Jean-Louis-Ernest Meissonier (Lione, 1815 - Parigi, 1891) - Napoleone e il suo staff
Austerlitz 1805 - Come si conquista un impero - 5
di Mauro Lanzi
Fine di un impero
“In guerra concepire è nulla, l’esecuzione è tutto!”
Quanto sia vero questo detto napoleonico, lo dimostra proprio la svolta che la mossa di Kutusov aveva impresso allo scontro; con i francesi costretti a ripiegare, i piani di Napoleone rischiavano subire un contraccolpo decisivo.
Ma è l’esecuzione che fa, ancora una volta, la differenza. Nell'esercito russo regnava ancora il pensiero di Suvorov, il generale che aveva rifondato le armate imperiali sotto Caterina la Grande: “La pallottola è pazza, la baionetta è saggia”.
Ci si affidava quindi più allo scontro all'arma bianca che al fuoco di fucileria, malgrado che le recenti prove sui campi di battaglia europei ne avessero comprovato l'efficacia. Ma per sviluppare un fuoco di fucileria incisivo, si richiedeva un grande addestramento dei soldati, che ai francesi non faceva difetto, mentre ai russi mancava del tutto.
I fucilieri francesi erano in grado di retrocedere sotto la pressione nemica senza perdere lo schieramento, anzi mantenendo la stessa cadenza e precisione di tiro; in pratica, la prima fila, dopo aver sparato, arretrava per ricaricare (operazione assai complessa, con fucili ad avancarica), sostituita dalle file successive che facevano fuoco in sequenza.
Così, mentre russi ed austriaci avanzano, risalendo il pendio, in formazione compatta, spalla contro spalla, i francesi retrocedono in perfetto ordine, sparando salve di fucileria, con cadenza accelerata e massima precisione, ed aprono vuoti impressionanti nelle file nemiche. Lo slancio dell'attacco austrorusso si spegne progressivamente e infine si arresta, con le file falcidiate dal micidiale fuoco nemico; questo è il momento che gli ufficiali francesi attendevano, si scatena il contrattacco. Gli alleati sono in preda al panico, il fronte si rompe, i soldati fuggono in disordine, attraversano e travolgono anche il campo dello zar e dello stato maggiore. Così il dramma nel racconto di Tolstoj:
“Una folla disordinata e sempre più numerosa fuggiva indietro, verso il luogo dove cinque minuti prima le truppe erano sfilate davanti agli imperatori. Non soltanto era difficile fermare quella moltitudine, ma era impossibile non lasciarvisi trascinare. Bolkonskij cercava solo di non restarne distaccato e si volgeva indietro a guardare, perplesso e incapace di comprendere ciò che accadeva davanti a lui. Nesvickij, stravolto, acceso in volto, gridava furibondo a Kutuzov che se non si fosse allontanato subito, senza dubbio sarebbe stato fatto prigioniero. Ancora fermo allo stesso punto, Kutuzov prese il fazzoletto senza rispondere. Da una guancia gli colava del sangue. Il principe Andrej si fece largo fino a lui. «Siete ferito?» domandò, dominando a fatica il tremito della mascella inferiore. «La ferita non è qui, ma là!» disse Kutuzov premendosi il fazzoletto sulla guancia e indicando i fuggiaschi. «Fermateli!» gridò.”
Sono circa le dodici: l'esito dello scontro sull'altopiano di Pratzen decide la battaglia.
I reparti alleati impegnati sulla destra dello schieramento francese sono nel caos: non hanno conseguito i loro obiettivi per il mancato apporto delle due colonne richiamate al centro, l’artiglieria dei previsti rinforzi resta abbandonata a metà strada, gli ufficiali sono investiti da ordini e contrordini, emanati nel vano tentativo di arginare il disastro.
Uguale situazione di stallo sulla sinistra, dove Lannes, trincerato sull'altura di Santon, resiste agli attacchi della colonna guidata da Bagration, grazie anche al sostegno di Murat e Bernadotte.
Gli alleati non hanno né sbocchi, né più un piano di battaglia: dopo la rotta di Miloradovich, il fiume di fanti terrorizzati in fuga travolge il quartiere generale russo, privando così gli alleati di un centro di comando: lo stesso Kutusov, ferito, resta isolato, impotente.
A metà giornata, come detto, la tragedia è già all'ultimo atto: agli alleati non resta che un solo reparto da impiegare, la riserva agli ordini dell'Arciduca Costantino.
Non sappiamo se e chi dette l'ordine di impegnare la riserva, quando forse sarebbe stato più saggio risparmiarla per coprire la ritirata delle altre truppe.
Ritirarsi senza combattere però era ritenuto un disonore: così quando Costantino si vede davanti gli uomini di Vandamme, non esita, getta nella mischia tre reggimenti di fanteria appoggiati dalla cavalleria degli ulani, che in breve costringono le divisioni francesi a retrocedere.
Tutto ciò avviene proprio sotto gli occhi di Napoleone che era avanzato fin sull'altipiano per seguire il combattimento: è il momento di dare il colpo di grazia e con la scelta di tempo che contraddistingue il grande stratega, Napoleone getta in campo la sua riserva, la Guardia.
Le vicende della Guardia napoleonica potrebbero essere oggetto di una storia a sé stante: basti dire, in questa sede, che la Guardia era l'elite dell'esercito napoleonico; costituita da soldati scelti, i migliori per coraggio e perizia, fu un corpo capace di decidere le sorti dello scontro ogni volta che fu impiegata (tranne Waterloo…).
Così i russi che avanzavano impetuosamente si trovano di fronte a sempre nuove unità francesi, perfettamente inquadrate ed equipaggiate, composte da veterani, che in breve capovolgono l'inerzia dello scontro.
Il sacrificio della riserva dell’Arciduca Costantino era stato vano.
Era rimasta fuori dalla contesa solo la Guardia nobile, un corpo di più di mille cavalleggeri in cui militavano i rampolli dell'aristocrazia russa, la “jeneusse doreè” di San Pietroburgo: come trattenerli?
“Dio, lo Zar, la Russia”!! Parte la carica.
Questa è la scena forse più famosa di tutto lo scontro, scena che abbiamo visto in molte immagini, anche nel film di Bondarciuck.
Tolstoj la descrive così in “Guerra e pace” con gli occhi di un suo personaggio:
“Aveva percorso qualche centinaio di passi, quando alla sua sinistra, tagliandogli la strada, su tutta l'estensione del campo apparve un'enorme massa di cavalieri su cavalli morelli, con bianche uniformi scintillanti, che venivano al trotto dritti verso di lui. Rostov lanciò il cavallo ventre a terra per togliersi dalla loro traiettoria, e li avrebbe evitati se questi avessero continuato a procedere alla stessa andatura; essi però acceleravano di continuo la loro corsa, e alcuni cavalli erano già spinti al galoppo. Rostov udiva sempre più distintamente il loro calpestio e il tintinnio delle armi e distingueva sempre più nitidi i cavalli, le figure, perfino i volti. Erano i nostri cavalieri della Guardia che muovevano alla carica contro la cavalleria francese che le stava lanciandosi contro. I cavalieri della Guardia galoppavano, ma trattenevano ancora i cavalli. Rostov ne vedeva le fisionomie, udiva il comando «Carica!», pronunciato da un ufficiale che aveva lanciato il suo purosangue a briglia sciolta. Temendo di essere schiacciato o trascinato nella carica contro i francesi, Rostov galoppava lungo la linea con quanta forza aveva il suo cavallo, ma non riuscì a evitarli. L'ultimo cavaliere della Guardia, un uomo butterato, di statura gigantesca, si accigliò rabbiosamente quando vide davanti a sé Rostov col quale inevitabilmente si sarebbe scontrato. Quel cavaliere avrebbe atterrato Rostov insieme col suo Beduin (Nikolaj si sentiva piccolo e debole in confronto a quegli uomini e a quegli enormi cavalli), se a Rostov non fosse venuta l'idea di agitare lo scudiscio davanti agli occhi del cavallo della Guardia. Il nero, pesante cavallo da un metro e settanta al garrese, s'impennò appiattendo le orecchie; ma il cavaliere butterato gli piantò d'impeto nei fianchi gli enormi speroni e la bestia, rizzando la coda e allungando il collo, galoppò via ancor più veloce. I cavalieri della Guardia erano appena passati, quando Rostov udì il loro grido: «Urrà!» e, voltandosi, vide che le loro prime file si mischiavano con altri cavalieri, presumibilmente francesi, dalle spalline rosse. Poi non riuscì a veder più nulla, perché subito dopo i cannoni cominciarono a sparare e tutto fu avvolto dal fumo. Nel momento in cui i cavalieri della Guardia, dopo averlo oltrepassato, si dileguarono, Rostov ebbe un momento di esitazione, e si chiese se dovesse galoppar dietro di loro o proseguire per andare dove doveva. Quella fu la splendida carica della cavalleria della Guardia che lasciò stupefatti gli stessi francesi. In seguito per Rostov fu terribile sentir dire che di tutti quegli uomini grandi, bellissimi, di tutti quei giovani ricchi e brillanti, ufficiali e junker, che gli erano passati davanti al galoppo, in sella a cavalli che valevano migliaia di rubli, dopo la carica non ne erano rimasti che diciotto”.
Contro di loro Napoleone aveva infatti gettato la cavalleria della sua Guardia, i corazzieri, gli ussari, i mamelucchi, appoggiati dai quadrati di fanteria e dai cannoni: non ci fu scampo.
Napoleone commenta beffardo: “Molte belle signore piangeranno questa sera a San Pietroburgo”.
Alle quattro del pomeriggio siamo all'epilogo: i reparti di Vandamme convergono sulla destra, tagliando la ritirata alle colonne russe che nei piani di Weirother avrebbero dovuto accerchiare i francesi e che ora si danno disordinatamente alla fuga: è tragica la sorte della colonna Doktorov, forte di 6000 uomini. Per sfuggire all'inseguimento decidono di attraversare dei laghi gelati: i francesi portano dell'artiglieria sulla riva e bombardano il ghiaccio, condannando i nemici ad una fine atroce. Sentite il dramma nel racconto di Tolstoj-
“Le altre colonne, dopo aver perduta circa la metà degli uomini, si ritiravano in folle corsa scompaginate e mescolate fra loro. I resti delle truppe di Langeron e di Dochturov si accalcavano, fondendosi, intorno agli stagni, sulle dighe e sulle rive del villaggio di Auhest. Alle sei di sera, soltanto presso la diga di Auhest si udiva ancora un intenso cannoneggiamento francese: i francesi avevano postato numerose batterie sui pendii delle alture di Pratzen e tiravano sulle nostre truppe che si stavano ritirando. Alla retroguardia, Dochturov e altri avevano raggruppato alcuni battaglioni e rispondevano al fuoco della cavalleria francese che incalzava i nostri. Cominciava a imbrunire. Sulla stretta diga di Auhest, sulla quale per tanti anni se n'era stato pacificamente seduto il vecchio mugnaio con la berretta e la lenza, mentre il nipotino, con le maniche della camicia rimboccate, prendeva dal mastello l'argenteo pesce guizzante; su quella diga, sulla quale per tanti anni erano pacificamente transitati sui loro carri a due cavalli, carichi di frumento, i moravi dai berretti pelosi e dalle giubbe turchine, per poi ripassare dalla stessa diga, impolverati di farina, con i carri coperti di polvere bianca - su quella diga adesso, tra furgoni e cannoni, in mezzo a ruote di carri e ad alti cavalli, si affollavano uomini stravolti dal terrore della morte, premendosi a vicenda; e cadevano morti, calpestavano i morenti, si uccidevano fra loro o si fermavano per essere uccisi allo stesso modo dopo pochi passi. Ogni dieci secondi, comprimendo l'aria, nel mezzo di quella calca si abbatteva una palla da cannone o scoppiava una granata, uccidendo e spruzzando di sangue i più vicini. Dolochov, che era ferito a un braccio e procedeva a piedi con una decina di uomini della sua compagnia (era già ufficiale), e il suo comandante a cavallo, erano tutto quanto restava del loro reggimento. Sospinti dalla moltitudine, essi si pigiavano all'imboccatura della diga e, premuti da ogni parte, si erano fermati perché davanti a loro era stramazzato un cavallo che trascinava un cannone e gli uomini cercavano di staccarlo e di risollevarlo. Una palla uccise qualcuno dietro di loro, un'altra si abbatté davanti e spruzzò Dolochov di sangue. La ressa si spinse disperatamente in avanti, premendosi, spostandosi di qualche passo; poi si arrestò nuovamente. «Ancora cento passi e sono salvo; ancora un paio di minuti qui e di certo sono morto,» pensava ciascuno. Dolochov, che era al centro della calca, si lanciò verso l'orlo della diga, atterrò due soldati e prese a correre sul ghiaccio sdrucciolevole che copriva lo stagno. «Qua!» si mise a gridare, saltellando sul ghiaccio che scricchiolava sotto di lui, «qua!» gridava verso il cannone. «Regge!» Il ghiaccio reggeva, ma si piegava e scricchiolava, ed era evidente che non un cannone o quella moltitudine, ma il suo solo peso l'avrebbe spezzato da un momento all'altro. Gli altri lo guardavano e si pigiavano sulla riva, senza ancora decidersi a inoltrarsi sul ghiaccio. Il comandante del reggimento, che stava a cavallo presso l'entrata della diga, sollevò un braccio e spalancò la bocca rivolgendosi a Dolochov. All'improvviso una palla di cannone sibilò così bassa sulla folla che tutti si chinarono. Ci fu uno schianto su qualcosa di molle e il generale cadde col suo cavallo in una pozza di sangue. Nessuno lo guardò, nessuno pensò a risollevarlo. «Passa sul ghiaccio! Passa sul ghiaccio! Avanti, cammina: non mi senti!? Qua!» echeggiarono a un tratto, dopo la palla che aveva centrato il generale, innumerevoli voci che neppure sapevano che cosa gridassero e perché. Uno dei cannoni di coda, che stava per imboccare la diga, svoltò sul ghiaccio. Folle di soldati cominciarono a correre dalla diga sullo stagno gelato. Sotto uno dei primi soldati il ghiaccio scricchiolò e un piede gli sprofondò in acqua; egli fece per risollevarsi, ma sprofondò fino alla cintola. I soldati che gli erano più vicini esitarono, il conducente del cannone fermò il suo cavallo, ma dietro si udiva ancora gridare: «Monta sul ghiaccio, perché ti fermi? Cammina!» Nella folla echeggiarono grida di terrore. I soldati che circondavano il cannone agitavano le fruste sui cavalli e li battevano perché deviassero e si muovessero. I cavalli si staccarono dalla riva. Il ghiaccio, che reggeva gli appiedati, si spaccò e cedette in un blocco enorme, e una quarantina di uomini che vi stavano sopra si buttarono chi avanti, chi indietro, trascinandosi a vicenda sott'acqua. Le palle continuavano a sibilare con la stessa regolarità e piombavano sul ghiaccio”
La narrazione del grande autore rende appieno la tragedia, ma è solo un episodio dell’orrore che si visse in quel pomeriggio sul lago ghiacciato.
Ad Austerlitz, l'esercito russo perde la metà dei suoi effettivi e tutta l'artiglieria. Ancora peggiore fu la sorte dei contingenti austriaci di cui non si ha più traccia.
Con il bronzo ricavato dalla fusione dei cannoni russi, Napoleone farà realizzare la colonna che si può ancora ammirare in Place Vendome.
Conclusione
La vittoria di Austerlitz fu la vittoria completa, eclatante che Napoleone cercava, ma non pose fine alla guerra. Kutusov, sempre più abile nelle ritirate che nell'attacco, riuscì a riunire a porre in salvo i resti del suo esercito; lo zar, quindi, rifiutò la pace, anche se decise di rientrare in Russia, senza prestare ulteriore assistenza all'alleato. Privo anche di questo supporto Francesco II doveva cedere: con la capitale occupata dal nemico, le casse del tesoro vuote, i territori del regno invasi e devastati non aveva altra scelta
I due Imperatori si incontrarono il 4 dicembre: avevano la stessa età, 36 anni, ma Francesco era già un vecchio piegato dal destino, camminava appoggiandosi ad un bastone, mentre Napoleone, al culmine della sua parabola, può dimostrare a tutta Europa di essere un regnante di pari livello alla più antica casata del mondo occidentale.
Senza addentrarci nei dettagli del trattato di pace che seguirà, non si può non ricordare che Francesco II fu anche costretto a rinunziare al titolo di Imperatore Romano; scompare così un'istituzione, il Sacro Romano Impero, che aveva quasi mille anni.
Per un impero che tramonta, uno che nasce ed ha sul campo di Austerlitz la sua consacrazione, l'Impero Napoleonico, assai più effimero quanto durata, ma la cui impronta segnerà in modo indelebile le sorti d'Europa.