Yokoyama Taikan (Mito, Ibaraki, Japan, 1868 - Tokyo, 1958) - Monte Fuji
Breve storia del Giappone
di Mauro Lanzi
Il Giappone divenne noto ai più, in tempi recenti, a seguito di un evento eclatante, per la sua portata e le sue conseguenze, Pearl Harbour, dove, un attacco aereo portato di sorpresa dai giapponesi causò l’affondamento di buona parte della flotta americana.
L’America fu colta alla sprovvista, anche perché non conosceva affatto il suo avversario, non capiva l’etica, le motivazioni, i valori di un popolo tanto diverso da tutti gli altri; e l’ignoranza è sempre stata causa di errori drammatici, soprattutto in guerra.
Vale la pena, quindi, di cercare di capire che cosa era il Giappone all’epoca e la via migliore è un breve excursus attraverso la sua storia.
Origini e medioevo giapponese
Gli inizi del Giappone moderno si possono far risalire al VII/VIII secolo d.c., quando il paese trovò la sua unità sotto la guida di un’autorità centrale, l’imperatore o “tenno” (sovrano celeste), che si riteneva di natura divina, in quanto discendente da entità celesti.
In questo periodo si forgiano i lineamenti basilari del popolo giapponese, a seguito di vaste migrazioni, pure da oltremare, ma anche per l’influenza che ha sul Paese la civiltà cinese, all’epoca molto più evoluta e sofisticata; dalla Cina si importano i caratteri di scrittura (la lingua giapponese ha chiare origini cinesi), i principi del confucianesimo, la religione buddista.
Il dominio degli imperatori dura poco; agli inizi dell’XI secolo emerge una classe di guerrieri, nobili e colti, i “samurai”, che riescono ad imporre con la forza il loro controllo sul paese. I samurai si raggruppano in clan piccoli e grandi, ciascuno sotto la guida di un daimyō (capo feudale), che si affrontano spesso in feroci contese.
Nel 1185 in seguito alla sconfitta dei clan rivali, Minamoto no Yoritomo del clan Taira viene nominato Shōgun a vita e, nel 1192, stabilìsce la sua base di potere a Kamakura, dando così origine al primo periodo di shogunato, detto appunto Kamakura.
Shogun, che significa letteralmente ”grande generale dell’esercito”, era una carica conferita, in teoria, dall’imperatore, che rimaneva al suo posto, rispettato e venerato come una divinità, ma privo in pratica di ogni potere. Il titolo di shogun divenne di fatto ereditario e il Giappone incominciò a essere governato da una oligarchia militare: le élite e la popolazione si divisero in caste, si creò un'organizzazione sociale per certi versi simile ai sistemi feudali occidentali, controllata e mantenuta stabile dai samurai, sotto l’egida dello Shogun.
La società civile, era cristallizzata, secondo la tradizionale stratificazione confuciana, in quattro ordini: al vertice erano i samurai, che costituivano anche il bushi, la burocrazia colta (in questo differente dai baroni occidentali, ignoranti come capre!!), successivamente venivano i contadini, rispettati in quanto produttori per eccellenza, ma tenuti sottomessi e, spesso, in miseria; quindi gli artigiani e infine i disprezzati mercanti. L'appartenenza a un ordine era di natura ascrittiva (per nascita) e non si poteva cambiare status, non c’era mobilità sociale.
Lo shogunato governò il Giappone per più di 600 anni, con pochi rivolgimenti, dovuti al cambio del clan che esprimeva lo shogun, quasi sempre a seguito di accanite guerre civili. Il primo periodo, denominato Kamakura, vide in particolare lo scontro con la potenza mongola che allo dominava la Cina: per due volte il tentativo di invasione fu respinto grazie ai venti di tempesta che dispersero ed affondarono la flotta cinese: da qui il termine “kamikaze”, vento divino, che verrà usato nella seconda guerra mondiale per designare, impropriamente, i piloti suicidi.
Altro periodo degno di menzione nella storia dello Shogunato è il periodo di commercio “Nanban” (barbari meridionali), che ha inizio con l’approdo (1543) in un porto giapponese di una nave portoghese; i portoghesi avevano qualcosa che ad un regime militare interessava moltissimo, le armi da fuoco, che i giapponesi presero ad acquistare e quindi a copiare dagli stranieri. Cominciarono così contatti e scambi commerciali anche assai intensi: infine, dal 1549, arrivarono anche i missionari, gesuiti e francescani soprattutto, che avviarono una proficua opera di proselitismo; si calcola che in pochi anni i cristiani battezzati raggiungessero il totale di 300.000-
Purtroppo uno dei commerci più proficui e più praticati dai portoghesi era il commercio degli schiavi e ben presto le navi portoghesi si riempirono di concubine o giovani donne giapponesi destinate ai mercati dell’Europa e del Medio Oriente: questa pratica destò la giusta indignazione delle classi dirigenti giapponesi, lo shogun prima si appellò al generale provinciale dei gesuiti, poi, non avendo soddisfazione, bloccò l’accesso ai porti giapponesi di navi straniere, proibì i commerci e la pratica del cristianesimo; i cristiani furono duramente perseguitati, 168 martiri cristiani furono crocifissi in una sola circostanza, e si estinsero totalmente nel corso del XVII secolo.
Per inciso, vale la pena menzionare che i giapponesi, che giustamente condannavano il commercio delle schiave concubine da parte dei portoghesi, non si erano fatti scrupolo di ridurre in schiavitù un gran numero di giovani coreane, per gli stessi fini, nel corso di varie spedizioni sul continente; come tutti sappiamo, questa pratica si è ripetuta nel corso dell’ultima guerra, nei bordelli destinati alle truppe di occupazione giapponesi.
La reazione alle influenze straniere culminò con l’inizio dello shogunato Togukawa (1615) che rafforzò il modello politico di sistema feudale centralizzato, controllato in toto dallo shogun, anche con il totale isolamento dall’estero; nel 1639 venne ufficialmente iniziata la politica del “sakoku” (paese chiuso) che eliminava ogni possibilità di contatto con il resto del mondo; ai giapponesi era proibito di viaggiare all’estero, mentre agli stranieri era proibito l’ingresso del paese. L’unico approdo consentito alle navi straniere, quasi esclusivamente olandesi, era il porto di Nagasaki, attentamente sorvegliato da apposite squadre di doganieri.
Il Giappone visse così per oltre due secoli come ripiegato su se stesso, il medioevo culturale del paese raggiunse il suo apice: si definirono in questo periodo molti dei lineamenti permanenti del popolo giapponese; nasce ad esempio il “kokugaku”, letteralmente “studi giapponesi”, una sorta di ricerca delle proprie origini, che diverrà in seguito una forma di filosofia molto diffusa e apprezzata, secondo cui il Giappone, naturalmente puro, avrebbe ritrovato il suo splendore liberandosi dalle influenze straniere.
Soprattutto, in questo periodo, vengono enunciati e diffusi, per iscritto i principi del “Bushido” (via del guerriero) una specie di codice morale per i samurai, in un certo modo analogo a quello dei cavalieri medioevali.
Sette era i principi basilari del Bushido; onestà e giustizia, eroico coraggio, compassione, gentile cortesia, completa sincerità, onore, dovere e lealtà; il venir meno per il samurai ad uno solo di questi principi comportava l’obbligo del suicidio rituale, il “seppuku”.
Il Bushido non tramontò con la fine dello shogunato e l’inizio dell’era moderna per il Giappone, anzi: successivamente alla Restaurazione Meiji (1866-1869), il bushido si riaffermò, acquisendo come punto fondante il rispetto assoluto dell'autorità dell'imperatore; divenne così uno dei capisaldi del nazionalismo giapponese, non essendo più limitato all’ordine dei samurai, ma divenendo un codice di valenza universale, soprattutto tra le forze armate. Non tutti i princìpi del bushido erano positivi, come, tutto sommato, ci possono apparire quelli sopra enunciati; trai dettami di questo codice, compariva, ad esempio, l'assoluto disprezzo per il nemico che si arrende, che fu la causa dei trattamenti brutali, inumani e degradanti a cui i giapponesi sottoposero i prigionieri ed i popoli sottomessi nel corso della seconda guerra mondiale.
Quanto distante questo atteggiamento dal mos romano (Parcere victis et debellare superbos!!) che poi è divenuto la base dell’etica politica del mondo occidentale. Per i Romani, e quindi per noi, con la resa il nemico deve essere risparmiato, anzi, se possibile, coinvolto nel progetto politico del vincitore: una differenza abissale tra due culture.
D’altro canto, l'inaccettabilità etica della resa non poteva che condurre alla ricerca di una morte onorevole in combattimento e spinse al sacrificio supremo, anche se inutile, tanti combattenti giapponesi nel corso della II guerra mondiale.
L’isolamento del Giappone, su cui sostanzialmente si fondava il potere dei Togukawa, ebbe bruscamente termine l’8 luglio 1853, quando all’imbocco della baia di Tokio si presentò una squadra navale americana (le Navi Nere) al comando del commodoro Matthew Perry. Questi, senza troppi fronzoli, comunicò agli stupefatti funzionari imperiali che non si sarebbe mosso di lì fin quando non gli fosse concesso di scendere a terra e presentarsi alle autorità; la flotta giapponese non era in grado di contrastare le navi americane, quindi Perry poté scendere e consegnare allo shogun la bozza di trattato commerciale proposta dagli Stati Uniti. La mossa americana era infatti motivata da intenti puramente commerciali, gli americani non tolleravano l’esclusiva commerciale concessa agli olandesi e pretendevano libertà di commercio, anche da posizione privilegiata. Perry lasciò un anno di tempo ai suoi interlocutori per riflettere; l’anno successivo si ripresentò a capo di una flotta ancora più robusta ed ottenne la firma della Convenzione di Kanagawa, cui fecero seguito trattati analoghi con Francia, Russia e Inghilterra.
L'evento delle navi nere rappresentò a lungo un episodio indelebile nella memoria storica giapponese, simbolo dell'imperialismo e del colonialismo, oltre che della superiorità tecnologica occidentale.
Sul piano politico, in molti compresero come il punto debole del trattato fosse nell'autorità che lo aveva firmato; lo shōgun infatti, pur detenendo il controllo politico del Paese, traeva tale legittimazione dal mandato imperiale, e quindi per essere valido il trattato avrebbe dovuto essere firmato dall'Imperatore.
Il desiderio di riportare il Giappone alla dignità (percepita) precedente all'umiliazione delle navi nere condusse molti samurai a rinnegare lo shōgun e gli atti da lui firmati, sostenendo che non agisse più nel nome dell'Imperatore.
Età moderna
Con l’arrivo delle navi nere termina il medioevo giapponese: il periodo successivo fu un periodo di intensi conflitti intestini e guerra civile, noto come Bakumatsu, che si concluse con la fine dello shogunato e il ritorno al potere dell'Imperatore (Restaurazione Meiji). L’aver ceduto all’imposizione degli stranieri, infatti, destò un diffuso malcontento ed una reazione xenofoba trai samurai ed alcuni importanti clan si riunirono intorno alla figura del giovane imperatore Mutsushito (che in seguito assumerà il titolo di Meji, l’illuminato) per contrastare lo shogun Togukawa; questi non si arrese facilmente, cercò di creare un esercito moderno importando armi ed istruttori occidentali; al termine di una dura guerra civile, i seguaci di Togukawa furono sconfitti e dispersi ; all’inizio del 1869 ci fu la resa ufficiale di Togukawa, che rappresentò la fine dello shogunato e del suo regime feudale. Il 3 gennaio del 1869, dopo la fuga in Hokkaido delle residue truppe dello shogunato, l'imperatore Mutsuhito, che nel frattempo aveva riportato la capitale a Tokyo, proclamò ufficialmente la restaurazione del potere imperiale con il seguente comunicato:
«L'imperatore del Giappone annuncia ai sovrani di tutti i Paesi esteri e ai loro sudditi di aver concesso allo shogun Tokugawa Yoshinobu di rimettere il potere di governo come da sua richiesta. Da questo momento eserciteremo la suprema autorità in tutti gli affari interni ed esterni del Paese. Di conseguenza il titolo di imperatore deve sostituire quello di Taikun, con il quale erano stati conclusi i trattati. Stiamo per nominare gli incaricati a condurre gli affari esteri. È auspicabile che i rappresentanti delle potenze che hanno siglato i trattati avallino questa dichiarazione.[3]» |
Paradossalmente il tramonto dello shogunato, che era partito da una reazione xenofoba all’ingresso degli stranieri, non solo non riportò il Giappone allo “status quo ante”, ma fu l’occasione per l’apertura del Paese ai modelli politici, economici e culturali dell’occidente.
Nel 1869 alcuni dei principali daimyo ( i signori feudali) rimisero nelle mani dell'imperatore i propri beni e diritti, dando inizio al processo di smantellamento del sistema feudale, che nel 1871, con decreto imperiale, fu definitivamente abolito: al suo posto fu creata una nuova amministrazione locale, basata su governatorati, affidati direttamente dall'imperatore anche ai vecchi signori feudali, ora convertiti in funzionari statali, e prefetture, definite geograficamente. Il decreto stabiliva anche la fine della discriminazione tra le caste in cui era tradizionalmente divisa la società giapponese (Samurai, agricoltori, artigiani e mercanti).
Per quanto riguarda il campo religioso, nel 1868 venne abolito il Buddismo e lo Scintoismo divenne religione di Stato, concedendo però al Paese la libertà di religione.
Subito dopo, gli statisti del periodo Meiji decisero di dare avvio alla formazione di un moderno ed efficiente esercito nazionale, al fine di poter garantire l’indipendenza del Paese ed affermarne il ruolo anche nei confronti delle nazioni estere: nel 1872 il generale Yamagata Aritomo, artefice del nuovo esercito nipponico, emise un'ordinanza con cui veniva istituito il sistema di coscrizione obbligatoria, che, unita a quella che vietava a i samurai di portare la spada, colpiva fortemente i privilegi della vecchia casta militare, limitandone l’influenza sul Paese.
La riforma dell’esercito probabilmente salvò il regime.
Nel 1877, infatti, la casta dei samurai, delusa dall'operato del governo centrale e irritata dalla perdita dei propri privilegi, persuase un vecchio alleato dell'imperatore, Saigō Takamori, a guidare la rivolta contro il governo centrale (nota come Ribellione di Satsuma); inizialmente i rivoltosi ottennero qualche successo, ma nello scontro decisivo contro le truppe regolari, le spade ed il coraggio dei samurai poco poterono contro fucili e cannoni; la ribellione segnò il culmine, ma anche la fine dell’opposizione feudale al nuovo ordinamento. Lo stesso Takamori, sconfitto in battaglia nel settembre 1877, si uccise secondo il codice dei samurai (seppuku).
A questo episodio è ispirato il film di Tom Cruise “L’ultimo Samurai”.
Altro punto qualificante della politica del nuovo governo fu la riforma dell'istruzione, anch’essa ispirata ai modelli occidentali: nel 1872 fu varata una legge sull'istruzione obbligatoria che istituiva il Ministero dell'educazione nazionale e suddivideva il Paese in otto circoscrizioni scolastiche, ciascuna con un'università, 32 scuole secondarie e centinaia di istituti primari. Molti giovani furono anche inviati a studiare all’estero, per portare, al loro ritorno, nuove idee e conoscenze.
Il regime si occupò anche del sistema di informazione nazionale, emanando nel 1875 una legge sulla stampa, che imponeva la registrazione di proprietario, direttore e tipografo dei giornali e la firma su tutti gli articoli, senza l'utilizzo di pseudonimi. Inoltre, il direttore era responsabile dei commenti diffamatori, prese in giro o anche critiche verso l'operato governativo.
Occorreva a questo punto dare un più stabile assetto istituzionale allo Stato, governato ancora, a dispetto delle riforme adottate, dalle vecchie oligarchie.
Un primo passo fu fatto nel 1879, quando in tutto il Giappone vennero convocate assemblee provinciali, elette su base censitaria e deliberanti sui bilanci locali; era un primo timido tentativo di coinvolgere la popolazione nella gestione della cosa pubblica. Subito dopo, nel 1881, l'imperatore Meiji si impegnò solennemente a concedere entro dieci anni una moderna Costituzione ed instaurare un sistema parlamentare. A questo scopo vennero inviati all'estero alti funzionari dell'apparato statale nipponico per meglio studiare i modelli costituzionali europei e vedere quale meglio si applicasse alle necessità del Giappone.
Infine, l'11 febbraio 1889, fu promulgata la nuova costituzione, basata sul modello imperiale tedesco, che riconosceva all'imperatore un potere assoluto e il ruolo di comandante in capo delle forze armate, stabiliva l'istituzione di un Parlamento (detto Dieta Nazionale) bicamerale, con una Camera dei Rappresentanti eletta su base censitaria e una Camera dei Consiglieri, i cui membri erano di nomina imperiale, con poteri molto limitati e un governo responsabile solo di fronte al sovrano. Nel 1890 si svolsero nel Paese le prime elezioni politiche su base censitaria.
In campo economico il governo centrale incominciò con la modernizzazione dell'agricoltura, grazie all'introduzione delle macchine e dei prodotti provenienti dall'Occidente e alla rivisitazione dell'imposta sul sistema fondiario con la compilazione di un moderno ed efficiente catasto; nel 1871 fu emanata una legge finanziaria che sostituiva il complesso sistema monetale dell’ epoca Tokugawa con una nuova monetazione su base decimale, basata sullo yen, mentre nel 1873 il governo riformò il sistema fiscale introducendo una tassazione fondiaria basata sull'assegnazione di certificati di proprietà da parte del governo, che consentirono il passaggio alla proprietà privata della terra.
Molta attenzione fu anche data alla rete di comunicazione e trasporti, con l'inaugurazione, il 12 giugno 1872, della prima ferrovia nipponica, che collegava Tokyo a Yokohama.
Grandi energie, infine, vennero dedicate alla politica industriale nipponica, in modo da evitare che l'economia nazionale, dopo l’apertura dei confini, fosse preda delle società europee ed americane. Per questo, dopo l'abrogazione dei "trattati ineguali", la partecipazione statale favorì la nascita del primo capitalismo industriale, attraverso la creazione di grandi gruppi finanziari, ceduti in seguito ad investitori privati; una legislazione di stampo protezionista doveva sorreggere il nascente sistema industriale, incoraggiando anche le esportazioni. Nel 1882, fu istituita la Banca centrale del Giappone.
In buona sostanza, la “Restaurazione Meji” conduce per mano il Giappone nell’era moderna, trasformando in pochi decenni un sistema ed un’economia feudali, in un paese capitalista e industriale, capace di reggere il confronto con le maggiori potenze occidentali; la profondità e la rapidità di questa trasformazione non cessano di stupire, forse solo la Cina in tempi recenti ha conosciuto un cambiamento altrettanto veloce.
Al tempo stesso, però. alcuni dei caratteri profondi del paese permangono; i vecchi clan feudali non scompaiono, si riciclano nella politica, nell’economia e, soprattutto nell’esercito. Nascono in questo periodo gli “zabaitsu” conglomerati finanziari e industriali controllati da grandi famiglie, tutte di origine samurai; i nomi degli zabaitsu nati alla fine dell’800 ci suonano ancora familiari, Mitsubishi, Mitsui,Sumitomo e Yasuda. Altre zaibatsu nascono subito dopo la guerra russo-giapponese, Okura, Furukawa, Nakajiima Hikoki e Nissan.
Soprattutto la società giapponese resta impermeabile allo spirito dialettico, che è la base delle democrazie occidentali, e questo rende illusoria l’evoluzione verso un sistema politico liberale. L’imperatore è idolatrato, l’obbedienza ai suoi ordini, anche mediati dal governo e dai suoi funzionari, è un dovere morale per ogni giapponese; di questo si approfittano le cricche politiche, che si sviluppano all’ombra della corte e nell’esercito, colluse con i grandi zabaitsu, che trasformano ben presto il sistema giapponese in un nuovo tipo di oligarchia di stampo capitalista e militare.
Anche la politica estera del Giappone cambia totalmente rispetto a quella perseguita dallo shogunato: al posto dell'isolamento internazionale, il nuovo governo decide di attuare, oltre all'apertura con l'Occidente, una aggressiva politica imperialista, che avrebbe dovuto portare il Paese sullo stesso livello delle potenze europee, in particolare assumendo una posizione predominante nel sud-est asiatico. Grazie all'istituzione di un forte esercito e di una marina da guerra efficiente, il Giappone incominciò la sua espansione nell'area: inizialmente si trattò di spedizioni navali contro Formosa e contro la Corea. Poi si passò a operazioni militari di maggiore portata; due furono le guerre significative che segnarono l'inizio dell'espansionismo giapponese: una contro la Cina (1894-1895), che venne sconfitta e fu costretta a cedere, tra l'altro, Formosa, le Pescadores e a riconoscere l'indipendenza della Corea, oltre che a pagare ingentissime riparazioni, e l'altra, più importante, contro l'Impero Russo (1904-1905).
La seconda guerra è conseguenza della prima: la Cina, fortemente indebolita ed anche indebitata per il precedente conflitto, non è più in grado di resistere agli appetiti delle potenze occidentali; la Francia ottiene la correzione, a proprio vantaggio, dei confini del Vietnam, la Germania, che aveva interessi nello Shandong, ottiene vaste concessioni minerarie e l’affitto per 99 anni del porto di Tsingtao, la Gran Bretagna, anch’essa, l’affitto per 99 anni dei “Nuovi Territori” ad Hong Kong.
La Russia, dal canto suo, non sta a guardare: negozia un trattato con la Cina, che le consente di costruire un collegamento ferroviario in Manciuria, fino a Port Arthur, di cui ottiene l’affitto per 25 anni; è il coronamento del sogno zarista di un accesso ai mari caldi, visto che il porto di Vladivostock è bloccato dai ghiacci per 8 mesi l’anno.
L’umiliazione subita dagli imperatori Qin determina una forte reazione xenofoba in Cina, che esplode nella cosiddetta rivoluzione dei “Boxers” (1900): una spedizione internazionale di otto nazioni (la vicenda è stata oggetto del film “55 giorni a Pechino”) schianta l’esercito Qin: in particolare i russi, che avevano inviato contingenti per quasi 100.000 uomini, occupano militarmente la Manciuria ed iniziano a fortificare Port Arthur.
Questa iniziativa mette i russi in rotta di collisione con i giapponesi, che avevano anch’essi ambizioni su questo porto e le zone circostanti; hanno inizio lunghe e complesse trattative a San Pietroburgo; i giapponesi sono disposti a chiudere un occhio sulla Manciuria, purché la Russia riconosca la Corea come zona d’influenza giapponese.
Il fallimento dei negoziati, i russi non vogliono cedere la Corea, porta alla guerra: i giapponesi attaccano Port Arthur, senza dichiarazione di guerra e la cingono d’assedio, interrompendo la linea ferroviaria con la Manciuria. La flotta del Pacifico russa, intrappolata nel porto, viene bersagliata e distrutta dalle artiglierie giapponesi ed infine il 2 gennaio 1905 Port Arthur si arrende.
Scosso da questa disfatta, lo Zar tenta una mossa disperata, invia nel Mar della Cina la flotta russa del Baltico; i russi però sono costretti a compiere il periplo del continente africano, gli inglesi negano il passaggio per il canale di Suez, e giungono alla meta esausti, con le navi in pessime condizioni: l’ammiraglio giapponese Togo è al corrente dei loro piani, addirittura della data esatta del loro arrivo; tende una trappola nello stretto di Corea, di fronte all’isola di Tsushima ed annienta la flotta russa (27 maggio 1905, battaglia di Tsushima).
I generali dello Zar vorrebbero proseguire la guerra, trasportando nuovi contingenti militari sulla Transiberiana, ma la rivolta di San Pietroburgo (l’episodio della corazzata Potiemkin è collegato a questi eventi) preclude ogni possibilità di prosecuzione del conflitto. Con la mediazione del presidente americano Theodore Roosevelt si sigla il Trattato di Portsmouth, con cui il Giappone ottiene dalla Russia la parte meridionale dell'isola di Sachalin e il protettorato sulla Manciuria e sulla Corea, che poi verrà annessa formalmente nel 1910 malgrado le proteste di tutte le altre nazioni.
Per la prima volta una nazione asiatica sconfigge una grande potenza occidentale, per la prima volta una nazione asiatica si afferma come potenza imperialista.
Questo è il Giappone che si affaccia all’età contemporanea; una nazione singolarmente simile alla Germania guglielmina, per quanto concerne l’ordinamento politico, ma sostanzialmente diversa da tutti gli stati occidentali per etica individuale e collettiva.
Quanto segue, fino a Pearl Harbour è la logica conseguenza di queste premesse.