Jean-Michel Basquiat (New York, 1960 -1988) - Profit (1982)
Olivetti. dalla centralità dell’Uomo alla centralità del Profitto. A partire dal 1960.
di Giacomo Ghidelli
Nel suo bell’articolo “Olivetti. Dalla centralità dell’Uomo alla centralità del Profitto?” Giuseppe Silmo mette in luce le diverse tappe attraverso cui l’azienda ha, per dir così, cambiato pelle.
Volendo contribuire alla delineazione di questo percorso, desidero qui mettere ulteriormente in rilievo alcuni aspetti: uno marginale, se vogliamo, e l’altro invece più sostanziale.
L’indebitamento originario
Subito dopo la morte di Adriano, viene nominato Presidente Giuseppe Pero, “l’uomo della lesina e del profitto”, come era definito. Ma, come annota Valerio Ochetto, con questa nomina «Pero subisce una repentina trasformazione. Diventa il propugnatore dello sviluppo a tutti i costi, quasi che ora voglia rivaleggiare con la grande ombra di Adriano (…) Lo scambio di ruoli sortisce effetti disastrosi”. Con Adriano la Olivetti aveva acquisito il 35% delle azioni Underwood, operazione di cui sembra – in base alle dichiarazioni di Renzo Zorzi – che all’inizio Adriano si fosse pentito. Ma già a gennaio aveva deciso cosa fare: proprio prima di prendere il treno su cui sarebbe stato colpito dalla trombosi cerebrale, aveva infatti indicato a Franco Ferrarotti l‘intervento che avrebbe ribaltato il cattivo acquisto: «Stia pronto per il 7 marzo, andremo insieme a Hartford. C’è un eccesso di lavorazioni, dovremo ridurle da diciotto a tre linee soltanto. Prenderemo dieci dei migliori ingegneri di Ivrea e li trasferiremo lì. Vedrà che nel giro di sei mesi tutto si metterà a posto». E questo anche perché la Underwood era stata sostanzialmente acquisita per sfruttarne la rete commerciale. Ebbene, quando Pero prende il comando, l’intervento sulla Underwood viene spinto all’eccesso “La Olivetti – annota Ochetto – rastrella e sottoscrive la maggioranza delle azioni della Underwood, espandendo oltre misura la rete commerciale e assorbendo le consociate estere della casa americana. Il settore elettronico (…) viene potenziato fondendolo con la Olivetti Bull sul piano commerciale, e puntando sulla produzione dei grandi calcolatori tipo Elea che costano da 500 a 800 milioni dell’epoca». Per attuare tutto ciò occorrono massicci investimenti, che però «portano ad accrescere oltre misura l’indebitamento degli azionisti. E la crisi, che potrebbe ancora essere dominata se esistesse una unità di indirizzo, scoppia alla morte di Pero».
Il tema dell’indebitamento degli azionisti sta quindi proprio nelle scelte che vengono compiute da Giuseppe Pero dopo la morte di Adriano: una precisazione forse non essenziale, ma importante per l’origine di tutto ciò che accadrà in seguito e che Silmo mette perfettamente in evidenza.
Il passaggio dalla “centralità dell’uomo alla centralità del profitto”
Qui siamo invece alla sostanza del ragionamento. Perché questo è un passaggio che a guardar bene non avviene, come sembra suggerire Silmo, con l’arrivo di De Benedetti. Io credo che questo passaggio avvenga in realtà con la morte di Adriano e con una scelta che stravolge il volto stesso dell’impresa: quella della messa in liquidazione del Movimento Comunità, avvenuta nel settembre del 1961. Con questa messa in liquidazione – come ho cercato di dimostrare nel volume “Comunicazione Olivetti: Dal mito alla storia” – ciò che cambia è la visione dell’impresa, vale a dire la sua identità. Il tema della costruzione della comunità era infatti il centro propulsivo di tutta l’azione di Adriano. Scriveva infatti: “Se vogliamo che esista un vero ordine sociale – l’ordine sociale della Comunità - bisogna trovare una sintesi ove umanità, etica, scienza, tecnica e arte (gli elementi costitutivi fondamentali della società) operino coordinatamente. Come dovremo trovare una sintesi tra agricoltura e industria, in modo da raggiungere un equilibrio complessivo, il solo capace di dare all’uomo la perduta armonia”.
Un compito complesso, che però aveva un motore straordinario: la fabbrica, la sua fabbrica, che assume l’obiettivo della costruzione della comunità come meta del proprio operare. Dice infatti Adriano: il profitto dell’impresa deve essere reinvestito per il benessere della comunità. Perché il fine dell’impresa non è semplicemente “nell’indice dei profitti” ma, sta nell’elevazione materiale, culturale, sociale dei luoghi in cui operiamo. Quindi sì al profitto ma no alla sua destinazione nelle tasche dei manager e degli azionisti o all’uso in speculazioni finanziarie. Sì al profitto ma sì anche a una finalità etica che lo guidi, unendo una pluralità di elementi, orientati al rispetto e alla valorizzazione delle persone.
Ora è chiaro che se togliamo all’agire dell’impresa Olivetti – con la messa in mora del concetto di comunità – la sua finalità etica, ciò che resta è, per l’appunto, il profitto. Che per altro verrà perseguito malamente negli anni successivi: sotto la guida di Visentini, a sua volta artefice ma anche strumento del “gruppo di intervento”, la Olivetti verrà portata quasi al fallimento, tanto da essere “venduta per poche lire” (come scrisse Giorgio Bocca a suo tempo) a De Benedetti.
La mancata evidenziazione di questo fatto è irta di conseguenze, perché porta a non capire la figura e il lavoro di Adriano Olivetti, che viene presentato, come lo stesso Visentini ha fatto più volte, come un ottimo imprenditore da un lato ma anche come un pervicace utopista dall’altro.
E nessun errore potrebbe essere più grave.