Eric Forster (from Fresno, California, United States) - Journalism
La Olivetti vista con gli occhi di un dipendente - 7
L’esperienza dell’Ufficio Stampa
di Rolando Argentero con Cesare Verlucca
Era da tempo che collaboravo esternamente con Notizie Olivetti, soprattutto con le cronache del Gruppo Sportivo Ricreativo di cui ero vicepresidente. L’amico Ermanno Franchetto mi diceva spesso di insistere che sarebbe venuto presto il giorno in cui mi avrebbero inserito nell’organico. In realtà alla guida dell’Ufficio Stampa erano già passati diversi responsabili, ma le mie speranze di esservi trasferito, dai montaggi in cui mi trovavo, tardava a realizzarsi.
Fu Mario Minardi, originario di Grosseto, giornalista professionista e buon amico di Franchetto (avevano scritto a quattro mani un buon libro sul Canavese), a mandarmi a chiamare un giorno per annunciarmi che la giuria del premio Pacces (un concorso riservato alla stampa aziendale) mi aveva assegnato il primo premio per l’anno 1961, quello che celebrava il centenario dell’Unità d’Italia. Venni invitato a Torino, mi fu consegnata una medaglia, e un discreto assegno. Soprattutto Minardi mi fece un discorso d’apertura, informandomi che ora che era alla guida dell’ufficio, meglio tenermi pronto per la chiamata.
Il tempo, però, non sembrava passare mai. Infine, dopo diversi momenti di sospensione, sospiri, illusioni e, soprattutto, delusioni, venne il giorno in cui la chiamata arrivò e approdai all’Ufficio Stampa.
Entrai spavaldo, credendo di sapere tutto; sbagliavo! In quell’ambiente era come e più di una farmacia. Occorreva saper dosare con cura ogni sostantivo, verbo, aggettivo: non uno di più, non uno di meno. Credevo di sapere tutto; invece, non conoscevo neppure l’abc. Pazientemente, ancora una volta, fu l’amico Franchetto a tirarmi fuori dai guai. Con molto buon senso, Minardi, profondo conoscitore degli uomini, ci aveva sistemati nello stesso ufficio: Ermanno, “anarchico creatore”, e io, freddo esecutore, sempre presente al mattino presto o alla sera tardi, a differenza dell’amico-collega che amava attardarsi nel letto per smaltire gli eventuali eccessi della notte precedente. Eravamo diversi, eppure ci completavamo.
Impiegai alcuni mesi ad adeguarmici, fino a che mi venne consegnata la “patente”: abile, arruolato, adesso puoi guidare!
Finché l’azienda rimase di puro stampo “olivettiano” non ci furono molti movimenti nel nostro Ufficio. Quando nella primavera del 1978 l’ingegner Carlo De Benedetti entrò a far parte del Consiglio d’amministrazione dell’azienda si avvertì come uno shock anche nei nostri uffici. Lo stesso De Benedetti, che assunse la carica di vicepresidente e amministratore delegato, passando in visita da noi, spiegò i suoi desiderata.
«Tutti i giorni alle 8,30 gradirei avere sulla mia scrivania una rassegna di tutti i principali fatti accaduti nel mondo».
«È un compito che toccherà a te», decise Minardi, guardandomi.
Ermanno, un po’ più anziano di me, trovando che i ritmi non fossero adatti a lui, se ne andò, lasciando un vuoto enorme. Abbracciandomi mi disse, profetico: «L’hai voluta la bicicletta, adesso pedala! E tanti auguri».
Era come scalare l’Everest, con le scarpette da ginnastica; a ogni passo rischiavi di sfracellarti.
Ma con coraggio, determinazione e molta, molta fortuna, anche quel ragazzo che tanto aveva faticato nelle scuole inferiori, infine tagliò il traguardo massimo consentito in azienda, ottenendo una incredibile felicità che lo portò a ripensare con gratitudine ai genitori defunti.
In ogni angolo c’è un buon Dio che ti protegge, anche se tu non lo vedi e forse non lo meriti. L’esperienza la si acquisisce con il tempo.
Ricordo di aver sottolineato con un lapis rosso sul libro Il mulino del Po di Riccardo Bacchelli una interessante massima che si adattava perfettamente a me: “L’esperienza è quel che ci rimane dopo che s’è perso tutto il resto”.
Il “bello” doveva però ancora avvenire.
Per qualche anno non cambiò niente nell’azienda, poi il presidente, il professore Bruno Visentini (coinvolto nel Partito Repubblicano che faceva parte del governo), venne chiamato a incarichi ministeriali di primo livello. E chi chiamò accanto a sé a Roma? Ovviamente, Mario Minardi di cui aveva stima e fiducia.
Nel nostro ufficio cominciarono così diversi movimenti: nuove persone vennero assunte per sostituirlo, ma – chi per una ragione, chi per un’altra – nessuna si rivelò all’altezza. Tutti desideravano troppo e subito. Io sapevo che si trattava di un lavoro praticamente senza orario, sette giorni su sette, e che non avevo un’adeguata preparazione scolastica.
Minardi comprese che forse era meglio un caporal-maggiore meno dotato di titoli, ma fedele e non così creativo, e scelse me. D’altronde il lavoro a Roma glielo consentiva: il lunedì mattino presto lo trascorreva a Ivrea, e insieme facevamo il punto su quanto avrebbe dovuto avvenire nella settimana, poi partiva per il suo impegno ministeriale. Grazie alle linee telefoniche ci sentivamo più volte al giorno, se necessario, sia per l’ingegner De Benedetti che per suo fratello Franco, pure lui laureato in ingegneria e con il ruolo di amministratore delegato (e le loro rispettive segretarie che mi presero in simpatia).
Minardi, poi, salvo casi eccezionali, il venerdì pomeriggio si ripresentava in ufficio e dopo un colloquio con me per farsi aggiornare sui fatti più importanti, sulle visite dei giornalisti, sulle richieste dei due amministratori delegati, compiva un salto in presidenza e verificava di fatto che tutto fosse andato come gli avevo espresso durante la settimana. Soltanto dopo tornava a casa a rivedere la famiglia: una vita non facile, ma chi doveva seguire un ministro – e che ministro! – doveva mettere in preventivo una serie di sacrifici, tra cui, in prima fila, quello della famiglia che sarebbe venuta sempre dopo.