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Voltaire

 

Meryle Secrest: Il caso Olivetti - Rizzoli, Novembre 2020 - La recensione

di Michele Pacifico

 

La storia della Olivetti attrae da sempre la curiosità e l’interesse di un vasto pubblico, per molte e comprensibili ragioni: nei suoi cento anni di storia la Ing. C. Olivetti & C. SpA, come si chiamò ufficialmente dalla sua fondazione nel 1908, diede lavoro a decine di migliaia di persone, i suoi prodotti entrarono in tutti gli uffici e in innumerevoli abitazioni private, non solo in Italia, ma in tutto il mondo e il suo capo più importante e autorevole, Adriano Olivetti, fu al centro dell’interesse non soltanto economico, ma sociale, politico e culturale dell’Italia in quel turbolento periodo che seguì la fine della seconda guerra mondiale, durante il quale si manifestò il cosiddetto “miracolo economico”.

L’interesse per la storia della Olivetti è dimostrato dai numerosi libri che negli anni sono stati pubblicati sull’argomento, accolti spesso da un buon successo di pubblico. Molti di questi libri sono testimonianze autobiografiche di persone che hanno avuto un ruolo – di primo o secondo piano, non importa – nella guida della società; assai numerosi sono gli studi di economisti e sociologi che hanno scritto pregevoli analisi del complesso fenomeno della storia industriale della società e quasi ogni anno escono nuovi libri degni di essere, se non studiati con attenzione, almeno letti ed esaminati. Uno degli ultimi libri con queste caratteristiche è stato pubblicato di recente da Rizzoli col titolo Il caso Olivetti, ed è la traduzione dell’opera della ricercatrice americana Meryle Secrest pubblicata negli Stati Uniti nel novembre del 2019 col titolo The Mysterious Affair at Olivetti.

Il titolo della traduzione italiana è più sobrio del titolo originale, che qualifica come “misterioso” quello che definisce un “affair”, reso correttamente con “caso” nella versione italiana: due termini — “caso” e “affair” — che nella convenzione editoriale americana e in quella italiana si usano per riferirsi a un evento di tipo criminale, di quelli che si descrivono nelle cronache giudiziarie o nei romanzi polizieschi. O di spionaggio.

L’impressione che si intenda parlare del “caso Olivetti” come si parlerebbe di una vicenda a sfondo criminale o spionistico è accentuata dagli “strilli”, come si chiamano in gergo tipografico, le scritte sulla copertina della versione italiana: uno “strillo” declama: “La IBM, la CIA, la Guerra fredda”, l'altro evoca “e la misteriosa fine del primo personal computer della storia”.

L’originale americano è ancora più esplicito, non allude ma declama nel lungo sottotitolo: “La IBM, la CIA e la cospirazione della guerra fredda per bloccare la produzione del primo computer da scrivania del mondo”. A centro copertina compare una foto della Programma 101, la calcolatrice elettronica programmabile da tavolo presentata dalla Olivetti alla Fiera di New York nel 1965.

Al centro della copertina della versione italiana del libro, affiancata dalle scritte che abbiamo riportato sopra, compare una bella fotografia che ritrae Roberto Olivetti e Mario Tchou in cordiale conversazione. Altri spazi della copertina sono occupati da due immagini della Programma 101.

 A questo punto, senza neppure aprire il libro per iniziare la lettura, si può già concludere che le due copertine, quella americana originale e quella della traduzione italiana sono vere e proprie “bufale” tali da invitare e buttare il libro nel cestino della carta straccia, se abbiamo commesso l’errore di acquistarlo in libreria, o di lasciarlo sul bancone dello sfortunato libraio che lo ha messo in assortimento pensando di avere tra le mani chi sa quale scoperta poliziesco/spionistica. Perché? Per la semplice ragione che non ci fu alcuna “misteriosa fine” della Programma 101: progettata e costruita in Olivetti fra il 1964 e il 1965 fu presentata al mercato mondiale nella Fiera di New York del 1965, dove ebbe un successo commerciale di assoluto rispetto, entrò in produzione lo stesso anno, si vendette per alcuni anni in tutto il mondo, con particolare successo negli Stati Uniti, dove fra i suoi clienti più importanti ci fu la NASA, vendette 44.000 esemplari al prezzo non banale di 3.200 dollari l’uno ed è stata all’origine di molti altri prodotti di successo progettati e venduti in tutto il mondo dalla Olivetti nei successivi Anni Settanta. Quindi, niente CIA, niente Guerra fredda intente a bloccare il successo della Programma 101; quanto all’IBM, nel 1964 era leader assoluto nel crescente mercato dei grandi computer e non poteva avere il benché minimo interesse per una macchina come la Programma 101 che per IBM non rappresentava certo una minaccia.

Dal momento che abbiamo il libro in mano, prima di buttarlo proviamo a dare un’occhiata al suo contenuto: già nella seconda pagina troviamo questa domanda retorica, che è – nelle intenzioni dell’autrice – la chiave di lettura di tutto il libro:

La morte di Adriano nel 1960, quella di Tchou nel 1961 e la chiusura dell’avanguardistico laboratorio di elettronica hanno sempre alimentato sospetti. Ma che cosa accadde davvero il 27 febbraio 1960 sul treno diretto in Svizzera, e l’anno successivo sul cavalcavia della Milano-Torino che conduceva al casello di Santhià?

Ci siamo: i riferimenti della copertina sono fuorvianti, il libro non intende parlare del destino della Programma 101 ma il suo obiettivo è “fare luce” (si fa per dire) su tre eventi considerati sospetti, vale a dire:

  • la morte di Adriano Olivetti, avvenuta mentre viaggiava su un treno partito da Milano e diretto a Losanna il 27 febbraio 1960;
  • la morte di Mario Tchou, capo del Laboratorio di Ricerche Elettroniche Olivetti, avvenuta il 9 novembre 1961 e
  • lo scorporo delle attività informatiche della Olivetti, cedute alla General Electric nel 1965.

Si può dire che la ricostruzione della vicenda Olivetti che porterebbe l’autrice a fare chiarezza su questi eventi considerati sospetti ha del nuovo e ha del bello: il bello, però, non è nuovo e il nuovo non è bello.

Per quanto riguarda il bello, l’autrice attinge con disinvoltura alle fonti ufficiali più note e autorevoli per raccontare la storia della Olivetti prendendo le mosse dai primi passi imprenditoriali di Camillo Olivetti, dilungandosi sulle complesse vicende familiari e matrimoniali della famiglia, in un’esposizione prolissa e non poco pasticciata, mal servita dalla traduzione italiana, dove si parla sempre di “macchine da scrivere”, espressione che stride alle orecchie di ogni olivettiano DOC come chi scrive, abituato da una vita a dire, correttamente, “macchine per scrivere”.

Occasionalmente compaiono sviste grottesche: viene citato (doverosamente) Renzo Zorzi, uno dei collaboratori più importanti di Adriano Olivetti, con questa premessa:

Renzo Zorzi, suo amico e celebre pilota automobilistico, ha dichiarato:

Chi scrive ha frequentato per lavoro Renzo Zorzi e l’idea che fosse un pilota automobilistico e per di più celebre non gli è mai passata per la mente, considerato il personaggio: un finissimo intellettuale a capo per gli anni migliori niente di meno che della pubblicità della Olivetti, il che è tutto dire. Un rapido controllo sul Web chiarisce l’arcano: su Wikipedia esistono due voci “Renzo Zorzi”, una riferita al dirigente storico della Olivetti e l’altra riferita a un corridore automobilistico: se tanto mi dà tanto. . .

Il nuovo, se così possiamo chiamarlo, presentato dall’autrice è il coinvolgimento di Adriano Olivetti con l’Office of Strategic Services, dal quale derivò, dopo la guerra, la Central Intelligence Agency:

Aveva iniziato, con chissà quale pretesto, a fare spesso avanti e indietro verso Berna, in Svizzera, e si era messo personalmente in contatto con un vero pezzo grosso: Allen Dulles, il direttore dell’Office of Strategic Services. Così era diventato una spia degli americani, Adriano era diventato una spia americana, la numero 660.

Non solo l’OSS, ma anche il servizio segreto inglese, come afferma poche pagine più avanti:

Olivetti aveva già avuto contatti occasionali con i servizi segreti britannici, e in particolare con lo Special Operations Executive, o SOE, che gli aveva affibbiato il nome in codice – anonimo ai limiti del ridicolo – di Mr Brown.

Come vadano le cose nella vita reale dei membri dei servizi segreti non è dato saperlo, ma nella narrativa di spionaggio vale la convenzione “Semel abbas, semper abbas”, in base alla quale chi è stato arruolato una volta nei Servizi segreti resta arruolato per sempre. E quando una spia non serve più o si comporta in modo scorretto, viene eliminata fisicamente, che sia oppure no in servizio attivo.

Secondo l’autrice, quindi, la morte di Adriano Olivetti sul treno che lo portava a Losanna in quella fatale serata del 27 febbraio 1960, attribuita a una emorragia cerebrale (diagnosi non confermata da una autopsia, che non venne eseguita) non può essere che una esecuzione, deliberata dai servizi segreti americani, per neutralizzare un imprenditore che – con le sue iniziative d’avanguardia nel campo dell’elettronica – rappresentava una minaccia per la International Business Machines, nota con la sigla IBM, l’impresa americana leader nel mercato dei calcolatori elettronici, considerata dalla CIA essenziale nella strategia della Guerra fredda per via del ruolo importante che aveva avuto e continuava ad avere  nello sviluppo del sistema SAGE (Semi-Automatic Ground Environment) per la difesa antimissile degli Stati Uniti.

L’autrice non dichiara espressamente questa che è una “bufala” colossale, ma vi allude in vari modi, tratteggiando un quadro della società italiana nella seconda metà degli Anni Cinquanta del secolo scorso tenuta sotto stretta sorveglianza da tutte le forze della Guerra fredda, da quelle palesi come Clare Booth Luce, la super reazionaria ambasciatrice degli Stati Uniti a Roma alle milizie dell’organizzazione segreta Gladio e via enumerando. Paradossale un inciso che citiamo testualmente:

Dettaglio curioso, il nuovo esecutivo [Fernando Tambroni] si insediò a neanche un mese dalla morte di Adriano Olivetti, mancato il 27 febbraio 1960.

In sintesi: nel contesto generale di subalternità dell’Italia alle forze impegnate dagli USA nella  Guerra fredda, l’eliminazione fisica di Adriano Olivetti ci poteva anche stare.

Chiunque abbia un po’ di familiarità con la vicenda dell’informatica (chiamata “elettronica” agli albori) della Olivetti ha presente la figura di Mario Tchou, lo studioso di famiglia cinese nato a Roma nel 1924, che aveva iniziato gli studi di ingegneria a Roma nel 1943 per poi continuarli negli Stati Uniti, dove conobbe Adriano Olivetti e venne ingaggiato per avviare e dirigere il Laboratorio di Ricerche Elettroniche dove sarebbero nati i computer della Olivetti.

Sulla qualità umana e manageriale di Mario Tchou il giudizio di tutti quelli che hanno lavorato con lui è unanime: fu un eccellente tecnico e un autorevole leader, che orientò con grande professionalità i suoi collaboratori, ottenendo il meglio da tutti. Stando così le cose, si può immaginare quanto furono grandi la costernazione e il senso di smarrimento che invasero la Divisione Elettronica della Olivetti nella quale era inquadrato con un ruolo essenziale il Laboratorio di Ricerche Elettroniche quando il 9 novembre 1961 arrivò la tragica notizia delle morte dell’ingegner Tchou, a soli 37 anni per un incidente automobilistico.

Mario Tchou aveva acquistato in Svizzera  un’automobile americana, alla quale era affezionato: si trattava di una Buick Skylark, una decappottabile lunga quasi cinque metri, appartenente a pieno diritto a quella categoria di automobili che il critico sociale americano  Ralph Nader avrebbe designato qualche anno dopo come “Unsafe at Any Speed”, mettendo sotto accusa la General Motors (uno dei cui marchi era Buick) e l’intera industria automobilistica americana per l’intrinseca inaffidabilità delle loro automobili, progettate e costruite senza un’adeguata attenzione per la sicurezza e la stabilità.

La dinamica dell’incidente è stata ricostruita nelle sue linee essenziali: l’ingegner Tchou era seduto sul divanetto posteriore, perché doveva leggere dei documenti che gli sarebbero serviti per l’incontro che aveva previsto a Ivrea, dove era diretto. Guidava l’auto un giovane autista della Olivetti, Francesco Frinzi, molto pratico della guida delle vetture aziendali (tutte Alfa Romeo e Fiat di grande cilindrata) ma non altrettanto pratico della guida della Skylark. Quel giorno l’autostrada Milano-Torino che si doveva percorrere per andare da Milano a Ivrea era coperta dalla nebbia e così, mentre stava facendo un sorpasso, l’autista si vide davanti all’improvviso un furgone che spuntava dalla nebbia: istintivamente piantò una frenata, che avrebbe inchiodato un’Alfa Romeo. Ma la Skylark si imbarcò, fece una piroetta e andò a schiantarsi contro il furgone, che nel frattempo si era fermato: autista e passeggero morirono sul colpo.

L’autrice non esita a considerare la tragica fine di Mario Tchou come una eliminazione deliberata, da correlare con la morte, per lei misteriosa, di Adriano Olivetti poco più di un anno prima e così conclude una lunga dissertazione sull’argomento:

la corsa di Adriano a costruire il computer e il suo ingresso in territorio statunitense attraverso l’acquisizione dell’Underwood avevano scatenato preoccupazioni ai piani alti […] la sua morte – avvenuta soli tre mesi dopo – può essere vista come il primo tentativo per chiudere per sempre la Olivetti, vista come società informatica canaglia. Quando fu chiaro che l’obiettivo non era stato centrato, e che Mario Tchou aveva raccolto la sfida con un successo strabiliante […] ciò poté bastare a decretare la sua fine. E c’era sempre a disposizione il gruppo criminale di Gladio, l’esercito segreto creato dalla NATO, che aspettava senza nulla da fare.

La teoria del complotto viene riproposta – in questo caso con qualche elemento di plausibilità – nel raccontare la dinamica finanziaria, gestionale e organizzativa che, a partire dal 1962, si sviluppò ai massimi livelli della Olivetti e del sistema finanziario e bancario italiano concludendosi con lo scorporo nel 1965 della Divisione Elettronica della Olivetti e il suo conferimento in una società chiamata Olivetti-General Electric (OGE) il cui capitale sociale era per il 75 per cento della General Electric e per il 25 per cento della Olivetti, con diritto di opzione della General Electric che di lì a poco lo esercitò rilevando la quota della Olivetti e trasformando la OGE in GEISI: General Electric Information Systems Italia.

Su questo argomento l’autrice si rifà ai testi più noti dei sostenitori della teoria del complotto, da Capitalismo predatore di Bruno Amoroso e Nico Perrone a Il miracolo scippato di Marco Pivato.

L’autrice porta fino ai limiti dell’assurdo le sue argomentazioni sul complotto contro la Olivetti, arrivando a scrivere quanto segue in merito alla gestione di Ottorino Beltrami, che fu amministratore delegato di Olivetti dal 1971 al 1978:

[…] quando Visentini revocò a Roberto Olivetti la carica di amministratore delegato, nel 1971, la carriera di Beltrami fece un balzo in avanti ancor più sensazionale: fu assunto per rimpiazzare il suo precedente capo. Dev’essere stato umiliante, per il figlio di Adriano. E, come se non bastasse, fu costretto a restare a guardare mentre quell’uomo – il Comandante – indebitava la società fino quasi a distruggerla. Le prove parlano da sole. Beltrami aveva ricevuto il preciso mandato di chiudere la Olivetti, o almeno di impedire che intralciasse ancora gli interessi americani, e lo stava eseguendo alla lettera. In passato aveva servito l’intelligence militare italiana, e con tutta probabilità anche i nazisti; di certo aveva lavorato al Piano Marshall, quindi per la CIA, e forse sapeva persino di Gladio e delle sue connessioni con la mafia. Che ruolo svolse, facendo il doppio gioco, quell’affabile e diplomatica ex spia nei machiavellici schemi che si andavano dipanando? E cosa disse a Adriano in quell’ultimo, fatidico viaggio in treno, per far sì che l’umore di Olivetti passasse dal vivace ottimismo all’inquietudine?

L’ultimo inciso è un capolavoro di cialtroneria: allude al fatto che Beltrami fu una delle ultime persone che Adriano Olivetti incontrò a Milano il 27 febbraio 1960, poche ore prima di salire sul treno per Losanna dove sarebbe morto.

Il testo che abbiamo appena citato “parla da solo”, per usare le parole dell’autrice: quando si arriva a leggere dichiarazioni così ignobilmente diffamatorie non è neppure il caso di continuare nella lettura e quindi possiamo consegnare senza rammarico il libro al cestino della carta straccia.

 

Inserito il:22/02/2021 10:13:38
Ultimo aggiornamento:22/02/2021 10:21:31
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