Aggiornato al 27/04/2024

Non sono d’accordo con quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo

Voltaire

Maria Vinca (Milano, 1878 - Venezia, 1939) - Ritratto di Matteotti (Particolare)

 

Giacomo Matteotti, il Martire

di Vincenzo Rampolla

 

Il 9.11.1955 la Camera dei Deputati e il Senato approvano la legge che concede una pensione (pari a € 6.000 annue) a Isabella Matteotti, orfana del Martire Giacomo Matteotti a partire dal 1.7.1954, finché nubile. È il Presidente Gronchi che la promulga, pubblicata sulla G.U. n.268 del 21.11.55.

Non è la Chiesa che lo pone nell’elenco dei martiri, come santo Stefano o santa Caterina, è lo Stato italiano che per primo, d’autorità, chiama Martire un politico assassinato il 10 giugno 1924 e il 15 agosto ritrovato in stato di decomposizione, sotterrato in un bosco alla periferia di Roma.

Martire politico dunque, esattamente 95 anni fa. Isabella muore a 72 anni e lascia due fratelli Matteo giornalista e politico, Ministro del Turismo e Spettacolo nel governo Colombo, e Giancarlo, anch’egli politico e Sottosegretario al Bilancio nel governo Fanfani.

Tutto si conosce della vita di Giacomo Matteotti. Basta consultare gli archivi di Stato, di Palazzo Chigi e della Casa-Museo di Fratta (Rovigo) dove è sepolto, la corrispondenza con la moglie, gli articoli del quotidiano Il Corriere del Polesine e i moltissimi libri e studi.

La provincia di Rovigo è una delle zone italiane più povere.

La popolazione di contadini e braccianti vive in condizioni miserabili e si orienta verso il socialismo. Il flusso migratorio è imponente e nei successivi trent’anni dirotta verso il Sud America circa un terzo dei residenti.

La famiglia Matteotti originaria del Trentino si era trasferita nel Polesine nella prima metà del 1800. Proprietari di una miniera di ferro a Comasine, in Val di Pejo, i Matteotti agiati proprietari terrieri attivi nel commercio di lavorati e semilavorati di ferro e rame si installano a Rovigo.

Il nonno Matteo si stabilisce a Fratta nel 1852 e apre un negozio. Nel 1858 viene ucciso in una rissa davanti alla sua bottega e il figlio Girolamo eredita le attività. Dopo l’annessione del Veneto all’Italia (1866), acquista all’asta terreni e beni ecclesiastici grazie alle leggi di esproprio del 1866-67 e con una lucrosa attività di prestito di denaro. Nel 1875 sposa Isabella Garzarolo, popolana dal carattere indomito, con forte senso degli affari e dotata di una cospicua dote. Nel 1885 i Matteotti fanno parte delle famiglie agiate della provincia e nasce Giacomo, penultimo di 7 figli, 4 dei quali morti in tenera età, Matteo, nato nel 1876 muore di tubercolosi a 30 anni dopo gli studi di economia politica e anche il fratello, Silvio, muore di tubercolosi a 22 anni. Giacomo conduce una vita agiata e viaggia in Europa, in particolare per preparare la tesi di laurea. Parla francese, inglese e tedesco. Nell’estate del 1912 conosce Velia Titta, sorella minore del baritono Titta Ruffo, che sposa con rito civile nel 1916. Donna lontana dalla politica e di radicati sentimenti cattolici a differenza del marito, dalle rigide convinzioni laiche e anticlericali. Lei sa esercitare su di lui una forte influenza e il loro ricco epistolario è uno straordinario documento umano che ne illumina il profilo politico. Dal matrimonio nascono 3 figli: Giancarlo (1918-2006), Matteo (1921-2000) e Isabella (1922-1994).

Tutto si sa della sua vita politica. Basta cercare e rovistare tra i documenti.

Laureato in legge a Bologna, Giacomo inizia la carriera universitaria nel settore penale.

Nel 1910 pubblica a Torino la tesi La recidiva, testo che affronta il tema della reiterazione del crimine, tuttora citato nelle bibliografie specialistiche. Collabora al periodico socialista locale La lotta e nel 1910 è eletto nel Consiglio provinciale di Rovigo. Successivamente è consigliere comunale in vari comuni, dove la famiglia ha proprietà terriere e nel 1912 è sindaco di Villamarzana, borgo confinante con Fratta.

Da allora l’attività politica e amministrativa lo assorbono totalmente. È un amministratore locale e un efficiente organizzatore di leghe di braccianti, dotato di un ascendente che lo impone rapidamente all’attenzione dei compagni di partito e degli avversari.

Dedica molte attenzioni al sistema scolastico di base, maturando l’idea che se non si elevano culturalmente e socialmente le classi contadine, in Italia non sarebbe mai stato possibile il cambiamento.

È un riformista, dotato di temperamento focoso e nemico del compromesso. Diviene rapidamente il leader indiscusso del socialismo del Polesine.

Allo scoppio della guerra Giacomo assume una linea rigorosamente neutralista.

In seguito ad un discorso contrario alla guerra tenuto in Consiglio provinciale subisce un processo per disfattismo, dal quale esce assolto solo in Cassazione. Alle autorità militari pare che questo pericoloso sovversivo vada tenuto alla larga dal fronte operativo.

Riformato per debolezza polmonare, nell’estate del 1915 libero da ogni impegno, a rischio della vita, viene ugualmente richiamato alle armi e l’anno successivo confinato nella caserma di Campo Inglese di Messina dove rimane fino alla primavera del 1919.

Estraneo al teatro di guerra, non ha mai avuto la nozione del dramma vissuto nel Veneto, in particolare dopo la rotta di Caporetto.

Negli anni di forzata inattività riprende gli studi di diritto e pubblica alcuni saggi.

Congedato a marzo 1919, dedica anima e corpo alla lotta politica e alle elezioni di novembre, le prime svolte col sistema proporzionale a scrutinio di lista e viene eletto deputato nella circoscrizione di Rovigo e Ferrara. A Rovigo, il PSI ottiene il 70% dei voti e si rivela la provincia più rossa d’Italia, con 63 comuni del Polesine.

Subito dopo l’elezione, prende confidenza con gli interventi in Aula anche in importanti occasioni. Senza timori reverenziali, nei suoi discorsi alterna ragionamenti e ironie, battute e analisi che rivelarono una disinvoltura da veterano e lo impongono all’attenzione generale.

È il periodo di clima convulso del dopoguerra e il biennio rosso, caratterizzato da violenze e illegalità, isola a poco a poco i socialisti e scatena la reazione dei ceti agrari e proprietari, che trovano nello squadrismo fascista una presenza decisa e senza scrupoli.

La bassa Pianura Padana e il Polesine sono al centro di questa complessa evoluzione, che condanna il Paese alla paura e al sangue.

Matteotti, leader socialista polesano e parlamentare nazionale, viene spesso accusato di essere l’uomo dai due volti: legalitario a Roma e rivoluzionario in Polesine.

Prima della guerra era stato il bersaglio di durissimi attacchi degli avversari, che vedevano in lui una sorta di traditore di classe, il ricco proprietario terriero passato al socialismo.

Sulla stampa locale, liberale e cattolica, non si contano le bordate contro il socialista milionario e il rivoluzionario impellicciato.

All’inizio era una figura locale, dopo la guerra deve svolgere un ruolo politico nazionale, nel clima inferocito degli anni postbellici.

Giacomo vive al centro di una vicenda politica diversa, caratterizzata dal crollo progressivo del vecchio liberalismo e dalla sconfitta del socialismo, nonché del popolarismo cattolico, difronte al crescente movimento mussoliniano. In varie occasioni è vittima della violenza fascista, capace di rovesciare in pochi mesi la situazione politica di Rovigo: il 12 marzo 1921 subisce a Castelguglielmo un’aggressione brutale (si è parlato di violenza sessuale), dopo la quale è costretto a abbandonare il Polesine.

In vacanza a Varazze il 14 settembre 1922 con la moglie e Isabella di pochi mesi, viene raggiunto da una commissione fascista che gli impone di lasciare il luogo in giornata con minaccia di provvedimenti a suo carico.

Rieletto deputato alle elezioni di maggio 1921, all’inizio di ottobre 1922 diviene segretario del Partito Socialista Unitario (PSU), il partito formatosi dalla destra del PSI, cogliendo l’ala riformista di cui era leader FilippoTurati.

L’anno prima, al congresso di Livorno, il PSI aveva subito la scissione a sinistra con la nascita del Partito Comunista (PCI). All’appuntamento con la marcia su Roma, i socialisti si presentavano dunque divisi in tre gruppi, impegnati più a guerreggiare tra loro che a affrontare l’avversario.

La vittoria del fascismo è inevitabile.

Matteotti vive i suoi ultimi due anni di vita in una crescente solitudine.

Solo nell’arena politica della sinistra, la sua distanza nei confronti del comunismo è netta tanto quanto quella nei confronti del fascismo, come scrive in una gelida lettera a Togliatti, rifiutando la sua proposta di alleanza alle elezioni del 1924.

È solo anche all’interno del PSU, di cui non manca di denunciare le viltà, l’incapacità, i tradimenti, la sotterranea volontà di unirsi al potere con i fascisti.

Ha conosciuto il fascismo fin dalle sue origini nelle campagne padane e non cessa di scagliarsi contro il pericolo del nuovo movimento, incitando il suo partito all’azione.

In questo periodo le sue lettere a Turati, con cui mantiene uno strettissimo rapporto politico e umano, sono una testimonianza della drammatica disfatta perseguita dalla classe politica e delle responsabilità imputabili alla sinistra.

Tutto si può sapere sugli ultimi giorni della sua vita. Basta scavare tra le carte: dal Corriere del Polesine del 1920/’22/’24, dall’ultimo capitolo del libro del figlio Matteo: Quei vent’anni, dal fascismo all’Italia che cambia insieme all’intervista su Storia Illustrata di novembre 1985 e dalla rocambolesca soffiata ricevuta nel 1978 da A. Piron anziano mutilato di guerra: “nel tubo della stufa di una casa in campagna nei pressi di Regello, vicino a Firenze, è celato un documento molto importante che lo riguarda.”

Si tratta dell'autografo originale su carta intestata Camera dei Deputati dell'ultimo articolo del padre pubblicato su Echi e Commenti il 5 giugno 1924, cinque giorni prima di essere ucciso.

Giacomo parla chiaramente di affari e tangenti nei quali sono coinvolti uomini del Governo, riferiti a aperture di nuove case da gioco e all'importazione del petrolio e alle sue ricerche in Italia.

Da dove sbuca quell'originale? Cos’é la storia del petrolio? Che cosa ha spinto Piron a svelare a Matteo quel documento dopo 50 anni?

Rieletto nel 1924 alle elezioni svoltesi dopo la riforma del sistema elettorale voluta da Mussolini, a Matteotti viene ritirato il passaporto.

Si reca comunque in Inghilterra e raccoglie documenti sulla corruzione di uomini del regime nelle forniture petrolifere all’Italia.

Il 30 maggio, nella seduta inaugurale del nuovo Parlamento, pronuncia un memorabile intervento di più di un’ora, denuncia il clima di violenza e illegalità in cui si erano svolte le elezioni e ne chiede l’annullamento. Al termine torna stremato al suo banco.

Ai colleghi che si congratulano avrebbe detto: “ora dovete prepararvi a fare la mia commemorazione funebre”.

Scoppia un tumulto infernale. Battibecco serrato e violento tra Matteotti e Farinacci, Grandi, Bottai, Rossi, Torre. I Deputati si precipitano nell'emiciclo. È scontro. Il pugilato si fa generale. Tutti partecipano alla lotta. Bencivegna e Amendola ricevono e danno pugni e bastonate.

Il Presidente Rocco scampanella febbrilmente e sospende la seduta. Si ordina lo sgombero della tribuna. Il momento è grave. Il clamore dell'Aula è al massimo.

Giunta, segretario nazionale del PNF, resta impassibile al suo posto.

Salandra riferisce questa frase di Mussolini, che dai banchi del governo aveva seguito terreo l’intervento: “Quando sarò liberato da questo rompic… di Matteotti?”

Dieci giorni dopo, nel pomeriggio del 10 giugno, viene aggredito, malmenato e sequestrato sul Lungotevere Arnaldo da Brescia, poco lontano dall’abitazione.

Un gruppo di uomini della Ceka fascista al comando di A. Dumini lo carica a forza su una Lancia Kappa noleggiata al Garage Trevi da F.Filippelli, direttore del Corriere Italiano, e parte a gran velocità verso Ponte Milvio.

Assassinato nell’auto con una lima acuminata, il corpo viene ritrovato il 15 agosto in un bosco non lontano da Roma.

Nella ricostruzione data da Salvemini, Mussolini aveva ordinato ai capi della Ceka di far scomparire clandestinamente ma definitivamente i capi più in vista dell'opposizione, cominciando dall'on. Matteotti e “gli esecutori lo seppellirono malamente in una fossa improvvisata, scavata con arnesi di fortuna, perché l’auto era tutta sporca di sangue e volevano ritardarne il ritrovamento per avere il tempo per pulire per bene l’auto, in modo da non lasciare tracce.”

Mussolini saprà del sequestro e dell'uccisione di Matteotti la mattina successiva, l'opinione pubblica due giorni dopo.

La denuncia della scomparsa è effettuata da G.Modigliani la sera dell'11 giugno verso le ore 20, dopo che è cominciato il dibattito alla Camera, dove lo stesso Matteotti era iscritto a parlare.

I portieri di uno stabile vicino identificano il numero di targa dell'auto pensando a dei ladri in fuga e gli inquirenti risalgono con certezza agli aggressori. Si apre la crisi politica.

Diecimila persone partecipano al funerale, quasi il triplo della popolazione di Fratta.

Tra il 1925/1926, superata la crisi politica, Mussolini emana le cosiddette leggi fascistissime che smantellano lo stato liberale di diritto e instaura la dittatura.

Nel ventennio la figura di Matteotti è messa al bando. Solo pronunciarne il nome poteva costare molto caro, mentre la madre (morta nel 1931), la vedova (morta nel 1938) e i tre figli vivono a Fratta sotto strettissimo controllo.

Secondo le confidenze fatte da Aimone di Savoia-Aosta ad un gruppo di suoi ufficiali nell’autunno 1942, Matteotti era entrato in possesso di documenti che provavano che il Re aveva fatto un patto con una società petrolifera straniera, la potentissima Sinclair Oil, affiliata alla Anglo Persian Oil (futura BP).

Il petroliere Sinclair aveva fatto entrare gratuitamente il Re tra i suoi azionisti, in cambio il sovrano si era impegnato ad esercitare la propria autorità per impedire all’Italia lo sfruttamento dei giacimenti petroliferi in Libia.

Intanto il capo della polizia E.De Bono viene a sapere che Matteotti è in possesso di documenti compromettenti per il Re e che li porta sempre con sé in una borsa.

De Bono vola a Roma dal Re, lo informa e i due si accordarono sulla necessità di sopprimere Matteotti e di asportare dalla sua borsa i documenti.

L’8 giugno 1924 De Bono convince Dumini ad eseguire il piano, pagando un’ingente somma di denaro – registrata puntualmente su un taccuino di Finzi, custode dei pagamenti occulti - e due giorni dopo Matteotti viene rapito e ucciso.

Da allora non si sentì più parlare dei documenti riguardanti il patto fra il Re e la Sinclair.
E la sua borsa? La fine di tutte le borse, agende, diari e lettere scomparse e sepolte insieme ai Martiri dell’italietta di ieri e di oggi.

 

Inserito il:13/08/2019 17:02:07
Ultimo aggiornamento:13/08/2019 17:12:48
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