Katherine Berlin (Connecticut, USA – East Hampton, CT, 2012) – Childhood Memories
I ricordi che non muoiono mai
di Gianni Di Quattro
Ci sono questi ricordi, quelli che non muoiono mai, quelli che neanche le malattie più aggressive che intaccano il cervello e che sembra che si stiano diffondendo riescono a cancellare. Quali sono? Ma quelli dell’infanzia, della gioventù, delle speranze di vita, mentre tutto ciò che è accaduto dopo tende ad essere dimenticato, comunque a diradarsi, a coprirsi di una patina di nebbia che può distorcere o cancellare tutto.
I ricordi che non possono morire e che non dimentichiamo mai rappresentano dunque una magia, come per farci capire che quelli sono stati, almeno per tanti, gli anni più belli, più pieni della nostra vita. In altri termini, un segnale della natura, della buona natura che vuole, anche quando per qualsiasi motivo si dimentica tanto o tutto, farci ricordare il bello che abbiamo vissuto. Per rallegrarci, per ricordarci sempre che la vita a prescindere da tutto è valsa la pena averla vissuta e che comunque è stata piena di bellezza, di speranza, di sentimenti. Anche se per un periodo breve, però molto intenso.
Non si possono dimenticare i volti dei genitori e dei fratelli che hanno popolato e guidato la nostra infanzia, i primi approcci con la vita, come capirla, come studiare, come giocare, come avvertire cosa piace e cosa meno, come avere amici e conviverci. E poi i colori, le sensazioni che si cominciano a riconoscere, il mondo al di fuori della propria casa, al di fuori della propria cameretta e al di là del solito tutto.
E poi la pubertà quando si comincia a sognare sul futuro, quando si progetta quello che si sogna, quando si incontra l’amore e magari si fa fatica a riconoscerlo e se ne discute con gli amici per capire se anche loro.
Io ricordo la mia infanzia vissuta in un piccolo paese della costa Sud della Sicilia, un punto in cui l’isola è più vicina a Malta e alla Tunisia che a Roma. Il paese era piccolo, diciamo con circa tre mila anime, tutti si conoscevano, l’attività principale quasi unica era l’agricoltura, le serre e le coltivazioni estensive non c’erano ancora, come non c’era la televisione, il clima era straordinario tanto che era chiamato il paese del sole. Vicino al mare, non distante da Ragusa, che era il capoluogo di provincia, con sopra un cielo azzurro quasi sempre e soprattutto grande, con un orizzonte senza fine. Il colore prevalente era il bianco delle case con tante terrazze perché i tetti con quel clima servivano poco e poi comunque costavano. Già, perché il paese era povero, ma la gente dignitosa e solidale, desiderosa di amicizie e di comunità, partecipe a qualsiasi iniziativa religiosa o comunale pur di convivere con altri momenti della propria vita.
Noi ragazzi praticavamo giochi scimmiottando qualche personaggio di qualche album di fumetti o di qualche film che due volte alla settimana si dava all’unico cinema del paese, oppure facevamo giochi antichi tramandati da chi c’era prima di noi. Spesso andavamo al mare a piedi o con qualche carretto a passare il pomeriggio ed a giocare al pallone sulla sabbia lunga e larga oppure a guardare il mare. Perché il mare che non sta mai fermo anche quando sembra placido ci dava la sensazione del movimento, della vita, della speranza. Perché tutti speravamo anche se nessuno sapeva cosa e perché doveva sperare.
Eravamo felici, crescevamo, il paese era per noi un parco giochi, ogni gioco era un parto di fantasia, ogni volta dovevamo inventare e scambiarci le regole, le nostre famiglie ci volevano bene, mangiavamo verdure e pasta, sughi e frittate, latte e formaggi, carne una volta alla settimana ma non sempre, andavamo a scuola ed eravamo sempre attenti perché il maestro era severo, aveva sempre una bacchetta in mano che usava e faceva male.
Poi ai primi di luglio del 43 (il 10 per la precisione) abbiamo scoperto la guerra, l’invasione della settima armata americana, quella del generale Patton. Da qualche giorno ricordo che sentivamo rumori di aerei che sorvolavano la zona e i grandi che ci spiegavano che stavano lanciando i paracadutisti e ci dicevano che bisognava abbandonare il paese e rifugiarci in campagna. Così abbiamo fatto, tutto il paese o quasi lo ha fatto, un piccolo manipolo di fascisti in divisa scomparve e riapparve molti giorni dopo con i normali vestiti civili, un gruppo di tedeschi dislocato tra il paese e il mare fu poi massacrato dagli americani quando sbarcarono.
L’aspetto più impressionante è stato quella mattina vedere tutta la spiaggia e a destra e a sinistra piena di navi, sembrava che tutto il mare fosse pieno di navi e poi dopo un paio di cannonate dimostrative forse per dire che erano armati per davvero sono scesi con i camion e le camionette, i carri armati e altri mezzi che non avevamo mai visto, con i soldati che parlavano in siciliano come noi e che regalavano scatole di caramelle, saponette, casse di sigarette (mio nonno fumò per molti mesi Camel mai viste prima) grandi scatole di latta piene di una farina gialla. Dopo diversi anni la lettura de Gli zii di Sicilia di Leonardo Sciascia mi ha riportato magicamente nella atmosfera di quei giorni, confusa, allegra, curiosa, piena di ansia perché nessuno capiva dove questi stavano andando e cosa sarebbe successo.
Naturalmente l’armata, o meglio un pezzo dell’armata, passò per il paese e scomparve e tutto ritornò alla normalità, o meglio avrebbe potuto tornare alla normalità, ma non ci tornò più. Il paese era attaccato alle poche radio che c’erano per avere notizie e poi passarle con il passaparola, gli uomini non andavano in campagna per non lasciare le famiglie, molti, quasi tutti, a bighellonare nei bar della piazza a discutere di futuro e di preoccupazioni di quello che poteva capitare, chi diceva che si sarebbero insediati comandi militari, non si avevano notizie del Duce e del Re, strani personaggi intanto cominciavano a percorrere il paese spiegando che ci aspettava un grande futuro e che bastava aderire ai partiti che intanto si organizzavano.
E noi ragazzini continuavamo a giocare, a vederci come prima nei soliti posti, alle solite ore e a parlare. Ma anche per noi qualcosa era cambiato, non lo capivamo, non lo potevamo capire, lo vedevamo nelle facce dei grandi e un’ombra di tristezza si era impadronita di noi. Ancora oggi ripensando a quei momenti penso che tutti noi riviviamo le ansie e le paure di quei giorni, ci ricordiamo di cosa significa incertezza.
Ecco, tutto ciò non si dimentica, non si dimenticano i visi e i nomi degli amici con i quali si sono condivise giornate, episodi e pensieri, non si dimentica quel pezzo di vita che ci ha costruiti e che è rimasto dentro di noi per sempre.