Aggiornato al 27/04/2024

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Voltaire

Ardashir I, Fondatore dell’impero sassanide e i vassalli dell’impero – Pittura mongola del XIV secolo (Particolare)

 

Storia della Persia - 6

(seguito)

di Mauro Lanzi

 

 L’Impero Sassanide (224 – 651 d.c.)

 

 

 

L'Impero sassanide è noto anche come secondo impero persiano dopo l’Impero Achemenide (primo impero persiano); fu un'entità politica costituitasi nel 224 d.C. in seguito alla caduta dell'Impero partico e alla sconfitta dell'ultimo re della dinastia arsacide, Vologase VI.

Era chiamato dai suoi abitanti Ērānshahr e Ērān (Impero degli Arii) in Persiano Medio, poi Iranshahr e Iran in Persiano Nuovo, fu l'ultimo impero persiano preislamico; governato dalla dinastia sassanide, rappresentò una delle potenze maggiori in Asia Occidentale, Meridionale e Centrale, insieme con l'Impero romano/bizantino. Il periodo sassanide è considerato uno dei periodi più importanti della storia della Persia, in quanto costituì l'ultimo grande impero ario-iraniano prima della conquista musulmana.

In molti modi, il periodo sassanide rappresentò il picco dell'antica civiltà persiana; la sua influenza culturale raggiunse l’Europa Occidentale, la Cina e l’India e si estese al mondo delle arti figurative e della poesia.

L’uomo che fu alle origini dell’impero si chiamava Ardashir era un principe della Parsa, culla dell’impero achemenide; con lui la storia si ripete, il principe vassallo dei Parti si ribella ai suoi signori, li sconfigge ed entra trionfalmente nella residenza reale. Ottocento anni dopo la morte di Ciro, un persiano, nato nella sua stessa regione, si appresta a fondare un grande impero. Ardashir I si richiama espressamente alla tradizione achemenide, vanta addirittura un legame di sangue (mai provato) con la gloriosa dinastia; il popolo gli crede, lo segue perché ambisce ad uscire dal grigiore della sudditanza ai Parti e tornare agli antichi splendori. L’obiettivo di Ardashir è di riportare la Persia alle tradizioni antico-persiano; la lingua ufficiale e di corte, il greco per i Parti, doveva essere sostituita da un altro idioma: la scelta cadde sul Pahlavi, un dialetto risalente al tempo degli achemenidi, che si era venuto nel tempo modificando sotto l’influsso dei Parti; il pahlavi viene anche definito “medio persiano” ed è all’origine del nuovo persiano; il titolo spettante al re era shah-in-shah, re dei re, denominazione che si è conservata fino ai nostri tempi. Anche sotto il profilo religioso, Ardashir si preoccupò di eliminare ogni traccia di ellenismo: reintegrò lo Zoroastrismo come religione di stato, i sacerdoti zoroastriani, i Magi, vennero riportati in posizioni di grande privilegio e potere; addirittura esiste un bassorilievo rappresentante questo re, mentre riceve la corona da Ahura Mazda.

Ardashir si considerava un novello Ciro, ambiva a riportare la Persia al centro del mondo: dopo la sua incoronazione a Ctesifonte, iniziò una serie di campagne per ampliare il suo regno, conquistò Susa, il Khorassan, Mossul ed altro ancora, ma il vero precursore dell’imperialismo sassanide si deve considerare il figlio, Shapur o Sapore I.  Sapore conquistò Battria e la Battriana, estese il suo regno ad est, ma soprattutto dette l’avvio allo scontro con l’impero romano, un conflitto che, attraverso alterne vicende, si protrarrà fino alla fine di entrambi gli imperi.  

Sapore cominciò con invadere la Mesopotamia romana, proseguendo poi in Anatolia fino a saccheggiare Antiochia: respinto da sempre nuovi eserciti romani ritentò l’impresa negli anni successivi fino ad infliggere una sconfitta disastrosa ai Romani nei pressi di Edessa, facendo prigioniero lo stesso imperatore Valeriano, che passò in prigionia il resto dei suoi giorni; Shapur lo teneva chiuso in una gabbia, da cui il poveretto usciva solo per fare da predellino al Re. Shapur intendeva così manifestare la sua superiorità sul più grande impero del tempo, l’impero romano.

Il punto di forza del regno persiano era, come sempre, l’esercito, che i Sassanidi organizzarono sul modello partico, con qualche variante: la spina dorsale era sempre la cavalleria, in particolare la cavalleria catafratta. Essa era composta da nobili che si sottoponevano ad un pesante addestramento militare con ripetute esercitazioni e manovre di cavalleria, raggiungendo eccezionali livelli di abilità e disciplina che facevano di loro un autentico corpo d'élite. Questa cavalleria doveva risultare invulnerabile. Ogni uomo era coperto da una maglia di metallo, dalla testa fino alla punta dei piedi, così i cavalli dalla criniera alla punta degli zoccoli, lasciando liberi solo dei piccoli spazi per gli occhi e per respirare: erano perciò chiamati, "uomini di bronzo". Questi cavalieri dovevano essere in grado di comandare i cavalli, non con le briglie, ma con la sola voce; possedevano una lancia che doveva essere tenuta con due mani, e l'unica tattica che potevano attuare era di gettarsi sul nemico senza pensare alle conseguenze della loro azione, affidandosi alla protezione delle maglie di ferro: erano in grado, con cariche coordinate, di spezzare qualunque schieramento di fanteria.

Il successo di queste tattiche di combattimento indusse i romani prima ed i bizantini poi ad istituire anche loro grosse unità di catafratti, che sono stati poi gli antenati della cavalleria medievale.

L’esercito veniva levato solo in caso di guerra e questo evitava il pesante onere di un esercito di mestiere permanente, cui si dovevano sobbarcare i Romani; il costante addestramento cui si sottoponevano i cavalieri garantiva l’efficienza di forze militari riunite anche all’ultimo minuto.

La capitale del regno era stata fissata a Ctesifonte, la città degli Arsacidi, che i Sassanidi trasformarono in una città stupenda, di cui purtroppo rimangono solo modeste rovine; Ctesifonte divenne in questo periodo una metropoli internazionale, posta in riva al Tigri, attraversata da grandi viali verdeggianti, offriva ospitalità a stranieri di ogni paese, romani, greci, eritrei, arabi, cinesi ed altri ancora, fu un luogo di fusione di culture differenti: contava con oltre mezzo milione di abitanti  ed una sua peculiarità, come riportato dai viaggiatori dell’epoca, era la moltitudine di cupole, che non cessavano di stupire gli stranieri, dato che la cupola non era tra gli elementi architettonici presenti nell’arte né greca, né romana; l’uso della cupola sembra risalga alla civiltà di Elam, fu ripreso dagli Achemenidi, ma è con i Sassanidi che raggiunse il suo massimo splendore; sarà adottato ampiamente dall’arte islamica, ma anche le chiese cristiane, a partire da Aghia Sofia, ne trarranno ispirazione in misura crescente.

Un'altra conseguenza dell’influsso della cultura sassanide su quella occidentale sarà la divinizzazione del sovrano: la fede praticata e conclamata dai sovrani sassanidi era lo zoroastrismo, che riconosceva in Ahura Mazda l’unica divinità ultraterrena; il Re, però, si considerava il suo rappresentante in terra  e tutto il cerimoniale di corte, che ricalcava quello degli Achemenidi, era ispirato da questo presupposto; i sovrani erano inclini a mantenere una distanza incolmabile dai loro sudditi, chi era ammesso alla loro presenza doveva prostrarsi a terra, coprirsi la bocca con un telo, per non profanare il sovrano, usare formule di panegirico prestabilite; il Re era dominatore incontrastato e dio in una persona sola. Anche i nemici più acerrimi dell’impero persiano, i romani, ne furono influenzati, Diocleziano il restauratore della potenza imperiale adottò un cerimoniale di corte sul modello di quello persiano; anche il copricapo tipico dei sovrani di Persia, la “tiara” (tiara è una parola persiana), giunse in occidente, fu addirittura adottata dai Papi. Persino Giustiniano, convinto cristiano, non ebbe timore a definirsi santo e a farsi rappresentare con l’aureola.

Il culmine del suo splendore l’impero sassanide lo raggiunse verso la metà del VI secolo, contemporaneamente al periodo giustinianeo a Costantinopoli, sotto il regno di Kusraw o Cosroe I, cui sono stati attribuiti epiteti grandiosi, come “anima immortale”, “munifico signore”, “il leggendario”; la sua fama non è immeritata: egli diede alla Persia quell’impronta che sopravviverà nei secoli, nel bene e nel male, anche oltre la fine dell’età sassanide. Cosroe era un personaggio complesso e contradditorio; abile amministratore, grande giurista, valente generale, edificatore di inesauribile fantasia, esteta raffinato ed erudito di ampie vedute, fu anche un despota ambizioso e spietato, capace di far massacrare in guerra i vinti e di perseguire in pace con ferocia anche la minima opposizione; fece sterminare a migliaia i fedeli seguaci di un predicatore, Mazdak, un discepolo di Mani, distrusse villaggi e massacrò contadini inermi; poi però attuò una riforma fiscale che alleviò in misura considerevole gli oneri che gravavano sui contadini, costruì dighe, ponti, strade in tutto l’impero, rese coltivabili nuovi territori. Tolse molti privilegi ai feudatari, favorì il commercio e la crescita di una borghesia produttiva che arricchì il paese, creò una struttura amministrativa di funzionari statali snella ed efficiente, ma il merito che sopra ogni altro gli va riconosciuto è il suo convinto e geniale mecenatismo culturale.

Cosroe chiamò alla corte di Ctesifonte filosofi, eruditi, medici, matematici da ogni parte dell’impero, offrendo ospitalità anche agli stranieri, greci, romani, arabi, cinesi; ai più valenti offriva cattedre ben remunerate nelle sue accademie, scegliendoli solo in base al loro rigore scientifico, indipendentemente da razza, fede o religione; le discussioni accademiche si svolgevano nella massima libertà, solo non erano ammesse critiche al sovrano ed alla religione di stato, lo zoroastrismo. Un episodio sintomatico è l’accoglienza che riservò ai filosofi greci scacciati da Atene, dove non c’era più posto per i cosiddetti pagani; l’imperatore Giustiniano in persona aveva decretato la chiusura delle loro accademie e la distruzione delle opere dei grandi classici. I filosofi fuggiaschi portarono con sé le opere di Platone, Aristotele e di tutti gli altri autori, che Cosroe ordinò fossero conservate con la massima cura e persino tradotte in persiano; la cultura classica si salvò così dalla furia iconoclasta dei cristiani fanatici e giunse in Europa nel Medioevo, proprio uscendo dalle biblioteche persiane.       

Un altro contributo importante alla civiltà moderna che giunse a noi dalla Persia di quei tempi è il “gioco del Re”, gli scacchi: il gioco è originario dell’India, ma a noi è giunto attraverso la versione persiana: il nome stesso, scacchi, deriva dalla parola persiana shah, Re, che è il protagonista del gioco; scacco matto deriva dalla locuzione “shah mat”, Re prigioniero, che, come sappiamo, segna la fine della partita. Il gioco degli scacchi è palesemente un war game, un gioco che simula la guerra; i pedoni rappresentano le fanterie, i cavalli la cavalleria, le torri le opere di difesa fisse; con la mossa dell’arrocco il Re si protegge chiudendosi in una fortezza. Due sono i pezzi più misteriosi di questo gioco, l’alfiere e la Donna: l’alfiere non è quello che immaginiamo noi, un portabandiera con tromba e stendardo; la parola deriva dal persiano al-fil, elefante, e noi ben sappiamo che gli elefanti erano una componente essenziale degli eserciti orientali. Il pezzo era rappresentato dall’orecchio dell’elefante, simbolo che poi venne variamente interpretato dalle nazioni in cui venne importato il gioco; per noi è divenuto l’alfiere, gli inglesi lo chiamano bishop, perché ricorda loro il cappello del vescovo. La Donna è il pezzo più potente di tutta la scacchiera, cosa abbastanza incongrua, ma nel gioco originale questo pezzo rappresentava il Gran Visir, cioè il comandante in capo dell’esercito, quindi erano motivate le sue attribuzioni; quando il gioco venne importato in Europa, i francesi pensarono di ingentilirlo, accanto al Re ci voleva una Regina, quindi la Donna.

Sul piano militare Cosroe portò avanti il mortale duello con l’impero bizantino, duello che non si era mai interrotto nei secoli precedenti, in un continuo alternarsi di vittorie e di disfatte da una parte e dall’altra; nel 532, malgrado il pagamento di un pesante tributo da parte dell’imperatore Giustiniano per assicurarsi la pace, Cosroe invase l’Anatolia, giungendo ad occupare e saccheggiare Antiochia, i cui abitanti furono quindi deportati in Persia: la controffensiva di Bisanzio, affidata al miglior generale dell’impero, Belisario, non portò a risultati concreti, i bizantini sconfitti più volte furono costretti nel 562 ad una pace umiliante, obbligati a versare un tributo annuo. Morto Giustiniano, il suo successore, Giustino II, approfittò di una rivolta dell’Armenia per interrompere il pagamento del tributo: Cosroe reagì invadendo nuovamente l’Anatolia, ma, dovendo combattere su due fronti, subì pesanti sconfitte ad opera dell’esercito bizantino, che arrivò ad invadere la Persia, minacciando la stessa capitale; una successiva sconfitta bizantina obbligò i contendenti ad una pace che ristabiliva lo status quo; l’Armenia tornò sotto il dominio persiano, il confine tra i due stati tornò ad essere l’Eufrate. Cosroe I morì nel 578, non prima di essersi assicurato un altro importante successo, la conquista dello Yemen; i persiani, chiamati dal regnante locale per difendersi da un attacco da parte degli etiopi di Axum, prima trasformarono lo Yemen in stato vassallo, poi in provincia; in questo modo l’impero sassanide si assicurò anche il controllo dei ricchi traffici dall’Oriente, per via marittima. 

Dall’apogeo al crollo dell’impero sassanide il passo fu breve; ne fu protagonista il nipote di Cosroe I, Cosroe II che, detronizzato da un usurpatore, si era rifugiato a Costantinopoli chiedendo aiuto all’imperatore Maurizio (591 d.c.): Maurizio aveva inviato il magister militum  Narsete in Persia per rimettere sul trono Cosroe. Questo sarebbe potuto essere l’inizio di una pace duratura, ma l’assassinio di Maurizio, per effetto di una congiura di palazzo che portò al potere l’usurpatore Foca, fu preso da Cosroe come pretesto per invadere l’Anatolia; Foca era odiato da gran parte della nazione e gli eserciti bizantini passavano da una sconfitta all’altra. Neppure la deposizione di Foca, che nel 610 fu sostituito ed ucciso da Eraclio il Grande, condusse però ad un miglioramento della situazione, Cosroe ormai aveva concepito il disegno di ricreare l’impero achemenide occupando i territori del grande rivale.

Iniziò così l’ultimo mortale duello tra i due grandi imperi; i primi passi furono tutti a favore del sassanide che, nel 614, giunse ad occupare Gerusalemme, dando alle fiamme le basiliche di Costantino e di Sant’Elena e trafugando dalla città la “Vera Croce” che fu portata a Ctesifonte. Nel 616 i Persiani invasero Alessandria ed in breve occuparono tutto l’Egitto, l’anno successivo giungevano al Bosforo, minacciando da vicino la stessa capitale; ai bizantini non restavano che la Grecia, l’Italia e parte dell’Anatolia, se i persiani avessero avuto a disposizione una flotta adeguata, per il loro avversario non ci sarebbe stato scampo. Sei anni di guerra avevano logorato anche i sassanidi, così Cosroe, convinto di non potere espugnare Costantinopoli, arrestò le operazioni militari ed impose al nemico una pace umiliante, costringendolo al pagamento di un tributo annuo di mille talenti d’oro, mille d’argento, mille cavalli e mille vergini.

Eraclio però non si era arreso; ricostituito un piccolo, ma valido esercito, nel 622 invase l’Armenia infliggendo una serie di sconfitte alle truppe sassanidi, distruggendo numerosi templi zoroastriani per vendicare l’oltraggio di Gerusalemme. Cosroe, allarmato dai successi bizantini, richiamò truppe dall’Egitto e dalla Mesopotamia e strinse alleanza con gli Avari, una popolazione barbara del nord; riuscì così a costituire tre eserciti, il principale dei quali affrontava Eraclio, mentre gli Avari stringevano d’assedio Costantinopoli (626 d.c.). Le possenti mura costruite da Giustiniano protessero la capitale, salvata infine da un corpo di cavalieri scelti inviati dall’imperatore, che preparava la riscossa; alleatosi con il Khan dei Cazari ed assoldate truppe mercenarie, Eraclio nella primavera/estate del 627 compì un’impresa molto audace, attraversando i monti del Kurdistan e giungendo sugli altopiani della Persia; colti di sorpresa, gli eserciti sassanidi dovettero compiere lo stesso percorso nella stagione autunnale, con perdite e sofferenze indicibili. Il 12 Dicembre 627, nella piana di Ninive, l’esercito sassanide fu annientato da Eraclio, che occupò anche Ctesifonte; Cosroe, sconfitto e abbandonato da tutti, fu imprigionato e messo a morte dal suo stesso figlio, che poi concluse la pace con Eraclio. L’imperatore bizantino riportò in trionfo la Vera Croce a Gerusalemme; la vicenda è ricordata nella splendida serie di affreschi di Piero della Francesca ad Arezzo.

La lunga contesa aveva sfiancato entrambi i contendenti, che divennero facile preda di una nuova nascente potenza, l’Islam. Nel 632 iniziarono le incursioni degli Arabi in Persia ed in soli cinque anni l’impero sassanide scomparve, assorbito dal primo califfato.

Non migliore fu la sorte dei bizantini: l’esercito di Eraclio, ormai composto principalmente da mercenari, aveva perso ogni consistenza, mentre una fiscalità oppressiva e le infinite contese religiose minavano la compattezza dello stato; dopo una serie di sconfitte in Egitto e Palestina, Eraclio decise di intervenire personalmente, ma la sua armata fu distrutta nel 636 d.c. nella battaglia detta di Yarmuk o del lago di Tiberiade. Inizia così la lenta ritirata dei bizantini dall’Anatolia, che culmina nel 716 d.c con l’assedio di Costantinopoli, dal quale però inizierà la riscossa dei bizantini.

Gerusalemme cade sotto il dominio arabo che dura fino alla prima crociata; la Vera Croce scomparve, alcuni frammenti sono oggi venerati in vari santuari.    

(Continua)

 

Inserito il:18/05/2022 21:42:21
Ultimo aggiornamento:18/05/2022 22:13:45
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