, come fu poi trasmesso con letizia di nunciazione ai posteri. Chi, meglio di loro, poteva aver contezza dunque, e fin dalle origini, fin dal parto potremmo dire, tramandando l’arte di padre in figlio? L’arte peraltro non è pervenuta per via orale ma certificata per tramite di documenti addirittura muniti di data certa ufficiale e archiviati e ben conservati, documenti che appunto attestano il fatto che la loro creatura “fimmina nacque”.

In secundis, la prova della gioia o più propriamente della “relazione”.

Chi ha avuto la fortuna di assaggiare l’arancina palermitana, in Palermo, avrà sicuramente apprezzato quanto il prodotto tipico di terra di Sicilia sia squisito al palato e ricco di nutrimento; ne deriva in modo logico e diretto come questo apprezzamento di qualità non possa non condurre che alla più che evidente e solenne conclusione: l’arancina materializza un evento creativo che ha sempre prodotto, dai tempi dei tempi, “relazione”: esplosione di gioia ed energia, momento di passione indimenticabile, evento amato e apprezzato da tante e tante generazioni di nobile stirpe e di popolo appassionato.

Vi prego di non sorridere, il discorso è serio. La narrazione di questa genesi ha più di una qualche pretesa di storicità, non è solo narrazione bensì “Storia” mai confutata in sede storiografica.

L’”arancina” è “relazione in sé” come tutte le forme sublimi di “relazione” vissute tra gli uomini e nelle loro comunità, e la mente va agli eventi più nobili: la procreazione, l’amore, il nutrimento della prole, l’amicizia, il nobile impegno politico per la Civitas, l’onesto lavoro.

In tertiis, la prova linguistica ed epistemologica.

Da quanto premesso deriva un assioma di cristallina logicità e trasparenza: l’arancina è relazione! Ne è prova il godimento nobile che essa sa donare al genere umano; chi potrebbe negare infatti che la relazione anch’essa “fimmina è”, e non solo perché si declina rigorosamente al femminile, ma perché manifestazione così materna e inclusiva nelle sue prerogative di natura, fattrice d’incontri e nuovi germogli d’esistenza; ne consegue, per relationem, in modo chiaro ed evidente e, se non bastasse, empiricamente dimostrato, che anche l’”arancina fimmina è!”.

Mi si scuserà la trattazione sintetica (...) ma (...) l’unica vera questione al secolo è la seguente: se qualcuno è interessato ad assaggiare il cosiddetto arancino, quello “masculo”, lo faccia pure ma abbia sufficiente decoro e rispetto di non far confusione con l’altro prodotto, quello nobile di cui abbiamo l’onore di decantare le qualità. D’altronde la diatriba, che mal e irragionevolmente fu posta, è di facile soluzione: si mettano a confronto il modesto sottoprodotto al maschile e la sublime femminea raffinatezza del prodotto originale; tutto andrà a posto repentinamente: l’arancina, e concludo, possiamo definirla una delle più alte forme di “relazione con il creato”, ed entrambe, “arancina” e “relazione”, si sillabano al femminile. Affermare il contrario è d’altronde infedeltà a un credo che offende l’onore dei Siciliani tutti. Non si tradisce una storia antica per mero gusto di polemica contro la capitale. In ogni caso, non può esservi dubbio alcuno, i Siciliani sanno, al di là di ogni polemica pretestuosa, che “a fimmina è fimmina e u masculu è masculu” e nel cuore profondo sanno dunque a quale genere l’arancina appartiene».

Insomma avete le idee più chiare? Sentite le due tesi a sostegno dei due diversi modi di dire, avete preso posizione? Si dice arancina o arancino?

Ha ragione Maurizio Merlo o Andrea Camilleri?

Si dice arancina nella Sicilia Occidentale: Palermo, Agrigento e buona parte della provincia di Messina, anzi le chiamano al plurale, arancine. Trapani si è schierata, fa finta di usare entrambi i termini, ma anche qui l’arancina “fimmina é”. Qualcuno si è lanciato a dire che la tipica preparazione a base di riso dovrebbe essere chiamata al femminile perché il nome deriverebbe dall’arancia, che è tonda ed è nome di genere femminile, ma non è questa la prova probante.

Si dice arancino nella Sicilia Orientale, qui al plurale diventano arancini.

I puristi della lingua siciliana di questa parte dell’Isola, sostengono che in dialetto non esiste declinazione femminile dell’arancia, detto appunto arànciu: ergo, secondo questa spiegazione linguistica, l’arancino masculo è!

Sicuramente Maurizio Merlo avrebbe da eccepire che: “l’arancia con l’arancino nun ci trasi nenti!” e aggiungerebbe: “come mai l’amato Maestro Camilleri, nato e formato a Girgenti, con secolare casa di famiglia in quelle contrade, decide di chiamare “arancini” quel prodotto che da sempre “arancina è”, nel rispetto della migliore tradizione arabo-normanna?”.

Conosco anche il non detto pubblicamente, e il non scritto di Maurizio, credo lui ritenga che il Maestro abbia voluto usare a scopo di marketing il genere di appartenenza della prelibatezza culinaria, facendo nascere un pandemonio pan-siculo/sicano sulla purezza del termine, pur di aiutare l’iniziale affermazione del Commissario Montalbano. E direbbe Maurizio: “e comu c’arrinisciu!”. Conosco anche il suo disappunto sul fatto che il Maestro abbia investito tutto il suo potere carismatico di uomo di lettere e di cultura, per dare forza alla scelta fatta e che oggi sfidare a singolar tenzone Andrea Camilleri, certo popolare non è.

Lui concluderebbe: “Se dobbiamo babbiare, babbiamo ma la Storia incontrovertibile è! Voi comunque fatevi giudici della tenzone e assaggiate l’arancina e l’arancino, capirete e di certo vi schiererete. Ma in ogni caso, storicamente Federico II e la sua Scuola di cultura, arte e cucina, che dal ‘200 ha irradiata il suo sapere in tutto il Mare Nostro, conta, macari macari qualcosa in più in Sicilia, della sua donna Adelina e dello stesso Maestro Camilleri? O iucannu icuannu cu sta storia dell’arancino manco chistu è veru?”.

Insomma si tratta di liti amorose sul cibo, che molto dicono dell’amore per una Terra e per una Storia.

La diatriba non è certo finita. E se non bastasse, ci si mette anche la discussione sulla forma che questa pietanza deve avere: chi la chiama arancina, la vuole tonda, chi lo chiama arancino, lo vuole a forma conica, come un fumante vulcano.

Certo non è questa una sede arbitrale e mi astengo dunque dallo schierarmi, anche per ragioni editoriali. Le tesi avverse, d’altronde, pur animose e campanilistiche, sono fin troppo chiare ed esplicite.

 

Inserito il:07/12/2018 19:38:25
Ultimo aggiornamento:07/12/2018 19:49:40
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