Jean-Michel Basquiat (New York, 1960 -1988) - Profit (1982)
Adriano Olivetti nella sua totalità
In risposta all’articolo di Giacomo Ghidelli
di Giuseppe Silmo
Adriano o lo si vede nella sua totalità oppure non lo si comprende ... del tutto!
Sono le parole di chiusura del mio libro Adriano Olivetti e il Territorio. Dai Centri Comunitari all’I-RUR, in via di pubblicazione, con una copertina che è un omaggio al grande designer olivettiano Pintori.
La chiusura dell’articolo di Giacomo Ghidelli: “Olivetti. Dalla centralità dell’Uomo alla centralità del profitto. A partire dal 1960”, in risposta al mio: “Olivetti. Come è stato possibile passare dalla centralità dell’Uomo, alla centralità del Profitto?”, sembrerebbe avere un significato non molto diverso:
“La mancata evidenziazione di questo fatto [la messa in mora del concetto di comunità] è irta di conseguenze, perché porta a non capire la figura e il lavoro di Adriano Olivetti, che viene presentato, come lo stesso Visentini ha fatto più volte, come un ottimo imprenditore da un lato ma anche come un pervicace utopista dall’altro.”
Frase su cui non si può non essere d’accordo, come non si può non essere d’accordo con la frase finale: “E nessun errore potrebbe essere più grave.”
Tuttavia, le due conclusioni arrivano da percorsi diversi e hanno diverse implicazioni.
Ghidelli sostiene che “la messa in liquidazione del Movimento Comunità, nel settembre del 1961” e ciò che cambia “la visione dell’impresa, vale a dire la sua identità”
Innanzi tutto occorre fare chiarezza sulle date. Il 10 settembre 1961 è l’ultima riunione del Comitato Centrale della Comunità che è unicamente finalizzata ad approvare lo Statuto definitivo della Fondazione Adriano Olivetti, voluta come concreta evoluzione del Movimento Comunità in termini ideologici e culturali.
L’ultima riunione formale, in cui si decide di abbandonare ogni velleità di tipo politico-elettorale, e quindi la chiusura del Movimento in quanto tale, è del 12 gennaio del 1961, ma la vera fine l’ha già determinata lo stesso Adriano, a seguito della sconfitta elettorale del 1958, con la lettera del 10 giugno 1958 a Mario Caglieris, Amministratore del Movimento Comunità.[1]
Nella lettera Adriano dà a Caglieris due disposizioni: la “smobilitazione” del suo ufficio, ossia dell’Amministrazione del Movimento e la “liquidazione di tutte le pendenze in corso”. Ma la lettera è molto di più di una drastica disposizione amministrativa, è l’ammissione dell’insuccesso subito e delle cause, che secondo Adriano lo hanno determinato. Tra le altre spiccano due frasi:
“Il Movimento ha affrontato la lotta elettorale in condizioni particolarmente difficili, sottoposto ad attacchi durissimi e immeritati…”
“…un elettorato che, già di per sé poco preparato al nostro linguaggio, era stato reso diffidente ed emotivo da richiami extra-politici…”.
È anche l’ultimo rintocco della “Campana”.
Poi, l’esperienza di alcuni Centri Comunitari è durata ancora per un certo periodo e il Movimento Comunità, con i suoi quadri apicali, ormai senza finanziamenti è sopravvissuto fino alla presa di coscienza del 1961.
Tuttavia, tutto questo non ha alcuna ricaduta sulla Fabbrica, perché il Movimento Comunità agisce sul territorio e non al suo interno, anche se il 25 gennaio 1955 nasce Comunità di Fabbrica, che però è un sindacato e pur ispirandosi agli stessi ideali del Movimento da esso è del tutto autonomo. Il sindacato comunitario durerà fino al 1971, undici anni dopo la morte di Adriano.[2]
Con la chiusura di fatto del Movimento, seguita alla sconfitta elettorale, Adriano non pensa affatto di cambiare “la visione dell’impresa”, e “la sua identità”.
Il Paradigma olivettiano, che ha al suo centro l’Uomo nella Fabbrica, non cambia affatto, continua anche negli anni successivi alla sua morte, con Paolo Volponi, fino al1966, Direttore dei Servizi Sociali e poi Direttore del Personale fino al 1971. Con l’arrivo di Ottorino Beltrami che avrebbe dovuto fare l’Amministratore Delegato insieme a Volponi, che però non accetta e si dimette, le cose pur con una diversa accentuazione non cambiano di molto. Lo stesso fatto che Volponi non fosse stato escluso, anzi in un primo momento, prima dell’intervento di coloro “che attraverso i capitali controllavano l’economia e il potere dentro e fuori l’Olivetti”,[3] nelle intenzioni di Visentini avrebbe dovuto essere lui l’AD, sta a significare che non si volesse affatto cambiare “la visione dell’impresa”, e la sua “identità”.
Alcuni, tra cui mi pare di capire, dal suo articolo, anche Giacomo Ghidelli, fanno terminare la Olivetti, con i suoi valori, al 1960 con la morte di Adriano.
Io credo che quei valori e quella Olivetti abbiano dato ancora una grande prova con il passaggio dalla meccanica all’elettronica, gestito da Ottorino Beltrami, avvenuto con modalità che erano il frutto di un monito di Camillo ad Adriano: “Non licenziare”, che si era incarnato nel DNA aziendale. Un’operazione unica nel suo genere nel mondo industriale internazionale, dove il problema è stato risolto delocalizzando gli impianti e attuando licenziamenti. In Olivetti le localizzazioni sono rimaste dove erano e nessuno è stato licenziato, nonostante l’esubero di personale dovuto alle nuove tecnologie. La soluzione della Olivetti è stata la massiccia riqualificazione tecnologica del personale. Non esattamente un operazione che mette al centro il Profitto.
Tutto cambia con l’arrivo di Carlo De Benedetti, come ho illustrato nel mio articolo.