Aggiornato al 08/09/2024

Non sono d’accordo con quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo

Voltaire

Immagine realizzata con strumenti di Intelligenza Artificiale

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Sulla strada, sotto il cielo, un libro tra le mani

di Alessandra Tucci

 

Aveva un libro tra le mani. Seduto a terra, era assorto. Era immobile sotto il tetto del cielo e indifferente al tempo, eppure lui viaggiava ovunque. Indifferente anche al sordo tam tam del quotidiano flusso ormai spanato, era lì e dappertutto.

Mi sono avvicinata. Figurarsi.

Volevo sapere cosa leggesse. Volevo in realtà sapere perché leggesse. Sulla strada, sotto il cielo.

E magari offrirgli un qualche libro, ne ho infiniti, così da gratificare il mio sé sedicente benevolo, il caritatevole. Quella carità che lui ha stroncato. Con gentilezza e con il sorriso, spietato.

Gliel’ho chiesto, diretta e senza neanche presentarmi, si è sempre diretti quando si esita, la gamba tesa a stroncare l’indugio.

Ha alzato gli occhi verso di me. Non c’era diffidenza nel suo sguardo. E neanche avversione. Non c’era nessuna sorpresa, solo pacatezza nel dirmi che leggeva qualsiasi cosa trovasse nella spazzatura. Sì, perché i libri occupano spazio, chiaro, si buttano per liberare posto. Al vuoto che lasciano.

Era pacato, questo, e anche un po’ evasivo sulla sua lettura. Io un caterpillar. Aveva un libro tra le mani, un altro era posato accanto a lui. Sopra un piccolo mucchio di giornali, le sue coperte.

Volevo sapere. Dove si rifugiasse dentro di sé, tra quali pagine si rinchiudesse. A non vedere. O forse a vedere di più.

“Sì, certo. Ma cosa le piace leggere, cosa leggerebbe se potesse scegliere?”

Come se potesse. Come se potesse scegliere.

“La scienza. Mi piace leggere di scienza.”

Basita. E bene mi stava. Ero già pronta a passare a lui i libri che non hanno lasciato alcun segno in me, magari a lui sì, in fondo lui pescava dai bidoni. Ma amo anche io leggere di come la scienza, quella onesta che accetta confronto e resa, arrancando per recuperare il divario, si debba ogni volta arrendere all’evidenza e confermare quanto quei mentecatti di osservatori chiamati filosofi o pensatori o esoteristi o stregoni o eretici sovvertitori del sacro dogma positivista della casualità di questo esistere ci dicono da millenni.

Per dar seguito e concretezza al mio guizzo altruistico avrei dovuto quindi accettare io per prima una privazione. O comprargli un libro per non dargli uno dei miei, ma non sarebbe stata la stessa cosa.

Chiaramente non gli ho risposto, ho preso tempo per darne a me nel decidere e sono andata oltre. Sempre più a fondo. Indiscreta, eccessiva indubbiamente, invadente. Eh.

“Da dove viene? Perché è in queste condizioni?”

Quali condizioni poi? La sua eleganza interiore vestita di stracci in un mondo di completi griffati che portano a spasso anime sempre più slabbrate?

Mi ha guardata. Questa volta ha esitato davvero, vistosamente. Anzi che non mi ha risposto a tono, quello dell’eccess(iv)o. E non si è rinchiuso in sé.

“Vengo dal nord Europa. Mi è stata tolta la dignità, ho perso la voce. E sono qui.”

Cosa gli rispondi a parole così che possa avere un senso? Ho taciuto, grazie al cielo. Ed ho aspettato. Lui ha continuato. Lo sguardo su di me ed oltre, sembrava vagasse, irrequieto e calmo, era dentro l’ossimoro.

“Mi vergogno, sa. Dovrei essere nella mia terra, tra la mia gente, a vivere per migliorarla, dovrei migliorarmi. E invece sono qui, in Italia, sulla strada, ed è colpa mia. Mi sono arreso.”

Figurarsi se a questo punto, davanti a tanta costrizione, non mi usciva un non si tratta di colpa, non c’è niente di cui vergognarsi bello, lindo, ciclostilato. E tanto banale da essere banalizzante. Dell’esistere.

In quella sua saggezza che oramai non faceva più niente per nascondersi, l’uomo non mi ha risposto. È andato oltre. Mi ha guardata, ha parlato e mi ha lasciata di sasso. Un’altra volta.

“Sa, dovremmo essere tutti nudi mentre parliamo, questo è l’unico modo per un vero dialogo.”

Ha esitato qualche istante, nei suoi occhi si è accesa una luce divertita nell’incrociare i miei. Si è mosso a compassione, lui. Ed ha continuato.

“Vede, se in un qualsiasi dialogo ci presentiamo ognuno con i propri abiti non si ha un dialogo vero. Se vedono me, con questi vestiti addosso, pensano tutti, subito: Mah, questo è un barbone, quello che dice non vale niente. Se invece si presenta un generale con la sua bella divisa e tanti stemmi allora sì che vale quello che dice. Questo non è parlare, non è dialogare, non c’è scambio.”

Mi prude il naso ogni volta che comincio a commuovermi, non so perché. Comincia a prudermi il naso e pian piano gli occhi si fanno lucidi. Li ho alzati fissandoli sulla gente che passando ci dribblava, ero accovacciata di fronte a lui, non volevo vedesse quella mia penitente ammissione di colpa. Perché tutti ragioniamo così. Non come lui, figurarsi, tutti ragioniamo per modelli. E divise. Tutti ben vestiti. Sempre predicando, ci mancherebbe. Che l’abito non fa il monaco.

“L’altro giorno mi si è avvicinato un uomo e diretto mi ha detto nella sua lingua, la lingua degli zingari: Che stai facendo? Non si fa così, non è così che ci si rivolge alle persone.”

Non è che questo era un riferimento, neanche tanto implicito, al mio approccio iniziale? Non ho chiesto per non sentirmelo dire. L’ho lasciato finire.

“Quando ci si rivolge ad una persona si dice innanzitutto buongiorno, la parola più bella del mondo. Poi si dice io sono tizio, ci si presenta. E poi semmai si chiede cosa sta facendo. E non nella propria lingua, in lingua italiana perché qui siamo in Italia. È così che si fa, è così che si avvia una conversazione.”

Sì, un riferimento c’era, pure chiaro. E bene mi stava. Ancora una volta ho sterzato e cambiato strada. Ne andava della mia dignità. Orgoglio, la dignità è ben altra cosa.

“Come si trova in Italia, ce l’ha qualche aiuto, un qualche supporto?”

Una dignitosissima inversione a U più che sterzata la mia, anzi che non mi sono cappottata. Con approdo sul generico collettivismo sotto una spolveratina di patriottismo, azzoppato per carità, un Welfare boccheggiante, ma il cuore italiano, quello, pulsa ancora sostegno. E solidarietà.

“Sì, sempre. In Italia ci sono tante strutture di carità. Il martedì e il giovedì portano da mangiare alla stazione Termini, gli altri giorni li trovi, si fermano. Sì, ci sono tante strutture di carità e funzionano. Strutture, però, sempre strutture, molto poco le persone.”

Mai la fortuna di imbattermi in un parlare semplice e lineare, ero incappata in un filosofo. Di strada. Le strutture di carità non sono forse fatte di persone? Gliel’ho chiesto, non è che poteva vorticare nell’incomprensibile come gli pareva. E all’infinito.

“Sì, certo, dentro le strutture. Sono tutti dentro la struttura di carità, ti danno da mangiare, le coperte, ti chiedono di cosa hai bisogno, uomini dentro una struttura di carità, dentro un ruolo, è da lì che si muovono. Difficilmente si vede la persona, difficilmente ce la mettono la persona, quello che sono, quello che hanno dentro. Ma è della persona che si ha bisogno, è con la persona che la nostra persona può costruire un dialogo. Non la mostrano, non la si vede mai. O quasi mai.”

Gelata. A quaranta gradi. Dentro un ruolo ingessato anch’io? Ingessata io? Ho cominciato a chiedermelo frenetica, ma per capirlo avrei dovuto ammetterlo. E di ammissioni con me stessa ne ho già una lunga lista da vagliare ed effettuare, questa per il momento intendevo fermamente risparmiarmela. Ponendo la domanda principale per rianimare per quanto potessi il mio ego sedicente caritatevole ormai moribondo. E chiudere il cerchio.

“Di cosa ha bisogno? Posso fare qualcosa per lei?”

Quasi temevo la risposta, da quest’uomo era ormai chiaro che poteva arrivare di tutto.

Non mi ha risposto, non nell’immediato. Si è tolto il cappello, si è battuto la testa con la mano. E mi ha detto, testuale.

“Ho bisogno di sapienza.”

Che gli rispondi a uno così, a queste parole?

“Quella ce l’ha già, non posso dargliela io e non serva che gliela dia, lei ce l’ha già. Insieme alla saggezza.”

E questa volta le parole mi erano uscite dal cuore, davvero da lì, senza filtri buonisti, nude e crude. Come lui vuole si sia quando si dialoga. Mi aveva appena insegnato a dialogare.

“Un libro se vuole, se può. Lo leggo e quando non ho altro lo uso per dormirci sopra, almeno qualcosa tra me e questa strada sulla quale mi ritrovo.”

Uno stillicidio questa conversazione, quest’uomo stillava continui colpi al cuore. E alla coscienza.

Ho spostato gli occhi sul libro posato accanto a lui. Lui l’ha preso, me l’ha mostrato. Cardinali e Cortigiane il titolo, non ho fatto in tempo a leggere il nome dell’autore. Ho accennato un sorriso, lui l’ha raccolto e gli ha risposto. Sorridendo.

“L’ho trovato nella spazzatura. Lo leggo perché anche questo loro è un modo di essere uomini. Un altro modo di essere uomini, solo un altro modo.”

Non solo l’empatia nello scambio, quella nuda e autentica, quest’uomo mi aveva appena mostrato la strada per essere, far essere. Se stessi, il proprio prossimo. Al di là di ruoli, abiti, tuniche, divise, cliché, oltre stereotipi, torti e ragioni, virtù e perversioni. Liberi di essere. Liberi di far essere. È questo essere umani, è il coraggio di essere. A prescindere.

 

Inserito il:04/07/2024 09:38:51
Ultimo aggiornamento:04/07/2024 11:01:00
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