Aggiornato al 21/12/2024

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Voltaire

 

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La Rivoluzione francese (5) - Costituente, riforme, fuga del Re.

di Mauro Lanzi

 

La questione finanziaria

Abbiamo ampiamente trattato della crisi finanziaria che attanagliava l’Ancien Regime e ne fu una delle cause principali del collasso, per l’incapacità del monarca e dei suoi governi di porvi rimedio. Malgrado ciò, malgrado la bancarotta proclamata dal Tesoro già nel 1788, nel fervore di idee e di programmi che accompagnò i primordi della Rivoluzione, della crisi finanziaria non parlava più nessuno; prevalevano i grandi motivi ideali, le istanze politiche che avrebbero dovuto ridisegnare la Francia, ma proprio questi ideali, proprio la liquidazione dell’Ancien Regime andavano producendo oneri aggiuntivi per l’erario: la soppressione di rendite e privilegi richiedeva delle compensazioni, l’abolizione delle decime al clero poneva il mantenimento dei religiosi a carico dello stato ed altro ancora. A tutto ciò si aggiungevano i problemi del nuovo sistema di tassazione che si era voluto introdurre; le finanze dell’Ancien Regime si reggevano soprattutto sulla tassazione indiretta, la gabella sul sale in primis, ma all’Assemblea ripugnava l’impiego delle tasse sui consumi, che gravavano sui ceti più deboli ed aveva varato un nuovo sistema fiscale, che comprendeva imposte fondiarie, tasse sulle ricchezza mobile e sui redditi di commercio ed industria, un sistema equo e moderno, che faticava però a decollare per la mancanza di strumenti di esazione adeguati e per l’ovvia reticenza dei contribuenti a dichiarare spontaneamente il giusto.  In questo modo il debito pubblico aggregato era passato da tre a quattro miliardi di lire in pochi mesi; i soli interessi sul debito assorbivano più del 40% del bilancio dello stato, la crisi della finanza pubblica non poteva essere più ignorata.  In questa situazione drammatica tornò allora a galla un’idea già proposta da un ministro di Luigi, Calonne, cioè utilizzare i beni del clero per garantire il debito pubblico: questo a dimostrazione del fatto, qualora ce ne fosse bisogno, che gli strumenti per risolvere la crisi finanziaria esistevano anche al tempo della monarchia, erano noti e propugnati dai funzionari più avveduti, mancò la volontà politica per attuarli.

Paradossalmente, fu proprio un ecclesiastico, passato tra i rivoluzionari, Talleyrand, vescovo di Autun ad avanzare in assemblea la proposta formale di impiegare i beni ecclesiastici a pagamento del debito pubblico (10 novembre 1789); si andava quindi oltre il progetto di Calonne, si attuava una vera confisca. L’ammontare dei beni ecclesiastici era ingente, valutato tre miliardi e più, consentiva di riequilibrare un debito pubblico di oltre quattro miliardi; il problema immediato però era la liquidità che mancava alle casse dello stato, visto che la vendita di quei beni richiedeva tempi lunghi per la stima ed il frazionamento delle proprietà e per indire infine aste pubbliche.

La soluzione trovata dall’Assemblea fu, a suo modo, innovativa e geniale, andò sotto il nome di “assegnati”; che cosa erano gli assegnati? Erano in sostanza dei certificati di credito fondiario, ovvero delle obbligazioni garantite da un patrimonio reale, le terre confiscate al clero. Gli assegnati fruttavano interessi, come un normale titolo di credito, e potevano essere riscattati (e questo fu il colpo di genio) al valore facciale nelle future aste dei beni del clero. Malgrado un’impostazione apparentemente giusta e ragionevole, gli assegnati risulteranno uno dei disastri finanziari più giganteschi della storia della Francia; spiegazioni ce ne sono state tante, non tutte complete e convincenti: probabilmente l’errore iniziale più grave commesso dai Costituenti fu di imporre il corso forzoso degli assegnati. Il motivo di questa decisione fu che i creditori dello stato, liquidati in questa forma, dovevano a loro volta far fronte ai loro impegni con l’unica valuta di cui disponevano, cioè l’assegnato; se fosse stato rifiutato, si sarebbe arrestata l’economia francese. Si venne così a creare un ibrido pericoloso, perché una obbligazione od un titolo di credito non può avere corso forzoso, deve essere liberamente trattata sul mercato. Gli assegnati divennero così una sorta di carta moneta, con un’amministrazione dello stato impreparata a gestire una carta moneta; il primo risultato, previsto e dettato dall’antica ma sempre valida legge di Gresham, cioè sul mercato la moneta cattiva scaccia la buona fece sì che in un lampo scomparisse dalla circolazione tutto il numerario, tutte le monete in oro, argento e persino in rame, mentre il valore dell’assegnato scendeva, generando una prima crisi economica, che colpiva le classi più deboli.

La tenuta di una carta moneta, dipende, come ben sappiamo, dalla credibilità dell’emittente e da questo punto di vista i vari governi rivoluzionari non erano il massimo; in più, confortati dal corso forzoso, i diversi responsabili del Tesoro furono indotti a successive e sempre più ingenti emissioni di assegnati, perdendo di vista ogni coerenza tra il patrimonio a garanzia (che pure andava aumentando, per le successive confische dei beni di nobiltà e monarchia) ed il coacervo dei titoli di credito. Il fenomeno esplose con l’inizio della guerra e le crescenti esigenze finanziarie derivanti dalle operazioni militari; il valore dell’assegnato precipitò a frazioni minime del valore facciale, generando un’inflazione spaventosa.

La soluzione finale si trovò solo nell’ultima fase del percorso rivoluzionario, il Direttorio, e fu un provvedimento drastico e sanguinoso; il valore degli assegnati fu azzerato, fu emessa una nuova valuta (il franco), il debito dello stato fu tagliato del 75%. Così la grande borghesia che aveva avviato la rivoluzione anche per tutelare i soldi investiti in titoli di stato fu definitivamente rovinata dalla Rivoluzione stessa.

    

Il Codice civile del clero 

Fino ai primi mesi del ’90, le pur importanti e fondamentali riforme varate, non avevano destato sostanziali opposizioni nel paese; i primi seri ostacoli la Costituente li incontrò quando mise mano alla riforma dell’ordinamento del clero; c’è da chiedersi se questa mossa fosse realmente necessaria ed opportuna, ma i Costituenti ritenevano di muoversi nell’ambito delle loro prerogative, anche perché vescovi e preti erano stipendiati dallo stato.  Si cominciò a ridurre, per motivi economici, il numero dei vescovati a 83, tanti quanti erano i dipartimenti; poi si stabilì che sia curati che vescovi fossero scelti dagli elettori, rispettivamente delle municipalità e dei dipartimenti. I vescovi non si sarebbero più dovuti recare a Roma per ricevere il “Pallium”, ma avrebbero comunicato al Pontefice la loro designazione con una rispettosa missiva (fortuna che almeno era rispettosa!!). I vescovi francesi erano in massima parte gallicani, cioè contrari all’assolutismo Romano, i Costituenti erano quindi ottimisti circa l’approvazione pontificia, anche perché non si erano toccati aspetti dottrinari. Viceversa l’insieme di questi provvedimenti, varato il 12 luglio 1790 con la denominazione di ”Codice civile del Clero”,, incontrò una ostinata resistenza da parte del Pontefice: Pio VI aveva già condannato la Dichiarazione dei Diritti e la confisca dei beni ecclesiastici; il suo stato d’animo si era poi ulteriormente inasprito, sia per la cancellazione dei tributi tradizionalmente corrisposti (l’Annata) dai vescovi di prima nomina, sia per la rivolta di Avignone e del contado venosino, feudi papali dal Medioevo, che avevano cacciato il legato pontificio e pretendevano di riunificarsi alla Francia.

I vescovi francesi avevano di richiesto di ritardare l’applicazione del Codice civile fino all’approvazione papale, ma l’Assemblea, stanca dei continui rinvii, il 4 gennaio 1791 decretò che tutti i membri del clero, dai vescovi ai curati dovessero prestare giuramento al Codice civile, pena la perdita del posto e dello stipendio.

La reazione fu inattesa e devastante; solo 7 vescovi giurarono e 2/3 dei preti rifiutarono il giuramento; poi, il 7 marzo il Papa condannò il Codice civile; si era allo scisma. La frattura ebbe riflessi profondi in tutta la società francese, larga parte della quale rifiutava di ricevere i sacramenti dai preti “costituzionali” e preferiva ricorrere ai “refrattari”; per la prima volta dall’inizio della Rivoluzione le misure varate dall’Assemblea incontravano un vasto e genuino dissenso popolare, per la prima volta gli oppositori della Rivoluzione potevano contare su di una ampia e solida base popolare.

Di conseguenza un fatto puramente religioso divenne rapidamente un fatto politico, l’opposizione nobiliare si rianimò e pure il Re cominciò a pensare in termini diversi; Luigi non aveva mai sinceramente rinunciato all’eredità dei suoi avi; si era piegato alla violenza popolare, aveva profferito dichiarazioni formali di adesione al nuovo ordinamento, aveva sperato invano che Lafayette potesse salvare qualche brandello dell’autorità monarchicaaveva tentato anche di manipolare l’Assemblea tramite suoi emissari, il principale dei quali era un rivoluzionario della prima ora, il geniale e depravato Mirabeau; non aveva però mai accettato i fondamenti della Rivoluzione, come non aveva capito il consiglio proprio di Mirabeau “Sire, voi non dovete opporvi alla Rivoluzione, dovete mettervi alla sua testa!!”

 

La fuga del Re

Luigi, malgrado tutto, sperava in un ritorno al passato e l’inattesa frattura religiosa sembrava offrirgli un’opportunità, una parte non trascurabile del popolo francese era schierata contro la Rivoluzione; nessuna mossa concreta appariva però possibile, il Re e la famiglia reale, a Parigi, non erano in realtà più liberi, Luigi, affiancato dalla moglie, avvia un fitto scambio epistolario con il cognato Leopoldo II, Imperatore d’Austria, sollecitando un suo intervento armato. Leopoldo però ha altre grane con il Belgio che era insorto, con la Turchia che minacciava i confini, fa orecchie da mercante.

Luigi allora si decide ad agire da solo, non si fida più di nessuno, la morte di Mirabeau avvenuta il 21 Aprile scioglie le sue ultime riserve; il 20 giugno 1791 la famiglia reale fugge da Parigi. La fuga era stata preparata con cura nei giorni precedenti, soprattutto sotto la regia di un cortigiano, Boilieau, e di Axel Fersen, un nobile svedese, probabile amante della Regina ai tempi di Versailles; Fersen era un militare, colonnello dell’esercito, un personaggio energico e concreto: organizza l’impresa con precisione e puntiglio, stabilendo con lucidità, percorso, tempi e tappe della fuga, si mette poi lui stesso alla guida della carrozza nel colmo della notte e la conduce con mano sicura attraverso le vie cittadine fino ad una porta che sapeva sguarnita. Usciti dalla città, il mattino seguente, i reali si sentono al sicuro, la fuga si trasforma in una scampagnata; Luigi licenzia Fersen, affida la guida della carrozza ad un suo cortigiano, poi decide di fermarsi per consumare una colazione; i ritardi si accumulano, anche per la rottura di un’asse di una carrozza, manca il senso di urgenza che Fersen sapeva comunicare: così salta l’appuntamento cruciale della giornata, quello con il reggimento di ussari che avrebbero dovuto scortare la carrozza reale, alle 16 del 21 giugno il comandante non vedendo, dopo molte ore di attesa, arrivare nessuno richiama i suoi uomini. Le carrozze proseguono senza scorta e ad una stazione di posta successiva, Luigi viene riconosciuto dal mastro di posta Jean Drouet, che sembra avesse servito a Versailles; le autorità locali vengono avvertite e quando i reali giungono a Varennes trovano la strada sbarrata dalla Guardia Nazionale e devono pernottare in una locanda; a Varennes, infine, giungono anche gli ussari: il loro comandante chiede ordini, ma Luigi non vuole che si sparga sangue francese e li licenzia. Così, mentre il fratello, conte di Provenza e futuro Luigi XVIII, che era partito contemporaneamente, raggiunge senza intoppi il confine belga, Luigi viene ricondotto sotto scorta a Parigi, dove giunge tra due ali di folla ostile, in pratica prigioniero dell’Assemblea.  Non aiutava certo il manifesto da lui lanciato al momento della sua partenza, per condannare l’opera della Costituente e chiamare a raccolta i suoi fedeli, sembrava il preludio di una guerra civile, magari anche appoggiata dall’estero.

I timori di un conflitto con le potenze europee crebbero nei mesi seguenti, soprattutto quando venne reso noto il testo della dichiarazione di Pillnitz, in cui i sovrani di Austria e Prussia intimavano ai Francesi di "consentire al re di Francia di decidere in completa libertà la forma di governo più utile all’ interesse della Francia”. Il conflitto fu alla fine evitato, sia perché nessuna delle potenze dichiaranti intendeva in realtà andare oltre le parole, ma anche perché i Costituenti non si risolsero a detronizzare il Re fedifrago e spergiuro, per timore di una deriva democratica, sospinta dalle frange estreme, Marat, Cordiglieri ed anche Robespierre, che già chiedevano la Repubblica. La borghesia, che aveva fino a quel momento guidato la Rivoluzione, non intendeva rinunciare alla monarchia; l’istituto era ancora saldamente radicato nell’animo dei francesi e costituiva, ai loro occhi, un argine alle istanze estremiste ed egualitarie, che potevano condurre a ciò che più la borghesia paventava, la distruzione del diritto di proprietà. L’Assemblea, d’altro canto, non disponeva di alternative valide a Luigi, i fratelli erano emigrati, il cugino, l’Orleans, non sembrava affidabile, si circondava di avventurieri come Danton; chi poteva garantire, inoltre, che una tale sostituzione non avrebbe avviato una guerra civile, fomentata dai nobili emigrati e dai fratelli del Re?

Luigi appariva ancora come il male minore; si forgiò allora la tesi fantasiosa del “rapimento“, per scagionare almeno in parte il sovrano e mantenerlo al suo posto; la manovra non piacque al popolo di Parigi, sobillato dalle società fraterne e dai Cordiglieri, che alla fine indissero per il 17 luglio una grande riunione al Campo di Marte per sottoscrivere una petizione in favore della repubblica; l’Assemblea ebbe paura ed ordinò di sciogliere, manu militari, la riunione: la giornata si concluse in un bagno di sangue, seguito da una dura repressione. Il popolo di Parigi non perdonò mai quella strage.

A questo punto, contenuti i rischi dell’estremismo, secondo i delegati alla Costituente, non restava che varare la nuova Costituzione; occorreva la firma del Re, che prendeva tempo, forse lusingato dalla dichiarazione di Pillnitz, forse ancora genuinamente restio ad accettare il nuovo ordinamento: alla fine, senza vie d’uscita, nella notte tra il 3 ed il 4 settembre, Luigi si risolse a firmare e a giurare fedeltà alla Costituzione; astutamente chiese all’Assemblea un’amnistia generale, che fu entusiasticamente votata.

La Costituente terminava i suoi lavori il 30 settembre 1791, nel tripudio generale; la guerra era stata evitata, la monarchia confermata, la Costituzione varata, aristocratici e repubblicani posti in libertà in un’atmosfera di riconciliazione nazionale; la Rivoluzione, secondo la borghesia che l’aveva avviata, era conclusa.

Così non sarà!

 

Inserito il:06/12/2024 17:05:49
Ultimo aggiornamento:06/12/2024 17:34:45
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