Aggiornato al 21/11/2024

Non sono d’accordo con quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo

Voltaire

Pier Francesco Mola il Ticinese (Coldrerio, CH, 1612 – Roma, 1666) - Eco e Narciso

 

La disperata eco del narcisismo umano

di Alessandra Tucci

 

In questo caso la bellezza era in lui più che in lei. Ed era sfacciata, lui quella sua magnificenza non la poteva guardare in faccia, letteralmente. Pena: la morte.

Non che graziosa lei non lo fosse, per carità di dio. Del divino Zeus precisamente, e come dubitarne. Il superdio le mise gli occhi addosso appena si rese conto che avrebbe potuto usarla a suo vantaggio: quella ninfa che non smetteva un attimo di parlare e raccontare - i fatti altrui, chiaramente, che lei portava ovunque - gli cascava proprio a fagiolo in quel pappone che, ad ogni giro di gonnelle, quella giunonica di una moglie gli imponeva di sorbire per le sue sistemiche e innocenti scappatelle.

Non era vita quella sua, lui era un dio anzi il re, la santità non era tra i suoi doveri olimpici né, a quanto ricordava, tra quelli prettamente coniugali, i sessuali. Non era certo stato così pollo da averci messo in mezzo, tra gli oneri divini, una qualche fedeltà maschile, giusto quel fesso di un Apollo s’era amputato quel virile privilegio per una dafterite acuta ed inguaribile. O forse sì, vai a sapere, di secoli ne erano passati ormai a bizzeffe. E comunque, sia sempre ribadito, lui era Zeus, perbacco, su tutti il sommo dio, era chiaro come il sole del rimbambito Apollo che era lui a imporre e comandare e ancor più fulgido dei suoi stessi strali era che leggi obblighi e doveri chi comanda li promulga per i sottoposti tutti, mica per sé o per cortigiani e amici. E questa a ben vedere è una legge che la tradizione ultramillenaria ha portato fino alla nostra epoca giulivamente ignara praticamente intatta, esatta esatta. Ma procediamo nell’altrui sventura che ascoltarla riesce quantomeno ad offuscare la percezione della nostra eterna pena, quel mal comune che diventa mezzo gaudio e consola.

Dunque, la ninfa. Si chiamava Eco e parlava all’infinito. Un chiacchiericcio di quelli che i maschi si fanno scivolare addosso finché riescono, poi collassano. Le donne invece ci ricamano su corredi interi, nuziali e funebri. Tecnicamente: il taglia e cuci che nulla ha da invidiare all’alta sartoria di Gucci.

Era perfetta come amica balia o dama accanto a quella sua giunonica fracassatutto, e qui il prode Zeus mostra e dimostra che da quella sua divina testa davvero forse è nata la signora di ogni ingegno, la dea Minerva: chiacchiere inutili e senza soluzione a distrarre la consorte mentre lui risolveva finalmente l’inghippo coniugale e faceva tutto l’altro che ad ella non andava a genio. Altra legge eterna, l’infrantumabile specchio per le allodole giulive, che sempre sia lodata.

E così avvenne. Avvenne che la dea moglie e sorella accolse nel salotto olimpico e in seno al circolo di dicerie e ciance del suo jet set divino l’instancabile comare che riuscì a lungo e con successo a neutralizzarne ogni controllo su uno Zeus ora libero di scorrazzare ovunque a suo totale godimento.

Ma, si sa, e in questo Zeus dimostra esser degno compare dell’apollo quanto a intuito, il radar del femmineo sesto senso l’imbroglio prima o poi lo fiuta e mette in scena la vendetta, mai sia una qualche clemenza, magari dignitosa.

E, senza un grammo di indulgenza, l’Era divina, sentitasi tradita, scagliò sull’ex amica totalmente inconsapevole di essere stata strumentalizzata, Eco la ninfa, tutta la sua ira, così funesta che al confronto Achille il pelide lo ricorderemmo tutto sommato per la sua mitezza: Mi hai distratta con le tue chiacchiere infinite e vuote per lasciare campo libero a quel pusillanime del mio consorte? Che tu sia condannata a non proferire più parola alcuna, potrai ripetere solo e per sempre gli ultimi vocaboli dei tuoi interlocutori. E questo é quanto.

Poteva andarle peggio – certo, è vero - c’è chi per aver semplicemente pestato un qualche callo divin(izzat)o si è ritrovato, in un batter di metamorfosi, scarafaggio. Ma la storia non è arrivata al suo epilogo, capiremo a fondo la malasorte generata dal divino sfizio, cambiamo scena, dunque, e ripartiamo dal principio.

Torniamo a lui, il bello e incontestato.

Non che ce lo fossimo dimenticato, abbiamo solo preferito dare a lei la precedenza come cavalleria insegna. Almeno fino a quando l’asterisco del politicamente corretto non avrà asfaltato ogni buon gusto anche nel costume antico mandando tutto al macero. A ogni tempo il suo cavallo, senza fantino in sella ma ben panciuto. E, chiaramente, sempre devoto al supremo mito collettivo.

Nacque bello, ma così bello che la stessa madre al suo cospetto perse completamente il senno. Diversamente proprio non si spiega cosa l’abbia indotta a chiedere consiglio a Tiresia l’indovino per quella grazia così inconsueta che si era ritrovata tra le braccia nove mesi dopo esser finita tra le onde di Cefiso, il dio del fiume. Non poteva tenersela ben stretta? Una volta che a una ninfa circuita era arrivata perlomeno una gioia contemplativa, perché farla secca? Non è che tra le vigorose e umide ondate di Cefiso Liriope ha battuto il capo tra un affondo ed un sospiro?

Perché Tiresia a decidere il destino di suo figlio? Si sapeva dappertutto che quello era incarognito dalla mala sorte di origine divina che lo aveva reso cieco rendendogli a ristoro il vaticinio in dono. Mai una grazia nei responsi che dispensava solertemente prodigo, nessuno era in salvo. Quasi ci godeva. Senza quasi, era notoriamente un frustrato.

Che bel bambino, queste furono le prime parole dell’indovino e a seguire: Senza alcun dubbio vivrà a lungo e in salute. Ma? Ma solo se non vedrà mai il suo volto. E siamo alla terza legge arrivata uguale uguale alla nostra straevoluta comunità sociale. Andrà tutto bene solo se. Dopo il se, manco a dirlo, due punti e un elenco a totale discrezione del mondano e sempiterno pater noster che sa ciò che è bene tra l’acclamazione generale. Laudato sempre al secolo corrente.

Un po’ come la bella addormentata alla quale in fondo il sortilegio era stato più che preannunciato, ma la giovincella se ne curò il giusto ossia per niente, all’età di sedici anni il giovin bellone iniziò narcisamente a tessere da solo la rete che lo avrebbe avviluppato, chiaramente incurante dell’accecata preveggenza: impettito e tronfio che al cospetto il gallo del pollaio è un novellino, se ne andava in giro ovunque a farsi ammirare e adorare ricambiando l’altrui amore con uno sprezzante sdegno stampato in volto. Tutti cadevano in calore al suo passaggio, tutti lui respingeva con disprezzo. Chirurgico nel recidere ogni disperato tentativo del mondo intero di approcciarlo, lui amava se stesso, punto. E nel frattempo si gonfiava di delirante vanagloria autoreferenziale.

Referenze sulla sua somma bellezza, del resto, ve ne erano in ogni dove e certo nella rete di leggende sul più bello del reame non poteva che inciampare prima o poi anche quella poveretta di una ninfa senza più voce alcuna. Meglio prima già che c’era Era, gli dei, negar loro questo merito sarebbe iniquo, una vendetta la portavano sempre all’apoteosi del suo compimento e in questo c’è da dire che noi umani non siamo poi tanto da meno: lasciamo a metà le azioni eroiche e coraggiose, quelle sempre, ma mai sia che nel vendicarci non affondiamo il colpo fino in fondo.

E in fondo al bosco, nel quale il bello e impossibile era andato ad inseguire tutti i disgraziati cervi in circolazione perché in fondo s’era stufato di esser sempre lui il cacciato, Eco si imbatté in Narciso. E cadde come il frutto più dannoso della storia. Completamente cotta.

Al tonfo della vergine donzella il bellimbusto si voltò, Chi mai si permette di turbare la mia quiete? e puntò quelle due stelle che aveva in fronte sulla fanciulla ormai stregata alla quale, guarda un po’ il caso divino, non usciva neanche una parola.

Ora, va bene che i maschi con le femminili chiacchiere non sanno minimamente come interagire e se lei parla poco meglio e sia pure ringraziato il cielo, ma il silenzio assoluto li mette comunque a disagio e in soggezione, Sta’ a vedere che questa qui sta zitta perché la mia virilità non l’ha colpita. Figurarsi quindi quel signorino del Narciso se reggeva la presenza di una ninfa muta e imbambolata che a lui non andava mai bene niente, così, per principio. E a prescindere.

Eco d’altronde non poteva favellare di sua sponte, se non iniziava lui a dir qualcosa lei che cosa ripeteva?  E Narciso buttò lì un E tu chi sei? alquanto annoiato. Avviando il martirio terminale della giovane.

“Eiiiii” gli fece eco la donzella.

Che poi, con un po’ di elasticità, lo si potrebbe tutto sommato prendere come un ehilà, manco troppo tragica questa prima performance della ninfa maledetta dalla dea regina. Solo che Narciso di elastico conosceva unicamente il balzo ginnico con il quale indietreggiava mettendo la debita distanza tra il proprio fascino indiscusso e l’avventore del momento.  Che vuoi?  è il massimo che gli uscì, anzi che non chiuse lì il discorso.

“Oiii” di rimando.

E anche qui, in fondo, comunque rievocava l’ehilà dei romani e Roma già all’epoca se la intendeva con Atene e Sparta, gli dei l’ha importati tutti e pari pari dall’altra sponda del mediterraneo, con gli stessi identici difetti e vizi, mai sia uno sconto convenienza. Solo che a Narciso i gemellaggi vari interessavano quanto il due di picche che stava per calare, lui era il solo e unico bellone. E già s’era stufato di quella piattola di donna che manco si sprecava ad adularlo come si conviene. Ah, se avesse saputo il motivo. Che poi, se avesse saputo il motivo, non sarebbe cambiato comunque niente, lui era l’unico e il solo e tale voleva restare, con se stesso.

Due anime gemelle, insomma, quando si dice le affinità elettive: quanto lui era concentrato esclusivamente su di sé, tanto lei era completamente proiettata all’esterno, su di lui dunque al momento.

Su Narciso, quindi, Eco si buttò all’istante in uno slancio di fervente affetto, arroventato a puntino dall’olimpica dea madre, che si può afferrare al volo quanto risultò gradito al bellimbusto: il giovane, con uno scatto da velocista olimpionico che lo indispettì non poco dover fare che ogni sforzo rischiava di sgualcirgli la perfezione di quel suo corpicino da modello, la scagliò lontano spaccandole il cuore ed ogni sogno.

E senza più un cuore in petto Eco si rifugiò nelle valli solitarie del circondario e lì pianse tutte le sue lacrime miserrime, pianse e pianse e pianse e poi pianse e pianse e pianse fino a quando di lei non rimase più alcunché eccetto il rimbombo della voce che tutti ancora oggi conosciamo molto bene.

A conoscer più che bene l’Eco intacitabile imparò ben presto anche la dea Nemesi raggiunta dai lamenti della ninfa oramai completamente evaporata ma, porca miseria, assolutamente incapace di starsene un po’ zitta. E non potendosela prendere con la donzella che tanto ormai non esisteva praticamente più, la dea si scagliò contro quel modellino di beltà e crudeltà. C’è da chiedersi se, già che c’era, non abbia tirato fuori dal baule anche lo striscione delle sempiterne femministe anonime: Ma tu guarda quel bellimbusto tutto fossette e niente cervello che se ne va in giro a spezzare il cuore delle verginelle! E partì l’ennesima vendetta sotto forma di divina iattura, come se il Narciso non ne avesse già e in abbondanza fin dalla nascita sul groppone.

C’è da dirlo e prenderne eternamente atto: gli dei come incastrare l’umano l’hanno sempre saputo.

Mentre il belloccio vagava nel bosco arso da una sete inestinguibile, cosa gli fa apparire quella lì davanti agli occhi belli? Un lago talmente limpido che egli, sporgendosi per bere, non poteva che finire con lo specchiarsi. Certo, verrebbe da chiedersi come si sia abbeverato fino ad allora il ragazzino, ad occhi chiusi così da non veder la propria immagine riflessa prima del tempo della profezia di Tiresia? Ma glissiamo che tanto, da che mondo è mondo, alle domande le divinità amano da sempre rispondere con le non risposte.

E senza ricevere alcuna risposta ai propri straziati sospiri d’amore, il Narciso si ritrovò a struggersi di passione per un’immagine, quella riflessa, che egli credeva viva e totalmente autonoma, un tormento, quello del giovane, che richiamò a sé l’attenzione di Saffo e Catullo insieme: sta a vedere che questo ci detta un paio di lamenti da mettere in versi e lasciare ai posteri, non è che possiamo pensare solo noi tutti i pensieri da tramandare! Del resto, anche qui, basta un occhio al Bukowski per comprendere al volo che la gente è il più grande spettacolo al mondo e la si può scritturare senza porsi il problema di magari pagare il biglietto d’autore, in fondo siamo o non siamo un Tutto generale? Sì, quando ci conviene. Ma andiamo oltre questa quarta legge universale, lasciamo stare.

Oltre ogni buon senso, Narciso declamò all’icona che aveva al suo cospetto tutti i versi d’amore che ricordava, pochi a dirla tutta e a pezzi monchi visto che mozzava il fiato a qualsiasi innamorato gli si avvicinava, ma un poemetto riuscì comunque a metterlo insieme, opera che gli costò una faticaccia totalizzante conclusa la quale un guizzo di intuito gli riaccese finalmente la perspicacia: “Ma com’è che il mio adorato riproduce puntualmente ogni mio movimento? Ma tu pensa un po’. Non è che il mio amato si sta burlando di me? O forse … Forse, sì, la seconda che ha pensato. La risposta, del resto, è sempre dentro di noi. Ed è sbagliata.

Aveva sbagliato il bersaglio del suo prezioso amore? Certo che no, si rispose solerte il giovincello, non c’è niente di meglio di me a questo mondo. Giusto! Tutto sta a capire come aversi, come fare per possedere l’immagine di sé riflessa.

Pensa che ti ripensa, pensa che ti ripensa a come unirsi biblicamente e in eterno alla sua magnificenza, Narciso morì, lacerato tra il desiderio di sé e il dolore di non potersi raggiungere, con grande gaudio di Tiresia che anche questa l’aveva indovinata e sommo sconcerto delle Naiadi e delle Driadi che trovarono, al posto del giovane che erano state mandate a prelevare, uno splendido fiore che ancora oggi tutti noi possiamo contemplare.

Ad oggi dunque ciò che rimane di questo antico mito è praticamente tutto, per intero anzi lievitato. Precisamente, il chiacchiericcio vuoto e ripetuto all’infinito dell’inutile e del vacuo a distrarre l’essenziale che abbiamo potenziato con virtuali reti globalizzate, così, tanto per dare una spintarella all’eco che, poveretta, si stava affaticando tutta sola. E, chiaramente, la vanagloria di un ego pompato a dismisura e in autoreferenziale contemplazione che ha accecato ogni nostra percezione della vita e dell’altro che sta sempre un passo in là dal nostro naso. E anche in questo Tiresia c’ha preso. Più o meno in pieno.

Perché del resto, e come sempre, da ciò che la storia insegna, che poi è l’esperienza umana, continuiamo imperterriti a non voler imparare niente. E amen.

Ma a chi, di nuovo, dovesse oggi lamentare come nessuno gli abbia mai mostrato la causa principale che lo ha completamente annichilito servendogli il fuori gioco, vien solo da rispondere che carta canta, quella antica.

E se ne cancelliamo la cultura, beh.

Rimane solo un pozzo in cui specchiarsi, quello delle nostre autodistruttive brame.

 

Inserito il:01/04/2022 15:47:04
Ultimo aggiornamento:01/04/2022 15:57:03
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