Abbas ibn Ali à la bataille de Karbala, par le peintre persan Abbas al-Moussavi
Storia della Persia - 9
di Mauro Lanzi
Gli sciiti
Tomba di Alì, quarto Califfo e primo Imam
Dobbiamo abbandonare brevemente la narrazione degli eventi della storia persiana, per trattare un aspetto di importanza essenziale per comprendere lo spirito della nazione persiana, fino ai nostri giorni, cioè la religione che qui si è imposta, la religione sciita.
La religione sciita ha oggi in Iran il suo principale punto di riferimento, ma, ancora di più, è ed è stata per secoli l’elemento identitario del Paese. Occorre quindi spendere qualche parola in merito agli sciiti, alle origini ed ai lineamenti della loro fede ed alle ragioni del loro contrasto con gli ortodossi, i sunniti.
Innanzitutto il significato del termine: “scia” significa partito ed indica in forma emblematica il partito di Alì. Alì era stato uno dei più stretti collaboratori di Maometto, marito della sua unica figlia, Fatima; alla morte del Profeta (632), quindi, Alì si riteneva il più qualificato a succedergli, ma l’assemblea degli anziani e dei capi clan decise diversamente, nominando Califfi, in sequenza, due valenti guerrieri, Abu Bakr ed Omar, che portarono le bandiere dell’Islam fino in Siria, Palestina ed Egitto. Anche il terzo Califfo, Osman, venne eletto, questa volta per l’appoggio di un ricco e potente clan, basato a Damasco, gli omayyadi. Osman era un mite studioso, a lui si deve la prima versione scritta degli insegnamenti del profeta, il Corano; tanto non bastò a fermare i suoi nemici, Osman morì assassinato. A questo punto la candidatura di Alì non aveva più avversari, quindi Alì fu il quarto Califfo eletto, ma si trovò ben presto a dover affrontare la dura opposizione degli omayyadi che non si rassegnavano alla perdita del loro candidato al vertice del potere; Alì, temendo per la sua vita, abbandonò Medina e si rifugiò lontano dai territori arabi, a Kufa sull’Eufrate, che divenne quindi la base dei suoi primi seguaci, in seguito detti sciiti. Quando nel 661 Alì venne assassinato da un fanatico nella moschea di Kufa, il capo del clan omayyade, Muawija colse la palla al balzo e si fece eleggere Califfo; il primo figlio di Alì, Hassan, che pure raccoglieva l’appoggio dei seguaci del padre, rinunziò ad ogni titolo e si ritirò a Medina con un ricco appannaggio.
La frattura nel mondo musulmano si verificò quindi più tardi, nel 680, alla morte del Califfo Muawija, il quale, con un’iniziativa fuori di ogni regola e consuetudine, nominò suo successore il figlio Yesid; il Califfato diviene così un’istituzione dinastica. C’era però ancora in vita un nipote del Profeta, figlio di Alì, fratello minore di Hassan, che compiva allora vent’anni, Hussein (o Husayn). Hussein non si rassegna al fatto compiuto, raduna i suoi seguaci, cerca di creare un’opposizione al nuovo califfo, ma nella decisiva battaglia di Kerbala viene sconfitto ed ucciso dalle preponderanti forze degli omayyadi. Gli abitanti della vicina città di Kerbala assistono
allo scempio senza intervenire; ancora oggi gli sciiti ricordano questo evento con “l’Ashura”, il giorno dell’espiazione (a sinistra una processione di flagellanti nel giorno dell’Ashura).
La figura dell’ultimo Imam è altro elemento discriminante per gli sciiti; dal ceppo principale si
distaccò nel IX secolo una corrente, detta degli “ismaeliti” o sciiti del settimo Imam, Ismail appunto, che dopo la sua morte fu considerato l’ultimo “messaggero” divino; da questa corrente discese anche la più terrificante delle sette islamiche, la setta detta degli “Assassini”, citata anche da Marco Polo. La guidava Hasan al Sabbah, detto anche il “Vecchio della Montagna”, che dalla imprendibile fortezza di Alamut ( a destra le rovine) guidava un esercito di fanatici che seminava il terrore con attentati capaci di colpire le personalità più in vista, compreso il gran visir. Gli adepti, prima delle loro missioni, assumevano haschich, da cui il nome di haschichin, assassini.
Nessuno riuscì ad aver ragione di questa setta sanguinaria fino all’arrivo dei mongoli; Hulegu cancellò per sempre le loro fortezze ed il loro esercito (1256). Alcune comunità ismailite sopravvissero comunque e trovarono nuovi seguaci, in Persia ed in India; oggi contano con 15 milioni di fedeli, il loro capo spirituale è l’Aga Khan.
La corrente principale degli sciiti, però, è quella detta del dodicesimo Imam; questi sarebbe stato l’Imam Muhammed Al Muntasar, scomparso in forma misteriosa nell’873 d.c., probabilmente rapito o assassinato dai soldati del califfo. Alcuni anni dopo la sua morte comparvero, in ambienti sciiti, alcuni frammenti di scritti prima sconosciuti, nei quali il Profeta avrebbe annunziato, alla fine dei tempi, la comparsa di un uomo della sua famiglia che avrebbe riportato la giustizia sulla terra; gli sciiti si convinsero che questi fosse non altri che il dodicesimo Imam, non morto, ma eclissato per ricomparire prima della fine dei tempi e guidare l’Islam alla vittoria. I sunniti negano ovviamente che queste asserzioni siano da attribuire a Maometto, ma per gli sciiti l’attesa di un “mahdi” (guidato dalla giustizia) è un articolo di fede, un dogma; questo ha consentito loro di rientrare nella storia, rinviare la piena attuazione delle leggi divine alla fine dei tempi ed accettare, quindi, governi non utopistici.
Su un punto però sono sempre rimasti irremovibili; ogni principe o governante non deve considerarsi signore assoluto, ma soltanto luogotenente dell’Imam scomparso; in questa sua veste, deve prestare ascolto ai capi religiosi che vegliano, in nome dell’Imam, sul rispetto della morale islamica. Il principe o governante che non accetta i loro consigli può essere censurato od anche rimosso. Questo è il criterio che ha causato la caduta dello Shah ad opera di Khomeini, questa è la base dottrinaria su cui si regge la teocrazia che governa oggi l’Iran.
Moschea di Kerbala, uno dei luoghi sacri sciiti