Fabiana Iacolucci (Roma – Contemporanea) – Se questo è un uomo
Se questo è un uomo
di Alessandra Tucci
I libri li divoro, da sempre.
Sono famelica, vorace, insaziabile.
Ho bisogno di sentire l’essere umano. Costantemente. Sulla pelle, dentro il sangue, nelle ossa.
Ho bisogno del suo percepire, di quel suo fremere, palpitare, sperimentare, è insopprimibile la forza che mi spinge ad andare oltre quella paura che lo distoglie da sé. Per vedere oltre cosa c’è, per scoprire cosa pulsa al di là, sotto i cumuli di un effimero che nasconde e offusca. Ma non è.
Leggo, cerco, trovo. Implacabile, inarrestabile.
Un libro ha rallentato la mia corsa tanti anni fa. Fino quasi ad arrestarla.
Un libro che mi ha bagnato la vista, velandola.
Un libro che mi ha stordito la mente, disorientandola.
Un libro che mi ha strizzato il cuore, prendendosi i suoi battiti. E disarmonizzandoli.
Ho cercato.
Tra quelle pagine, in mezzo a quegli spasmi, dentro le macerie umane.
Lenta, non più veloce. Velata, disorientata, aritmica.
Un senso, ho cercato un senso. Ho cercato una ragione, uno straccio di spiegazione, una logica, ho cercato il senno umano più furiosa dell’Ariosto alla guida del suo Orlando.
Non ho trovato.
Ho ascoltato, quindi.
Tra quei lamenti, nei silenzi trascinati come catene alle caviglie, immersa nell’eco rimbalzante di parete in parete, goccia su goccia. Di pioggia, sudore, lacrime. Voci smorzate, urla sparate, lingue in collisione.
Quella spietata torre di babele non permetteva alcuna elevazione. (Mi) Sprofondava nelle viscere dell’inumano.
Allora ho aguzzato la vista, ho contato.
I numeri, quelli impressi su carni e carni. I numeri delle età sgranate come fagioli buttati in pentoloni, i numeri delle famiglie smembrate e disperse in mezzo alla neve, sotto la pioggia. I numeri degli spari, quelli delle suppliche, i numeri di infantili e vecchie bocche senza denti e delle invocazioni, i numeri delle privazioni e di una qualche assoluzione. Il numero di chi ancora sperava. Di chi non ci credeva più.
Una conta infinita, illogica, iniqua. Un calcolo che non aveva soluzione.
Sono passata all’olfatto a quel punto. Uno dei miei sensi, almeno uno doveva aiutarmi, doveva guidarmi.
Ho annusato quella dimensione. Acida, salata, acre. Bruciata.
Cercavo aria e fiati, ho trovato il fumo. L’orchestra ad accompagnare il suo salire al cielo.
Cercavo, ascoltavo, osservavo, contavo, annusavo.
Non capivo, non sentivo, non percepivo.
Non lo trovavo.
Voltavo pagine su pagine, ricominciavo.
Sfogliavo, avanzavo, indietreggiavo, mi fermavo, rileggevo, andavo oltre, tornavo all’inizio, saltavo alla fine.
Quel libro era maledetto, più crudele del più spietato dei lager ai quali aveva intinto il suo inchiostro.
Quel libro aveva stralciato l’essere umano dalle sue pagine.
Inutile cercare, annusare, osservare, ascoltare, l’essere umano su quei fogli semplicemente non c’era.
Quel libro voleva raccontare, l’unico modo per farlo era riprodurre fedelmente il più feroce atto che si possa porre in essere: spezzare la dignità, inginocchiare l’umanità, sopprimere ogni identità.
E chiedere al mondo “Se questo è un uomo”.