Galekov - The battle for Volgograd - (1964 Gift to the Lord Mayor of Coventry from the City of Volgograd)
Seconda guerra mondiale. Le grandi giornate - Stalingrado
di Mauro Lanzi
4. Stalingrado, l’ultima battaglia
Zukov, posto a capo da Stalin della difesa della città in quel fatidico agosto 1942, ha bisogno di prendere tempo per raccogliere le forze necessarie al contrattacco: intelligentemente evita di gettarsi a testa bassa nella città che sarebbe potuta divenire una trappola mortale per i suoi uomini; fa quindi affluire rinforzi, ma per preparare manovre di più ampio respiro.
D’altro canto anche la situazione dei tedeschi non è più ottimale, tende anzi a peggiorare: il restringersi del fronte non consente più l’alternarsi di colpi portati di sorpresa su settori diversi che era stato uno degli elementi determinanti nei successi dei mesi passati. Ormai si combatteva casa per casa, strada per strada, in un succedersi di scontri esiziale per le forze tedesche, che subiscono un logorio costante: di questo si era reso ben conto il capo di stato maggiore Halder, che paventava un inutile e dispendioso protrarsi di questi combattimenti. Né Halder però, né il suo successore (Halder, disperato si era dimesso) riuscirono a vincere l’ostinazione di Hitler, per il quale la conquista di Stalingrado era divenuta una ossessione vera e propria, inducendolo a rifiutare ogni ipotesi di ripiegamento.
In una guerra di logoramento finisce per prevalere chi ha più risorse: l’esercito russo, malgrado le durissime perdite subite, poteva attingere a riserve di uomini pressoché inesauribili. Il punto debole erano gli equipaggiamenti, dato che le perdite in artiglieria, carri armati e mezzi di trasporto erano stati ingentissime; nell’estate del’42, però, erano entrati in attività i nuovi stabilimenti costruiti in zone più arretrate rispetto al fronte, proprio negli Urali, mentre anche il flusso delle forniture dagli alleati occidentali era cresciuto in misura sensibile. Stalingrado si trovava, da questo punto di vista, in una posizione privilegiata, perché facilmente raggiungibile dagli Urali e aperta ai rinforzi di reclute provenienti dalle regioni asiatiche.
Agli inizi dell’autunno, questi rinforzi non erano ancora pronti, i generali russi avevano bisogno di tempo; spronato allora dagli incitamenti di Hitler, Von Paulus sferra tre grandi attacchi consecutivi il 13 settembre, il 14 ottobre, l’11 novembre, contrastati dalla disperata resistenza della 62° armata del generale Cuikov: si scrivono, da entrambe le parti, pagine di autentico eroismo; i russi, inferiori come mezzi, lanciano disperate incursioni notturne con colonne armate di sole armi automatiche e lanciagranate, tendono imboscate, si arroccano in caseggiati e fabbriche abbandonate, infliggono e subiscono durissime perdite. Ai soldati si uniscono spesso dei civili, inquadrati in unità di combattimento, che si rendono protagoniste di episodi divenuti leggendari, nella propaganda sovietica.
Malgrado ciò, a metà ottobre, la situazione per i russi era realmente drammatica poiché i tedeschi avevano riconquistato ancora una volta la Mamaev Kurgan (collina che domina Stalingrado) e alcuni capisaldi famosi come la "casa a forma di L", la "casa dei ferrovieri" e la "casa degli specialisti", mettendo in difficoltà la 13ª Divisione di Rodimcev; ma queste solide truppe d'assalto, non scoraggiate, continuano a battersi nel centro cittadino, spalle al Volga, contrattaccando e riconquistando una parte del terreno perduto. Il 14 ottobre i tedeschi vengono arginati dalla Divisione Guardie, giunta in extremis di rinforzo agli assediati.
Paulus dà prova in queste circostanze di grande abilità tattica, malgrado fosse giunto lui stesso allo stremo delle sue risorse fisiche; dopo ogni battuta d’arresto riesce a riorganizzare le sue truppe, rianimarle, riportale in avanti. L’11 novembre, l’ultimo attacco sembra portare i tedeschi vicino alla vittoria: le truppe di Cuikov, chiuse in tre sacche a ridosso del Volga, sono vicine al collasso, quando, il 19 novembre, giunge a Von l’ordine di arrestare l’offensiva e ritirare le forze mobili; era partita l’operazione Urano, l’inerzia delle operazioni militari si era improvvisamente rovesciata.
Il punto debole dello schieramento tedesco era, da sempre, la copertura sui fianchi, assicurata lungo il fiume Don ormai quasi esclusivamente dalle truppe alleate, visto che quasi tutti i contingenti tedeschi erano stati richiamati ad alimentare l’offensiva su Stalingrado: si trattava di un fronte lunghissimo che si estendeva per 600 km averso nord e quasi altrettanti a sud di Stalingrado. Il primo tratto da Voronetz era coperto dagli ungheresi; poi subentravano gli italiani, nella zona in cui il fiume piega ad est, cioè nei pressi di Novaja Kalitva; infine nei pressi di Stalingrado e verso sud la difesa toccava ai rumeni.
Vale la pena menzionare le condizioni in cui si trovavano a combattere gli italiani dell’VIII Armata, detta anche ARMIR: l’inferiorità in materia di armamento era eclatante, i mezzi corazzati italiani scomparivano a fronte dei mezzi tedeschi e russi, l’artiglieria era obsoleta ed insufficiente, l’armamento individuale antiquato, molti ufficiali avevano acquistato a proprie spese (!!) il mitra Beretta che non era in dotazione alle truppe. Anche l’equipaggiamento, scarpe e divise era assolutamente inadeguato per l’inverno russo; gli alti comandi non si erano neppure preoccupati di provvedere all’antigelo per i radiatori dei camion; l’ingegno italico aveva trovato una soluzione, mettevano del gasolio nel circuito di raffreddamento!!
In generale, tutto l’impianto difensivo era inadeguato, non solo quello degli italiani; le linee difensive erano molto esili, vista l’estensione, prive di fortificazioni degne di questo nome; mancavano bunker, trincee, fossati anticarro, campi minati. In queste condizioni, i difensori potevano anche tenere in estate, quando il fiume costituiva un ostacolo naturale per gli attaccanti, ma diventavano estremamente vulnerabili nel momento in cui il fiume ghiacciato avesse consentito il transito ai carri armati russi. Hitler era stato più volte avvisato di questa criticità, ma, ipnotizzato dal miraggio della conquista di Stalingrado, si rifiutava di guardare in faccia alla realtà.
Il momento che attendeva Zukov era proprio questo, l’inverno: aveva preparato con estrema cura la sua manovra, guadagnando tempo pur nelle drammatiche vicende che si vivevano a Stalingrado (“A Stalingrado il tempo è sangue”): era però riuscito ad ammassare forze ingenti senza essere scoperto, cogliendo il nemico impreparato e logoro per il prolungato sforzo. L’operazione, nome in codice “Urano”, scatta, con perfetta scelta dei tempi il 19 ed il 20 Novembre: lo sfondamento iniziale avviene appena a nord e a sud di Stalingrado, nelle zone difese dai rumeni. Già il 23 Novembre la sesta armata di Paulus e parte della 4a armata sono rapidamente circondate dalle branche di una gigantesca tenaglia che si chiudono su Kalac.
I tedeschi sono colti di sorpresa, ritenevano che il nemico avesse forze appena sufficienti per una disperata difesa, non si aspettavano il possente attacco di Zukov; in soli tre giorni cambia tutto e l’accerchiamento di Stalingrado pone Hitler di fronte ad una difficile scelta, o ordinare una rapida ritirata, cercando di salvare il salvabile, cioè gli uomini, abbandonando gli equipaggiamenti (ed era questa la soluzione caldeggiata da Paulus e dai suoi collaboratori); oppure resistere sul posto, cercando di spezzare l’assedio con forze esterne. Va da sé che Hitler optò per la seconda soluzione, il 24 emanò un ordine tassativo (Führerbefehl) diretto a Von Paulus, cui veniva imposto di resistere, senza arretrare; la “fortezza Stalingrado” andava difesa ad ogni costo. Ancora una volta Hitler paventava le conseguenze di una ritirata precipitosa, temeva di scoprire il fianco alle armate del Caucaso. Era anche indotto all’ottimismo da quanto accaduto l’anno precedente intorno a Mosca, quando forze tedesche assediate in varie città erano riuscite a difendersi con successo, infliggendo gravi perdite al nemico; la sua determinazione era rinsaldata dalle fanfaronate Goering, che garantiva che la Luftwaffe avrebbe saputo rifornire adeguatamente gli assediati, come fatto in precedenza intorno a Mosca: solo che qui erano assediati 250000 uomini e la logistica era assai più complessa.
Von Paulus non poté che obbedire agli ordini del Führer e lo fece con la consueta perizia, trasformando rapidamente lo schieramento offensivo delle sue truppe in una solidissima cerchia difensiva, aiutato in questo anche dal morale dei soldati, che credevano ancora ciecamente nelle assicurazioni di Hitler.
I russi, che avevano sottovalutato la determinazione e la consistenza dei contingenti tedeschi, si trovano a loro volta in difficoltà; Stalin è costretto ad abbandonare gli ambiziosi obiettivi dell’operazione Urano, che mirava all’annientamento immediato della 6° armata; ordina di sospendere gli attacchi su Stalingrado e ripiega su di una mossa di minore portata, l’operazione “Piccolo Saturno”, che ha l’obiettivo di allargare la breccia nelle difese tedesche sul Don, rinsaldare l’accerchiamento di Stalingrado e contrastare così eventuali operazioni di soccorso.
Piccolo Saturno, purtroppo, prende di mira il settore difeso dagli italiani: il 16 Dicembre, attraversato il Don, le forze corazzate russe investono il XXXV Corpo di Armata italiano che, non disponendo neppure di artiglierie anticarro, dopo una disperata resistenza, viene sopraffatto e si ritira in disordine. Il corpo d’armata alpino, schierato più a nord, resiste ancora un mese; l’11 gennaio i russi lanciano un nuovo attacco, spezzando le line ungheresi; anche gli alpini, attaccati di fronte e sui fianchi, sono costretti ad una disastrosa ritirata: il 31 gennaio cessa ogni resistenza degli italiani in Russia.
L’operazione “Piccolo Saturno” si mostrò per i russi una decisione saggia e tempestiva: il 12 dicembre infatti era scattata l’operazione “Tempesta d’Inverno”, voluta da Hitler; era stata formata a tempo di record una “Armata del Don”, costituita raggruppando divisioni provenienti dalla Francia, con divisioni sottratte al centro degli schieramenti, posta al comando di uno dei migliori strateghi tedeschi, Von Manstein.
Manstein ha il compito di spezzare l’assedio di Stalingrado, per portare soccorso alla 6° armata; inizialmente si dimostra ottimista, riesce ad incunearsi tra le divisioni russe, le sue avanguardie giungono fino a 50 km dal perimetro esterno di Stalingrado, ma poi i tedeschi sono costretti ad arrestarsi di fronte alla tenace resistenza russa; purtroppo, malgrado le promesse, l’”Armata del Don” era stata dotata di risorse largamente insufficienti, anche perché Hitler si era rifiutato di distogliere forze dal fronte degli Urali. Bloccato Manstein, l’ultima speranza per la 6° armata era tentare una sortita, sottoponendo i russi ad un contemporaneo attacco su due fronti; Von Paulus esita, poi giunge il parere negativo di Hitler, infine, Manstein è costretto a ripiegare per difendere le linee di comunicazione minacciate dall’operazione “Piccolo Saturno”.
Siamo alle ultime battute del dramma: le sorti della 6° armata sono divenute ormai un elemento secondario, il 30 dicembre Hitler emana l’ordine di ritirata di tutte le armate degli Urali, che scampano per un soffio alla catastrofe.
Questa è la svolta decisiva che suggella il destino della 6ª Armata; ormai isolata, affamata a causa del sostanziale fallimento del rifornimento aereo, senza speranza di aiuto, è destinata a sacrificarsi in una disperata difesa fino all'ultimo per impegnare ancora il maggior numero di forze sovietiche e aiutare in questo modo l'alto comando tedesco a ristabilire un fronte più arretrato. Il generale Paulus, dopo aver eseguito disciplinatamente tutti gli ordini di Hitler (prima quello di rinchiudersi dentro la "Fortezza Stalingrado" e poi di non effettuare una disperata sortita solitaria), ora accetta anche questo ruolo finale di sacrificio; mantiene, almeno esteriormente e nei proclami finali alle truppe accerchiate, la fiducia in Hitler e nel risultato della lunga battaglia.
Le ripetute sollecitazioni di Stalin, indirizzate ai comandanti sovietici incaricati di distruggere le forze accerchiate, per accelerare al massimo questa operazione finale, confermerebbero la validità da un punto di vista di strategia militare (nonostante la cinica inumanità per le truppe ridotte allo stremo) della decisione di Hitler di evitare una resa prematura della 6ª Armata, che, continuando a resistere, ostacolava il dispiegamento delle forze sovietiche su altri fronti. Inutile risultò quindi la presentazione da parte dei comandi sovietici di un ultimatum, formalmente corretto, per invitare alla resa la 6ª Armata prima dell'attacco finale e per evitare un ulteriore spargimento di sangue.
La lotta finale, che si svolse dal 10 gennaio al 2 febbraio, venne condotta dalle due parti con particolare accanimento fino all'ultimo: i sovietici fecero uso in massa dell'artiglieria per distruggere i nuclei di resistenza delle truppe tedesche fortemente indebolite dal lungo assedio; le successive linee di arroccamento predisposte dai tedeschi per prolungare al massimo la resistenza venivano superate. Un sentimento di amara delusione si stava diffondendo peraltro ormai tra le truppe e anche nei comandi di fronte alle sempre maggiori difficoltà di vettovagliamento, al moltiplicarsi delle sofferenze, all'imperversare del clima invernale e alla consapevolezza di come fosse ormai impossibile ricevere aiuti dall'esterno
Con la perdita degli aerodromi si verificarono i primi episodi di panico collettivo e di dissoluzione dei reparti; nelle settimane precedenti per via aerea erano stati evacuati almeno 30 000 soldati tra feriti, specialisti e ufficiali superiori.
Poi ci fu il tracollo: la maggior parte dei soldati furono uccisi sul posto. Chi scampò alla morte si riversò assieme a feriti e sbandati verso le ultime rovine di Stalingrado dove si sviluppò l'estrema resistenza. Dopo la divisione in due parti della sacca e il congiungimento il 26 gennaio 1943 tra le forze sovietiche in avanzata da ovest e le truppe del generale Čujkov che tenevano ancora tenacemente la linea del Volga, ogni ulteriore resistenza risultò impossibile. Paulus, isolato nella sacca meridionale, venne catturato il 31 gennaio 1943 dalle truppe della 64ª Armata senza opporre ulteriore resistenza e senza una resa formale; gli ultimi nuclei tedeschi nella sacca settentrionale, nell'area delle grandi fabbriche, si arresero definitivamente il 2 febbraio 1943.
Pochi giorni prima della resa, Hitler aveva nominato Von Paulus Feldmaresciallo, con la segreta motivazione che nessun ufficiale tedesco di tale grado si mai arreso prima al nemico: era un implicito invito al suicidio, che Von Paulus ignorò.
A Stalingrado i russi fecero 90.000 soldati prigionieri; se si considera che a Stalingrado erano stati accerchiati più di 250.000 uomini, si hanno le dimensioni del massacro avvenuto tra le file tedesche.
Il 1942 segna la svolta nello svolgimento della guerra; già nell’estate, alle Midway, gli americani avevano spezzato la supremazia giapponese nel Pacifico. Il 6 Novembre aveva avuto inizio la ritirata da El Alamein, che doveva segnare la fine della campagna d’Africa.
Ma è Stalingrado che più di ogni altro evento segnala il capovolgersi delle sorti del conflitto: l’iniziativa era ormai passata nelle mani degli alleati, l’Asse era sulla difensiva, tutto quello che segue non sarà che una lunga agonia.
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Resta da aggiungere solo qualche parola circa la sorte dei soldati fatti prigionieri a Stalingrado; Von Paulus, fatto prigioniero se la cavò abbastanza bene, divenendo una voce critica del nazismo, invitando persino i soldati tedeschi alla resa; fu testimone di accusa al processo di Norimberga ed anche grazie a questo fu presto rilasciato; si stabilì a Dresda nella Germania dell’Est. Ben più triste fu la sorte dei suoi soldati, ne ritornarono in patria non più di 8000 dei 90000 fatti prigionieri.
Assai tristi furono anche le vicende dei soldati italiani: nelle offensive di dicembre e gennaio si erano registrate perdite di almeno 95000 uomini, tra morti e dispersi; altri 70000 furono i prigionieri dopo la resa, di questi 22000 morirono nelle marce di trasferimento, per il gelo, la fame e le percosse; in Italia ne ritorneranno solo 10,000.
Eppure a Mosca c’era un italiano che avrebbe potuto alleviare le loro sofferenze, il compagno ”Ercoli”, alias Palmiro Togliatti; questa fu la sua risposta alla lettera di un suo compagno di partito che sollecitava un suo intervento in favore dei nostri prigionieri.
Lettera di Togliatti 15 gennaio 1943
“L'altra questione sulla quale sono in disaccordo con te, è quella del trattamento dei prigionieri. Non sono per niente feroce, come tu sai. Sono umanitario quanto te, o quanto può esserlo una dama della Croce Rossa. La nostra posizione di principio rispetto agli eserciti che hanno invaso la Unione Sovietica, è stata definita da Stalin, e non vi è più niente da dire. Nella pratica, però, se un buon numero dei prigionieri morirà, in conseguenza delle dure condizioni di fatto, non ci trovo assolutamente niente da dire, anzi e ti spiego il perché. Non c'è dubbio che il popolo italiano è stato avvelenato dalla ideologia imperialista e brigantista del fascismo. Non nella stessa misura che il popolo tedesco, ma in misura considerevole. Il veleno è penetrato tra i contadini, tra gli operai, non parliamo della piccola borghesia e degli intellettuali. È penetrato nel popolo, insomma. Il fatto che per migliaia e migliaia di famiglie la guerra di Mussolini, e soprattutto la spedizione contro la Russia, si concludano con una tragedia, con un lutto personale, è il migliore, è il più efficace degli antidoti. Quanto più largamente penetrerà nel popolo la convinzione che aggressione contro altri Paesi significa rovina e morte per il proprio, significa rovina e morte per ogni cittadino individualmente preso, tanto meglio sarà per l'avvenire d'Italia”.
Lascio al lettore ogni considerazione e commento.
Vale solo la pena ricordare che questa lettera riesumata dagli archivi russi fu pubblicata nel 1992 su “Panorama”; probabilmente anche questa pubblicazione ostacolò in misura forse decisiva la candidatura di Nilde Jotti a Presidente della Repubblica.