Renato Guttuso (Bagheria, 1911 – Roma, 1987) – I Funerali di Togliatti (1972)
Quella fu vera gloria? Le (cosiddette) origini gloriose del PCI
di Tito Giraudo
In questi giorni d’agosto, nella stramba estate, libera uscita tra una pandemia e la prossima ventura, quello che resta della politica decimata, non dal corona virus, ma da un decadimento ormai trentennale tra siparietti televisivi, virologhi presenzialisti, giornalisti schierati: agli elettori prossimi e venturi non vengono certo offerti appigli sicuri.
Ciò che rimane della sinistra storica e del cattolicesimo militante, è impelagato in un’alleanza con un Movimento nato per liquidare la vecchia politica e che, visti i chiari di luna, li snaturerà definitivamente. Normale, come chi si illudeva che il PD sarebbe stata una cosa nuova e non la somma dei rimasugli del vecchio PCI e quelli dalla DC di sinistra, oggi siano preoccupati.
Se dal punto di vista del Barnum televisivo questa è una soap opera da ascolti ad una cifra, da quello squisitamente storico politico, mi sento di dire che è la nemesi di una sinistra storica che da più di un secolo non ne azzecca una. Ogni tanto, qualche reduce del vecchio PCI, vergognandosi forse anche un po’, di essere stato dalla parte sbagliata della Storia, si auto assolve rifugiandosi in quello che ritiene “il glorioso passato”, cioè le origini del fu Partito Comunista.
Chi scrive, ha cambiato idea alcune volte ma in una cosa non ha mai deflesso: essere convintamente anticomunista, non per tifo ma per ragionamento storico.
Era il 1964, una bella mattina arrivai a Roma con un treno speciale per partecipare ai funerali di Togliatti, io e una “milionata” di compagni: naturalmente, a differenza di me quasi tutti comunisti.
Invidiai moltissimo quelle esequie, vi partecipai quale funzionario socialista della Fiom di Torino e nel vedere quelle folle feci il paragone con quel mio Partitino che di folle era piuttosto carente.
Allora il PC era un Partito apparentemente monolitico, apparentemente perché Togliatti negli ultimi giorni della sua esistenza, per la prima volta in vita sua ebbe il coraggio politico di prendere, anche se cautamente, le distanze dal Socialismo reale dell’URSS.
Eppure, solo pochissimi anni prima, quando arrivò alla segreteria del PCUS quel mattacchione di Kruscev iniziando il processo di destalinizzazione, causò a Palmiro un mezzo coccolone dal momento che il dirigente italiano, trovandosi a Mosca nel 26, per non fare la fine del suo amico Gramsci: si trattenne in URSS per una quindicina di anni, ricoprendo la carica più prestigiosa nel Comintern, organismo rappresentativo di tutti i Partiti Comunisti dell’epoca. Va detto che quell’organismo contava meno del nulla, dal momento che Stalin aveva liquidato tutti i suoi competitor proprio con la tesi del “Socialismo in un solo Paese”, pertanto il “Comintern”, poi sostituito con in “Cominform”, tra alti e bassi, rappresentarono solo: i Partiti Comunisti del futuro impero coloniale sovietico.
Furono gli anni tragici delle purghe staliniane di cui ne fecero le spese anche tanti comunisti italiani, senza che il nostro eroe osasse alzare un dito in loro difesa. Noi che siamo pratici, ricordiamo che Palmiro sarà anche stato un fine intellettuale ma certo non un leone, dal momento che dopo la “Marcia su Roma”, con lo squadrismo imperante alla ricerca di compagni da manganellare, si eclissò per un certo numero di mesi, e solo un richiamo dalle colonne dell’Unità lo fece tornare all’ovile.
Per questo, pur dettando nel suo testamento la presa di distanza dallo stalinismo, Berlinguer che gli successe, dopo l’interregno di Longo, mise la sordina sul personaggio, concentrandosi nel ricordo del glorioso passato e di Antonio Gramsci, scordandosi del vero fondatore che fu Amedeo Bordiga, il quale per volere principalmente di Stalin fu esautorato dai professorini torinesi, appunto Gramsci, Togliatti e altri meno noti.
Tutti i partiti con una lunga storia hanno i loro cadaveri negli armadi, quello di Bordiga è un ectoplasma scomparso dai dibattiti, liquidato dallo stalinismo che nel 1926 era impegnato nella lotta interna alla “rivoluzione permanente” tra Stalin e Troski
Oggi ci stupiamo delle contraddizioni dei politici attuali, che dire di quelle all’interno della sinistra degli anni 20 nell’ambito di quel massimalismo socialista che aveva conquistato il Partito al Congresso del 12. Per capirci, quello che diede a Mussolini la direzione dell’Avanti! fino alla sua espulsione come traditore interventista.
Mussolini: l’unico che nel campo della sinistra italiana riuscirà a realizzare, non dico una rivoluzione proletaria, bensì una “mezza rivoluzione” piccolo borghese.
Delle scissioni pazze la sinistra ha il monopolio, quella del PCI le batté tutte.
Avvenne in quel di Livorno nel 21, il leader del nuovo Partito fu appunto Amedeo Bordiga, un ingegnere napoletano fino ad allora dirigente massimalista. La sua posizione era quella dell’antiparlamentarismo e dell’internazionalismo rivoluzionario sull’onda dell’ubriacatura nei confronti della rivoluzione sovietica.
Se la maggioranza socialista fosse stata quella dei Turati e dei Treves, quella scissione sarebbe stata giustificabile, in pieno massimalismo socialista imperante fu paradossale.
Si era usciti da poco più di un anno dal biennio rosso, e solo i ciechi potevano non vedere quanto poco in Italia ci fossero reali condizioni per una rivoluzione sul tipo di quella russa. Il Fascismo inoltre aveva superato la sconfitta nelle elezioni del 19; come un giano bifronte era rivoluzionario (si fa per dire) nelle campagne e legalitario (si fa sempre per dire) nelle città, i soliti voltagabbana italici iniziavano a cambiare la camicia rossa con la nera, eppure non si esitò a creare un altro Partito, dimostrazione che le scissioni sono sempre il frutto di incompatibilità personali piuttosto che di reali posizioni ideologiche o… forse è scomodo restar in minoranza.
Torniamo alle origini e perché i professorini torinesi vi aderirono. Torino fu il centro palpitante del biennio rosso. Un gruppo di giovani socialisti aveva dato vita a un settimanale: l’Ordine Nuovo.
La testa ce la mise un sardo: Antonio Gramsci, i soldi e l’appoggio del Partito un dirigente dei Giovani Socialisti, Angelo Tasca, gregari: Palmiro Togliatti e altri meno noti. Quel settimanale nacque come risposta intellettuale alle presunte carenze culturali dei Socialisti torinesi, Gramsci parlando dei Circoli e delle sezioni di partito li definì impietosamente: covi di avvinazzati….
Non è la cronaca di quegli avvenimenti che voglio fare, semplicemente analizzare i comportamenti e le idee di un gruppo di giovani intellettuali socialisti, tenendo conto della loro provenienza ma soprattutto anche dei fattori soggettivi più che oggettivi che li mossero.
Quando si affacciano alla politica, Gramsci e Togliatti, stanno per finire l’Università, nel 14 seguono le scelte interventiste di Mussolini, in linea con il pensiero studentesco del tempo, cosa che non deve scandalizzare dal momento che il romagnolo allora Direttore dell’Avanti! è l’astro nascente del massimalismo socialista.
Gramsci, assunto all’Avanti nel periodo bellico cambierà ben presto posizioni, Togliatti, partito addirittura volontario, al ritorno dal conflitto raggiungerà l’amico al giornale e di lì inizierà il sodalizio. Chi sono questi giovani e da dove provengono:
Nati nel fine Ottocento, appartengono alla piccolissima borghesia, quella dei “travet”, i padri lavorano per lo Stato, entrambi mancheranno loro, uno economicamente il Gramsci, mentre Togliatti rimarrà orfano ancora bambino.
Entrambi sono intelligenti e studiosi, entrambi conquisteranno borse di studio, l’uno, Togliatti, per fare le magistrali, l’altro il liceo classico, entrambi sempre con la borsa frequenteranno l’Ateneo torinese. Gramsci anche nelle graduatorie sorpasserà Togliatti che si classificherà secondo. Non pare che Palmiro se ne fece un complesso, forse perché l’intelligenza di Gramsci era palese.
Erano tempi quelli che se non avevi una famiglia dietro le spalle, potevi anche essere un genio ma di strade non ne avevi aperte, a parte la politica, principalmente tra i socialisti.
Entrambi, ancora studenti, si iscrivono al Partito militando nelle file dei massimalisti che all’ultimo congresso hanno conquistato la maggioranza nel Partito. Mussolini ha sostituito il riformista torinese Treves alla direzione dell’Avanti!
Quanto le situazioni personali pesino anche sulle scelte politiche per dei giovani intellettuali con poche prospettive e una vita disagiata, è cosa difficile da appurare ma sicuramente giocò.
L’Ateneo torinese era stata negli anni ottanta una delle prime fucine di idee del socialismo umanitario dando un grosso contributo a quello che sarebbe poi diventato nel 92, il Partito Socialista.
Quando vi aderirono Gramsci e Togliatti il Partito si è trasformato, il Socialismo umanitario ha lasciato il posto, prima al socialismo riformista che ebbe Filippo Turati quale leader e poi, nel Congresso del 1912, le correnti rivoluzionarie e massimaliste presero il sopravvento, riuscendo addirittura (con il contributo determinante del futuro Duce) di cacciare un monumento del Socialismo umanitario quale Leonida Bissolati, accusato di aver stigmatizzato l’attentato al Sovrano.
Non credo che i due studenti abbiano professato idee riformiste, sono massimalisti e fanno vita di Sezione. Sono culturalmente ancora legati al crocianesimo e quando Mussolini compie la giravolta interventista lo appoggeranno negli infuocati dibattiti della Sezione. Quello fu il primo momento in cui i nostri eroi cadranno in disgrazia nel Partito.
Gramsci, che aveva avuto problemi di salute da bambino fu riformato. Togliatti si presenterà volontario finendo infermiere nella Sanità.
La svolta del rientro nei ranghi socialisti la farà Gramsci. Testa fina, ottima penna, grazie al suo amico Angelo Tasca venne assunto all’Avanti per curare la rubrica culturale delle pagine torinesi.
Gramsci, sempre grazie al Tasca molto più importante di loro nel Partito, riuscì a fare assumere Togliatti all’Avanti, proprio nel momento in cui lo cercarono, in quanto interventista, anche i fascisti di Mario Gioda un ex anarchico, un atipico fascista “di sinistra” che morirà nel 24 da poco eletto Deputato.
Forse le scelte politiche di Palmiro sarebbero state altre, se il tempismo di Gramsci non avesse preso il sopravvento. A volte certe scelte ideologiche sono mutuate dai bisogni della vita e di questo occorre mai scandalizzarsi.
Sta di fatto che i due si trovarono a scrivere sulla pagina torinese dell’Avanti!, non di politica ma di critica letteraria e teatrale, due perfetti giovani intellettuali di sinistra. Tuttavia Gramsci ha una marcia in più. Non gli basta lo slogan “fare come in Russia” di un Partito imbottito, peggio dei Grillini odierni, di Parlamentari di non grande levatura e inchiodati alle poltrone.
E’ indubbio che l’idea del nuovo settimanale sia stata di Gramsci, come è indubbio che “L’Ordine nuovo” poté nascere grazie ai soldi del padre di Tasca e alla possibilità che questi, dirigente torinese di Partito, permettesse ai due amici di tenere i piedi (e il portafoglio) anche nell’Avanti!
Posso comprendere, lo sconcerto dei miei amici “vetero” sempre a caccia di miti eroici: nessuno è immune dal bisogno, dall’ambizione e dal contesto storico.
La rivoluzione d’ottobre li aveva folgorati tutti, Partito Socialista compreso sulla via di Mosca. Quanto era successo in Russia fece perdere la trebisonda a sinistra.
Tutti, o quasi, si sentivano dei rivoluzionari, lo stesso Turati aveva concepito il riformismo come una possibile via al socialismo di cui nessuno dubitava della bontà, fino ad allora si era trattato di sporadiche manifestazioni pseudo rivoluzionarie, ora esisteva un modello: si poteva “fare come in Russia”.
I Riformisti comunque non tardarono a prendere le distanze poiché iniziava ad essere palese la tendenza liberticida del bolscevismo.
Ecco cosa scrisse il socialista Camillo Olivetti, l’industriale nel 1908 aveva fondato a Ivrea la Olivetti, alle elezioni del 19 aveva sostenuto le liste dell’USI di Bissolati e Bonomi. L’Unione Socialista fu una meteora riformista, vittima delle indecisioni di Turati che attese inerme che il Partito lo cacciasse nel 22, pochi giorni prima la marcia su Roma.
[…] A parere nostro il bolscevismo, fosse pure immune da ogni violenza e potesse anche dimostrare la sua capacità di esistere e di prosperare – cosa di cui dubitiamo – ha il torto enorme di provocare un ordinamento in cui una sola classe (la classe operaia propriamente detta) riesce a sopraffare tutte le altre e ad imporvisi. Il bolscevismo, in una parola, permette a favore degli operai quell’esclusivo predominio che noi rimproveriamo all’ordinamento borghese di permettere a pro dei capitalisti.
Camillo Olivetti non poteva certo prevedere che in realtà non sarebbe stata la dittatura della classe operaia ma quella del partito e della sua nomenclatura. Paiono parole profetiche, tuttavia a sinistra si guardò alla Russia in modo sostanzialmente acritico e nel caso dei nostri giovani giornalisti addirittura entusiasta.
Se una mente brillante come quella di Gramsci poté prendere un simile abbaglio fu giustificato solo da uno dei fondamenti del nostro socialismo (e non solo), e cioè che la democrazia parlamentare fosse il peggiore dei mali. Quando le sinistre alla caduta del Fascismo individuarono in questo il male assoluto dimenticavano, o volevano dimenticare, le diuturne predicazioni antidemocratiche dei massimalisti di cui il Duce non aveva dimenticato gli insegnamenti.
Gli inizi del nuovo giornale non furono brillanti, era una specie di bollettino sugli straordinari successi della Rivoluzione russa, pagine e pagine dove la classe dirigente bolscevica entrava nel mito. Chi avesse dubbi, nel sito dell’Istituto Gramsci di Torino potrà consultare la prima annata.
Cerco di immaginare come, a Gramsci, venne l’idea della svolta operaista in senso rivoluzionario del settimanale, anche se dovette discutere con Tasca, più prudente, e nel Partito. La Confederazione Generale del lavoro era stata la radice operaista del socialismo nostrano, tuttavia anche quando il Partito divenne importante, ci fu sempre l’autonomia del Sindacato, tenuto conto che fino alla nascita del sindacalismo rivoluzionario, nella Confederazione del Lavoro militavano, repubblicani e persino gli anarchici, inoltre la gran parte dei dirigenti di categoria erano riformisti. Caso emblematico Bruno Buozzi, mitico Segretario Generale della FIOM.
Giolitti, aveva lasciato la Presidenza del Consiglio alla vigilia dell’entrata in guerra. Non che fosse un pacifista per definizione, era un realista e conosceva bene la situazione economica e soprattutto militare dell’Italia.
Con la pace, tornò al Governo e dovette gestire il periodo complicatissimo del biennio rosso.
La rivoluzione industriale che aveva modificato gli assetti economici di Inghilterra, Francia, Germania, per non parlare degli Stati Uniti, da noi era arrivata tardi, in forma ridotta e in poche Regioni del Nord Italia. Il potere economico fino allo scoppio della guerra era concentrato sulle rendite finanziarie. La guerra, tra i tanti cambiamenti, consentì non solo un forte sviluppo industriale, cambiò tante mentalità. La piccola borghesia, sotto le armi occupò nei gradi dell’esercito spazi insperati, la stessa truppa fu illusa da promesse sulla ridistribuzione delle terre.
Con la pace, le promesse non furono mantenute e quegli ufficiali tornarono a fare i travet, o peggio i disoccupati, tra l’altro sbeffeggiati dai socialisti (errore fatale). Socialisti italiani unici tra i belligeranti, avevano tenuto, almeno fino a Caporetto, posizioni di pacifismo “senza se e senza ma”, diremmo oggi.
Si formò una miscela esplosiva, alimentata dai super profitti industriali ma anche dalla forzata riconversione industriale, da economia di guerra a quella di pace. Tutto culminò con la vittoria dei socialisti e dei popolari alle elezioni del 19. Qui l’errore fatale fu di non tentare una strada unitaria.
Inquadro il contesto poiché sarà determinante per la crisi liberale, per la nascita del fascismo ma soprattutto per le posizioni dei nostri eroi.
Gramsci riuscì a spostare l’asse ideologico dell’Ordine Nuovo sul malcontento operaio, elaborando il superamento dei vecchi strumenti rappresentativi: le Commissioni Interne, verso fenomeni di partecipazione più allargata: i Consigli di fabbrica pensando probabilmente ai Soviet operai.
L’introduzione dell’ora legale invisa dai lavoratori, sarà la miccia per una serie di scioperi tra il 19 e il 20 che culmineranno con l’occupazione delle fabbriche. Giolitti tornerà al Governo gestendo la crisi da par suo e impedendo, da una parte e dall’altra delle barricate, il precipitare degli eventi.
Per gli Ordinovisti fu la prova generale della rivoluzione sulle orme di quella sovietica. Mal glie ne incolse.
Con ciò, occorre essere magnanimi, le notizie di come si svolsero i fatti russi allora erano scarse anche da fonti socialiste, i quali dirigenti peccavano spesso di provincialismo. I compromessi di Kerenski non potevano piacere al massimalismo che si apprestava a cacciare i riformisti di casa. Soprattutto, ci fu la sopravvalutazione del ruolo giocato dagli operai russi in un Paese ben lontano dallo sviluppo industriale.
Lenin teorizzava la “dittatura del proletariato”, cosa che piacque ai massimalisti di casa nostra. Questo non deve stupire, fin dalla nascita nel Partito italiano le divergenze sulla rivoluzione tra riformisti e massimalisti riguardarono la tattica, non il fine che era il Socialismo e il ruolo egemone dello Stato socialista.
Gli operai nell’immediato dopo guerra avevano molti motivi per essere arrabbiati, sapevano che grazie alla corruttela molti industriali avevano realizzato ingenti profitti ed ora che dovevano riconvertire le produzioni chiedevano sacrifici agli operai con bassi salari. Poteva essere un momento di forte ma del tutto normale sindacalizzazione. Se non ci fosse stato l’eldorado sovietico probabilmente tutto si sarebbe risolto in un biennio caldo, diventerà il biennio rosso proprio grazie alla teorizzazione Ordinovista, il campo di gioco, soprattutto la FIAT e le grandi aziende manifatturiere.
“La Fabbrica Italiana Automobili Torino” nasce verso la fine dell’Ottocento dall’iniziativa di un gruppo di appassionati, amatori di quel nuovo mezzo. Molte cose importanti spesso nascono banalmente. La Fiat lo fa in un bar vicino alla stazione centrale di Torino, Porta Nuova. Tra un vermut, un bicerin e le discussioni da bar, un gruppetto di nobili e borghesi deciderà nel 1898 di dare vita a una fabbrica comprando uno stabilimento in corso Dante, ai margini del parco del Valentino.
Come Giovanni Agnelli sia diventato in pochi anni il padrone quasi assoluto della Fiat non è chiaro. Tra i detrattori che lo dipingono come un bieco approfittatore e gli elogiatori che lo considerano un genio dell’industria, c’è probabilmente la solita e banale “via di mezzo”. Sono propenso a pensare che quei nobiluomini fondatori non fossero animati dalla stessa ambizione, e forse dall’intelligenza e determinazione, di quel borghese ex ufficiale di cavalleria. Giovanni Agnelli viene nominato segretario del consiglio di amministrazione, ruolo che gli permetterà probabilmente di attuare quel “divide et impera” che gli darà il predominio sugli altri. Solo quello?
Certamente ogni fondatore di imperi industriali (e la Fiat lo diventerà) alla spregiudicatezza aggiunge carisma, intelligenza, conoscenza degli uomini e scaltrezza nel muoversi nel contesto politico della sua epoca. Giovanni Agnelli dispone anche di una visione moderna dello sviluppo industriale che guarda agli americani e che privilegia una politica dell’immagine, antesignana di un fenomeno che sarà capito fino in fondo solo dopo il secondo conflitto mondiale. (da: La Fabbrica di mattoni rossi)
Nella storiografia del dopo guerra, sull’onda post resistenziale vigeva la tesi che la nascita e l’affermazione, fino alla presa del potere del fascismo, fosse da imputarsi al protervo capitalismo industriale che in quel periodo non era certo importante come lo fu dopo gli anni cinquanta, gli agrari e la finanza contavano certo di più, lo stesso fascismo fin da subito, era diviso tra quello agrario e quello delle città. Mussolini pur avendo sposato il nazionalismo fu ondivago, diviso tra la politica e il giornalismo. I fenomeni che lo condizioneranno saranno due: lo squadrismo nelle zone agrarie e il biennio rosso. Entrambi i fenomeni lo videro tentennante e ben lontano dalla figura del Duce che gli creeranno e certo anche lui ci mise del suo.
Mussolini, che nel 19 era a capo di un partitino irrilevante sul piano elettorale, approfittando dell’estremismo parolaio delle sinistre riuscirà a coalizzare lo scontento piccolo borghese, il nazionalismo frustrato da un trattato di pace considerato punitivo per l’Italia e poi il mondo industriale che, fascista non era di certo ma, come la Corona, sceglieranno il “male minore”.
E’ sicuro che la svolta provocata da quei due anni di passione rivoluzionaria teorizzata da L’Ordine Nuovo, soprattutto la conseguente vittoria di Pirro che non solo non provocò la rivoluzione ma non consentì nemmeno agli operai risultati economici giustificanti le perdite salariali ingentissime. Si pensò che l’aver ottenuto il licenziamento di 200 “crumiri” fascisti della Fiat, fosse un successo.
Naturalmente nel sindacato si aprirà il processo a Gramsci e compagni che furono tacciati di avventurismo. Nel Partito i giudizi non furono certo migliori. Era evidente che si erano spostati molti equilibri e soprattutto le simpatie verso il Fascismo, il quale si era trasformato in Partito e in qualche modo messo la museruola ai Ras.
Aderire al nuovo Partito per i “professorini” fu dunque una scelta praticamente obbligata poiché l’unico che diede loro sostegno fu Amedeo Bordiga.
Per la verità, la scissione di Livorno fu un mezzo flop che non spostò più di tanto le preferenze dell’elettorato socialista. Certo i danni ordinovisti furono molto più consistenti e propedeutici al successo della “Marcia su Roma”.
I comunisti torinesi si distinsero pure nella cacciata dalla segreteria e poi anche dal partito di Bordiga che finirà nel limbo dei reprobi del PCI insieme ad Angelo Tasca che lo difese anche se ormai le sue erano posizioni riformiste.
Per la verità Gramsci esitò prima di liquidare il primo segretario, tuttavia la scelta staliniana si impose a compagni il cui Partito, ormai era nella clandestinità, dando iniziò così all’epopea russa di Togliatti, che non era certo il “migliore” tra quei primi comunisti, semplicemente il meno coraggioso, conformandosi al satrapo georgiano.
Gramsci e Bordiga, si ritroveranno al confino di Ventotene e avranno modo di rinsaldare l’amicizia e per Gramsci probabilmente l’inizio di una fase revisionista nei confronti del Comunismo sovietico.
Giudicare le scelte di quei giorni senza tenere conto del contesto italiano sarebbe impietoso, va detto però che il vero Comunista duro e puro, non lo troviamo tra gli Ordinovisti: fu Amedeo Bordiga.
Non sono un appassionato dell’albero genealogico dei comunisti italiani, né al cosiddetto pensiero gramsciano, usato strumentalmente ai fini revisionistici da parte della nomenclatura italiana sempre in ritardo nel prendere le distanze dal socialismo reale.
E’ certo che la Resistenza comunista fu finalizzata, come quella dei Partiti fratelli, alla presa del potere che in Italia non riuscirà grazie agli accordi di Yalta e alla presenza dell’esercito americano.
Il pensiero ordinovista farà capolino nell’immediato dopo guerra con Togliatti Ministro e leader di provata fede staliniana, nel Sindacato quando si rispolvereranno i Consigli di Fabbrica, ma soprattutto nella politicizzazione delle lotte sindacali, e negli autunni caldi dopo la ripresa sindacale degli anni sessanta. In questo caso, dopo tanti scioperi si otterranno i gramsciani Consigli ma non gli aumenti salariali.
Gramsci farà di nuovo capolino tra i sessantottini, i quali non avendo il coraggio di sostenere il comunismo sovietico ripareranno verso i Cinesi, tuttavia l’idea che dalle fabbriche dovesse partire la rivoluzione fu a lungo propugnata da figli di papà in eschimo.
La marcia dei 40.000 sempre a Torino e sempre alla Fiat poserà la pietra tombale all’Ordinovismo.
Fu vera gloria quella?