Boris Kustodiev, Festa in onore del II Congresso dell’Internazionale comunista del 19 luglio 1920. Dimostrazione sulla piazza Uritskij, olio su tela 1921
Il nostro novecento – Capitolo 9
di Tito Giraudo
9. Di tutto e di più
In quel 1917 successe di tutto e di più. L’evento clou fu certamente l’ennesima disfatta militare dello Zar. Come nel 1905, in primavera scoppiarono moti rivoluzionari che questa volta Alessandro non riuscì a contenere; abdicò in favore del fratello che, sentendo puzza di bruciato, diede forfait. Il primo governo liberale fu affidato all’unico principe non troppo reazionario presente sul mercato.
Gli Stati Uniti, sempre in primavera, entrarono ufficialmente in guerra mandando un corpo di spedizione in Europa. In luglio ci fu un’offensiva russa culminata nell’ennesima sconfitta. Fu la fine del governo liberale, che dovette cedere il potere a Kerenskij, capo dei Menscevichi.
Anche in Russia il socialismo era diviso tra una fazione riformista e una massimalista; a differenza dell’Italia i riformisti erano la maggioranza, e furono chiamati menscevichi. La minoranza fu definita invece bolscevica; i suoi leader principali furono Lenin, l’ideologo, e Trotskij, il condottiero che aveva già guidato la rivoluzione del 1905.
A Torino in agosto scoppiarono i moti per il pane; nell’autunno ci fu la disfatta di Caporetto e la presa del potere in Russia da parte dei Bolscevichi. In Italia i nodi vennero al pettine; ai problemi dati dall’arretratezza cronica, si aggiunse il modo in cui venne gestito lo sforzo bellico, affidato essenzialmente alla burocrazia militare. L’esercito dei Savoia non aveva mai brillato per efficienza, era l’esercito di un regno di provincia che, in fondo, aveva vinto poche battaglie e ne aveva perse molte malamente.
I Piemontesi, per realizzare l’unità d’Italia sia pur controvoglia, erano ricorsi a un avventuriero socialistoide che metteranno da parte appena raggiunto lo scopo. Alla calata dei burocrati nei primi anni del regno corrispose, da parte politica, la liquidazione dell’unica vera grande novità militare che si era prodotta: l’esercito garibaldino. Un coacervo di patrioti e avventurieri che sancirono in qualche modo il rovesciamento di quell’arte militare rimasta ibernata in schemi ormai logori. Garibaldi però, tra i tanti meriti, non aveva certo quello di saper fare politica. Subito dopo l’Unità del paese si provvide all’epurazione garibaldina, confinando lo stesso eroe nazionale nel ruolo di icona folcloristica.
Come sempre avviene in questo paese, diventarono tutti liberali. Prevalsero le spinte conservatrici e lo stato che si consolidò fu accentratore e stupidamente burocratico. La guerra fu affrontata con questo spirito e da queste persone. Mentre negli altri paesi si realizzava l’unità di intenti, i nostri socialisti, a parte qualche timida profferta di collaborazione da parte riformista, si misero su un terreno di sterile non collaborazione.
Quando il Governo decise che i militari, oltre alla guerra, dovevano gestire anche lo sforzo produttivo del paese, pochi ebbero da ridire. Uno di questi fu Camillo Olivetti che, parlando di quel carrozzone che era il Comitato di Mobilitazione Industriale, disse a Pietro: «Non so se siano peggio i ladri o gli incapaci! I primi almeno si spremono le meningi. I secondi sono degli imbecilli molto più pericolosi, perché non sanno quello che fanno!»
Il rapporto tra Pietro e Camillo si era consolidato. L’ingegnere considerava Pietro il suo punto di riferimento nel Comitato e Pietro ben volentieri si lasciava guidare. Quando Gioda fu rispedito a casa per motivi di salute, si affiancò ai due.
Cos’era avvenuto? Quando gli industriali compresero che il potere, in termini di commesse e pagamenti, stava saldamente nelle mani della casta militare, invece di fare come Camillo che denunciò la situazione, optarono per la solita posizione opportunista, diventando complici in cambio di grandi possibilità speculative. Quei militari in fondo furono solo dei piccoli ladri e dei grandi incapaci; i finanzieri e anche molti industriali, per contro, furono grandi ladri molto capaci, naturalmente pro domo loro.
Camillo vedeva realizzarsi tutte le preoccupazioni espresse nella seduta inaugurale del Comitato. La sua fabbrica di macchine per scrivere si era trovata in difficoltà nel 1914-15 a causa della drammatica indecisione del paese nell’entrare in guerra. Quando finalmente il dado fu tratto, l’Olivetti poté sviluppare tutto il suo potenziale tecnico e creativo, nonostante in quegli anni le sue dimensioni non fossero grandi.
Poche furono le macchine per scrivere prodotte nel periodo bellico, per lo più modelli da utilizzare al fronte. Ma le caratteristiche avanzate della strumentazione elettrica, e l’esperienza maturata da Camillo in quello specifico settore, permisero alla fabbrica, oltre alla produzione di armi normali, di fornire avanzatissime apparecchiature per l’aeronautica italiana e anche alleata. Per la fabbrica di Ivrea l’evento bellico significherà un momento di forte sviluppo. Qualcuno, senza prova provata, tenterà in seguito di coinvolgere anche la Olivetti tra i profittatori di guerra, mentre le indagini storiche successive hanno dimostrato come l’azione di Camillo Olivetti fu improntata alla massima trasparenza e animata da indiscusso spirito patriottico.
Anche Agnelli e la Fiat, secondo lo stile pragmatico e utilitarista, risposero alle aspettative. Certo il futuro senatore approfitterà di tutte le occasioni, non escluse quelle speculative, ma nel complesso la Fiat non fu certo tra le peggiori. Dopo la prima riunione del Comitato regionale, Agnelli piazzò alla presidenza il suo vice, quel Dante Ferraris che, forte di amicizie negli ambienti nazionalisti e anche se non sempre con l’accordo di Agnelli, riuscirà a far giocare un ruolo preminente alla Fiat nelle forniture militari. Oltre agli autocarri e alle vetture militari, tipici della sua produzione, la Fiat fornì a tutto campo materiale aereo e marino. Su licenza francese costruì, migliorandole, mitragliatrici leggere che si dimostreranno validissime. I motori aerei saranno venduti anche all’esercito inglese.
Tutto venne costruito nello stabilimento di corso Dante e in quello vicino di via Madama Cristina. Un flusso ininterrotto di parti che confluivano nel capannone centrale (6.000 mq) dove venivano assemblate. Ci furono sovrapprofitti, indubbiamente, però Agnelli, a differenza di altri, pensava soprattutto allo sviluppo della fabbrica. Iniziò infatti la progettazione di un grande stabilimento al Lingotto, che sarebbe diventato il primo vero grande centro produttivo sul tipo di quelli che Ford aveva realizzato negli Stati Uniti. La Fiat, al termine del conflitto, impiegava a Torino ventimila dipendenti, avviandosi a diventare la più grande e moderna realtà industriale del Paese.
Altri non fecero altrettanto. L’agricoltura, tradizionalmente più arretrata, si trovò in difficoltà anche per l’allontanamento dai campi di quei milioni di braccianti che diventeranno la carne da cannone nel conflitto. A nulla valse il tardivo acquisto di trattori dall’Inghilterra e di derrate alimentari dall’estero. Il grano, e quindi il pane, scarseggiavano: a farne le spese erano gli operai e i meno abbienti. Considerando che all’epoca il pane era la base dell’alimentazione popolare, si può immaginare come pesasse alle donne, uscite dalle fabbriche, dover fare estenuanti file per procurarselo, con il rischio il più delle volte di non riuscirci.
Quando a Torino scoppiarono i moti per il pane, questi assunsero subito il carattere di una rivoluzione popolare. Due erano le cause che concorrevano a infiammare gli spiriti. La prima, il malcontento per una guerra annunciata dalla propaganda come una rapida passeggiata, ma che dopo due anni di inutili massacri, veniva vissuta malissimo da una popolazione operaia contraria, anche a causa della propaganda socialista.
La seconda, fu l’eco degli avvenimenti russi. L’alleanza avvenuta in quel grande paese tra i militari insorti e gli operai dei Soviet, pur nella frammentarietà e contraddittorietà delle notizie che arrivavano, indusse gli operai e molti dirigenti a pensare che anche in Italia si potesse seguire l’esempio russo. La ribellione fu condotta con una violenza inaudita per una popolazione, come quella di Torino, solitamente riflessiva e conservatrice. Di fronte a tanta veemenza, i dirigenti socialisti furono spiazzati. Era estate e molti di quei borghesi, rivoluzionari solo a parole, erano in vacanza con la famiglia. Tardarono ad arrivare e, una volta giunti, iniziarono a lanciare i soliti proclami barricadieri ma, dato che le barricate i cittadini questa volta le avevano fatte davvero, si affrettarono a cercare un compromesso con le autorità militari, che nel frattempo si erano messe a sparare. Non che gli insorti lanciassero caramelle! Sparavano anche loro ma, certo, in modo meno professionale.
Se Pietro avesse seguito l’istinto sarebbe salito sulle barricate. Sapeva benissimo che la gente aveva ragione. Quello che succedeva nel Comitato era chiaro. Pietro, spinto anche da Camillo, aveva denunciato le inefficienze e, cosa ancora più grave, l’imboscamento dei figli della gente che contava a scapito persino di quella mano d’opera specializzata indispensabile allo sforzo bellico. Sapeva inoltre che il pane non arrivava a causa delle speculazioni e dell’incapacità generale. Ancora una volta fu Mario a trattenerlo.
Gioda nel 1908 aveva cambiato lavoro. Non potendo fare il giornalista a tempo pieno, aveva trovato un impiego alla Reale Mutua Assicurazioni di Torino. Cambiare ambiente gli aveva permesso di scoprire una piccola borghesia che gli aveva fatto capire come tra i ricchi e i poveri esistesse un cuscinetto fatto di persone laboriose e civili. Anche un rivoluzionario anarcoide come lui non poteva sottovalutare il fenomeno. Nella classe operaia poi, le élite specializzate si stavano smarcando, avvicinandosi sempre più a condizioni piccolo borghesi.
Il giorno che scoppiò la “rivoluzione” a Torino, Mario raggiunse Pietro nella solita piola di via Nizza dove erano soliti trovarsi. Le piole erano delle mescite: dietro il bancone c’erano le spine, collegate alle botti da cui veniva spillato il vino. Erano molto più simili ai pub inglesi che non ai nostri bar moderni; al posto della birra dalle bocchette usciva barbera, grignolino o dolcetto. Non mancavano mai il salame e le barice (acciughe sotto sale, dissalate e messe in un grilèt (zuppiera).
Mario accompagnò Pietro nella sede del Comitato dove regnavano confusione e paura. I soldati si preparavano a difendere gli uffici, ma si mormorava di defezioni nell’esercito e di armi cedute agli insorti. Pietro, come vide quella confusione, si mise a urlare: «Sono mesi che vi dico che state prendendo in giro il popolo, questi sono i risultati della vostra delinquenza!» Tutto questo detto naturalmente in piemontese stretto, intercalato da contumelie varie.
I pochi membri presenti sbiancarono. Mario cercò di calmare Pietro ma fu il provvidenziale arrivo di Camillo che ebbe il potere di zittirlo. L’ingegnere di Ivrea prese da parte Pietro dicendogli: «Questa è una specie di resa dei conti giusta e sacrosanta. Ma avviene nel momento sbagliato e soprattutto in un contesto circoscritto alla sola Torino. Questa non è una rivoluzione, i dirigenti socialisti non sanno e non vogliono farla! Purtroppo sanno fare del facile estremismo quando la situazione è tranquilla, ma perdono completamente la testa quando le cose che hanno predicato fanno breccia sul popolo.
«Tu mantieniti calmo, Pietro, e usiamo la tua posizione nel Comitato. Quando sarà finita la sommossa, che purtroppo temo finisca nel sangue, si dovranno tirare le somme.»
«Ingegnere, guardi cosa è successo in Russia!»
«Lo so, Pietro, ma la situazione della Russia è ben diversa dalla nostra. Il potere assolutistico degli Zar non ha permesso la crescita di una borghesia operosa come la nostra. La Russia è praticamente uno stato feudale, un paese immenso e soprattutto contadino. I Soviet operai sono delle avanguardie che rappresentano una piccola parte della popolazione. Ho notizie che i socialisti, al potere da pochissimo tempo, sono già in difficoltà nei confronti dei generali, che non sono sicuramente dalla loro parte.»
«L’ala rivoluzionaria, i bolscevichi, – intervenne Gioda, – pur costituendo la minoranza, è l’unica in grado di infiammare il popolo che, diciamo la verità, non ha nulla da perdere.»
«Già, – disse Camillo, – Kerenskij, il capo del governo, mi sembra un socialista come Turati, ottima persona ma debole e indeciso. Secondo me la partita sarà tra i generali e i bolscevichi di Lenin e Trotskij.»
«Io comunque vado a Milano, – disse Gioda, apprestandosi a partire. – Mussolini è tornato dall’ospedale, lui ci dirà quello che dobbiamo fare e le posizioni che dobbiamo tenere. Lei ingegnere, se può, tenga calmo Pietro.»
Mario, che era il corrispondente da Torino de Il Popolo d’Italia, il giorno dopo trovò facilmente Benito alla redazione del giornale. I due reduci si abbracciarono. Mussolini, informatissimo di quanto stava accadendo a Torino, espresse a Mario le proprie perplessità: «Non credo che quello che sta avvenendo a Torino si allargherà al resto del paese; d’altra parte, in piena guerra, questo è disfattismo! Anche per questo dovranno pagare i socialisti!»
«Veramente, Benito, – incalzò Mario, – quegli imbecilli erano tutti in vacanza! La rivolta è partita dalle donne che non trovavano il pane, poi si sono uniti gli operai.
«La situazione a Torino è insostenibile. La militarizzazione delle fabbriche ha creato situazioni durissime sul piano degli orari di lavoro. Ormai metà degli operai sono donne e fanciulli, a cui starebbe anche bene lavorare di più per guadagnare, ma poi pretendono almeno di trovare il pane. Pietro, che è nel Comitato, è l’unico a sostenere le nostre battaglie. Tutti gli altri sono lì per i loro interessi e quelli dei loro amici. È vergognoso quello che succede!»
«Questo sta succedendo un po’ dappertutto – precisò Benito, – Torino, come Milano, è il cuore industriale del paese. Qui i problemi diventano esplosivi!, il Re, i suoi generali, i suoi ministri, gli speculatori e anche molti industriali, mentre il popolo muore al fronte, speculano e si arricchiscono. Mario, finita questa guerra, dovremo dare una spallata sia alla destra che alla sinistra. Adesso dobbiamo stare calmi, dillo anche a Pietro. Io credo che dopo i fatti di Torino cambieranno molte cose. Ieri ho parlato con il compagno Buozzi, che continua a essere il leader nazionale della Fiom, e mi ha detto che la CGIL entrerà ufficialmente nei comitati. Meglio tardi che mai!»
«Benito, io sto seguendo sistematicamente Pietro che in questi anni di guerra è cresciuto politicamente, anche grazie al fatto che l’ingegnere Olivetti di Ivrea l’ha preso a benvolere e gli dà sempre degli ottimi consigli.»
«Conosco Olivetti che, pur essendo un riformista, è stato un interventista convinto. Mi ha scritto più volte, è abbonato al Popolo. Mi ha mandato una lettera in ospedale per farmi gli auguri, ha scritto cose molto interessanti. Sosteneva che se gli americani fossero entrati in guerra sarebbero cambiate molte cose. Diceva di essere stato due volte negli Stati Uniti dove è stato colpito dalla loro grande potenza industriale che da noi giudica inimmaginabile.»
«Ma si sono decisi, finalmente, a entrare in guerra!» ribatté Mario.
«Sì, – aggiunse Mussolini, – l’ultimo rovescio militare della Russia ha purtroppo ridato fiato agli imperi centrali. Vedrai che i bolscevichi prenderanno il potere, i tedeschi non saranno più impegnati su quel fronte e questo bilancerà l’ingresso degli americani. Credo, però, che la guerra sia segnata e la vittoria, se non imminente, sia vicina.
«È ora, Mario, che ci occupiamo del fronte politico. Io prevedo un rafforzamento dei socialisti e anche, a causa delle vicende russe, un rafforzamento della corrente massimalista. Sono sempre più convinto che, data la debolezza liberale, occorra creare una terza forza. La guerra sta liberando tante energie. Avevi ragione tu, quando mi dicevi che stava crescendo una nuova borghesia che non si deve sottovalutare. Anche se il nostro scopo è sempre rivoluzionario, il solco tra noi e i socialisti sta diventando incolmabile. Quello che sta succedendo in Russia li porterà ad accentuare le posizioni internazionaliste. Paradossalmente per noi sarà più facile dialogare con Turati.
«Mi ha scritto Bombacci che è sempre più matto! Era esaltato dalla rivoluzione russa, parlava di comunismo anche in Italia, credo che lo perderemo. Sono invece in sintonia con Nenni. Vedremo gli sviluppi.»
«E noi, che posizione dobbiamo tenere con quello che accade a Torino?»
«Quello che si può difendere in periodi normali, in tempo di guerra è indifendibile. Questa è la nostra guerra, la madre nella nostra rivoluzione! Denunciamo pure le inefficienze del governo e le responsabilità degli speculatori, ma denunciamo soprattutto il disfattismo socialista. Dobbiamo tenere legato a noi tutto l’interventismo di sinistra.»
Mussolini parlò a Mario anche di Caporetto: «Più se ne sa e più la stupidità e inefficienza di questa classe politica appare in tutta la sua drammatica evidenza! Gli alti comandi italiani con alla testa il generale Cadorna, hanno dimostrato in quel frangente quanto poco valgono. Con una piccola ritirata strategica si potevano riassestare le posizioni su un fronte più arretrato, invece c’è stato lo sbandamento totale.
«Non è vero che i soldati abbiano disertato in massa! Certo, la truppa era stanca di una guerra di trincea logorante, di attacchi e ritirate inutili che lasciavano solo migliaia di morti sul campo. Non è stata diserzione, salvo pochi casi, ma una ritirata sbandata per la totale mancanza di ordini tra gli ufficiali superiori e quelli inferiori. Una disfatta! E un bilancio apocalittico, undicimila morti, ventinovemila feriti, duecentomila prigionieri. A vittoria avvenuta, non ho dubbi, faremo di tutto perché i colpevoli paghino. È altrettanto vero che questo è un duro colpo per noi interventisti. Vedrai che i socialisti tenteranno di farcela pagare».
La sicurezza e il carisma di Benito ancora una volta affascinarono e convinsero Mario della necessità della terza via. Stava nascendo il fascismo, non ancora politicamente, ma negli animi dei primi seguaci di Mussolini.
Quella rivoluzione finì come era cominciata, spontaneamente. Indusse però i socialisti e i sindacalisti a esaminare il loro ruolo nei Comitati di Mobilitazione Industriale. Pietro ritrovò nel Comitato il compagno Santhià, un operaio specializzato che conosceva bene, massimalista ma pieno di buon senso. L’inverno del 1917 vide finalmente tutti lavorare coralmente.
Camillo scendeva sovente a Torino e incontrava sempre Pietro. In quei giorni si erano avverate le sue profezie e quelle di Mussolini, relativamente alla presa del potere da parte dei bolscevichi. Kerenskij e i socialdemocratici si erano logorati nel tentativo di coinvolgere la borghesia di quel paese. Di fronte alle posizioni estremiste dei bolscevichi ci fu una dura repressione che culminò con l’esilio dei loro capi. Lenin riparò in Finlandia. Furono i tedeschi, in modo interessato, a favorire il suo ritorno quando i Soviet scatenarono la rivolta finale in ottobre, determinando in dicembre l’armistizio e la conseguente dittatura del proletariato.
«Hai visto Pietro che non mi sbagliavo? – disse Camillo commentando i fatti russi. – Le condizioni perché vincessero i massimalisti c’erano tutte!»
«Io sono contento che abbia vinto Lenin, è un vero rivoluzionario – rispose Pietro. – Per una volta io e Santhià, con me nel Comitato in rappresentanza della Fiom, siamo d’accordo! Finita la guerra, se questo spirito unitario prosegue anche da noi, si potrà fare come in Russia. Mussolini sarà il nostro Lenin!»
«Dubito molto – sorrise Camillo – che finita la guerra questo paese trovi le forze di sinistra unite per cambiare le cose. Né tanto meno penso che i socialisti perdoneranno a Mussolini il suo interventismo. Secondo me il solco si sta allargando. È sciocco, ma sta accadendo».
«Anche Mario mi ha detto la stessa cosa, ma io, come operaio, voglio sperare che questo non avvenga» aggiunse Pietro.
«Sono convinto che la rivoluzione russa, invece di aiutarci, complicherà la nostra situazione – ribadì Camillo. – Come ti ho detto una volta la Russia non è l’Italia. Gli Zar non hanno permesso quella rivoluzione industriale che nel secolo scorso ha cambiato l’Europa e pure noi, anche se in misura minore, all’inizio di questo secolo. Le fabbriche in Russia sono state vendute “chiavi in mano” dalla Francia, dall’Inghilterra e dalla Germania. Persino dagli Stati Uniti! Non è nata quindi una classe imprenditoriale che potesse condizionare politicamente il potere dello Zar e della sua nobiltà contadina e feudale. La guerra ha fatto solo precipitare la situazione.
«Guarda cosa è successo da noi dopo Caporetto: nessuna rivoluzione, ma l’unione, ancorché provvisoria, per fronteggiare l’invasione. Ho delle grosse riserve su quello che succederà in Russia. Intanto è un paese sterminato, si parlano una babele di lingue. I contadini benestanti, i Kulaki, non accetteranno sicuramente un governo che si propone la collettivizzazione e la dittatura del proletariato. Ho letto attentamente ciò che scrive Lenin. Lui non è un proletario, ma un nobile di campagna, è un teorico della rivoluzione. Non è d’accordo con Marx sull’analisi che la rivoluzione si realizzerà nei paesi industrializzati. Lenin ha sempre sostenuto che la rivoluzione scoppierà nei paesi più arretrati. I fatti sembrano dargli ragione.»
«Ma anche noi siamo un paese povero e arretrato!» tentò Pietro.
«Noi siamo a metà del guado – proseguì Camillo sempre più infervorato. – A partire dalla fine dell’altro secolo il processo di industrializzazione è scoppiato anche da noi, almeno nel nord Italia. Torino, Milano e Genova sono ormai le punte di diamante della nostra rivoluzione industriale. La classe operaia è cresciuta, ma si è sviluppata anche una nuova borghesia che non è composta solo dagli industriali, ma anche dai dirigenti, dagli impiegati, e perché no, dagli operai specializzati che sono i più evoluti. Credo che la saldatura tra questa nuova borghesia e il proletariato potrà avvenire solo su posizioni riformiste e non su quelle rivoluzionarie. Non fare l’errore, Pietro, di guardare la politica basandoti su Torino. Qui la crescita della classe operaia non ha confronti nemmeno con Milano e Genova, dove non esistono fabbriche delle dimensioni e soprattutto del dinamismo della Fiat.
«Da noi la classe operaia è forte e compatta, ma nelle altre regioni, specialmente al sud, questi fenomeni non si sono verificati. Quando sono scoppiati i moti per il pane a Torino, la rivolta non si è propagata nemmeno in Liguria e in Lombardia. Comunque, caro Pietro, adesso pensiamo a vincere la guerra.»
«A fare la rivoluzione ci penserà Mussolini!» disse Pietro che, pur non avendo capito tutto quello che andava dicendo Camillo, aveva colto il succo del discorso.
«Leggo sempre il giornale del tuo amico Mussolini – aggiunse Camillo. – Indulge, a mio parere, sulla demagogia imparata quando era massimalista. Ma su alcune cose ha le idee chiare. Mi sembra che anche lui ricerchi nuove alleanze e che guardi con interesse alla parte migliore della borghesia. Lo vedo attento a quanto di nuovo sta accadendo. Certo la compagnia dei nazionalisti deve stargli stretta! In genere quegli ambienti sono reazionari. Io considero Mussolini, nonostante quello che dice il partito, ancora un compagno. Vedremo!» terminò con un sospiro.
Finalmente verso la fine del ‘18 la guerra finì. L’avevamo vinta: o forse gli Imperi Centrali l’avevano persa. Mussolini incontrò Pietro e Mario nel ’19, a gennaio. Torino era uscita malconcia dalla guerra: aveva anche festeggiato, ma i problemi c’erano tutti e persistevano soprattutto gli odi. Nessuno volle fare un minimo di autocritica rispetto alla posizione del ‘15.
I socialisti, a stragrande maggioranza ormai massimalisti, soffiavano sul fuoco. Esaltavano la rivoluzione russa, non volendo ammettere che senza la guerra difficilmente sarebbe avvenuta. In campo interventista, molto più eterogeneo di quello socialista, tra sinistra e ambienti prettamente nazionalisti se non reazionari, non si volle andare a fondo dei problemi che la guerra aveva fatto scoppiare, e cioè il ritardo e l’impreparazione generale del paese. In agricoltura l’arretratezza aveva affamato la popolazione e l’industria, a parte alcune isole, non aveva certo brillato.
Gli alti comandi militari, poi, erano responsabili di milioni di morti inutili, oltre che di una disfatta come quella di Caporetto, che avrebbe potuto mettere in discussione l’integrità territoriale italiana. Si puntò il dito sulla punta dell’iceberg, sull’incapacità di Cadorna, come se fosse stato il solo responsabile. Con speculazioni, accaparramenti e superprofitti industriali, problemi reali ma non certo di struttura, la classe politica liberale viaggiava spedita verso l’autoconsunzione, incapace di analizzare il vecchio e impostare il nuovo.
La rivoluzione russa condizionava fortemente la sinistra e la destra. Per i socialisti era la dimostrazione che la via rivoluzionaria era possibile. Per la destra uno spauracchio che andava ben al di là delle chiacchiere dei socialisti italiani. Cosa stava succedendo in quei mesi in Russia?
Lenin, preso il potere, si era trovato immediatamente di fronte alla reazione dei generali fedeli allo Zar, i quali, conservata parte dell’esercito, operavano soprattutto in quella parte della Russia dove c’erano forti spinte autonomiste, in Ucraina, in Georgia, nel Caucaso. I bolscevichi reagirono eliminando il simbolo delle armate bianche. Sterminarono brutalmente non solo lo Zar ma tutta la sua famiglia. Questo causò naturalmente la reazione delle altre famiglie reali europee, imparentate tra loro e quindi anche con gli Zar. I governi conservatori, quasi tutti liberali, non si fecero pregare. Preoccupati del contagio, inviarono truppe d’appoggio alle armate bianche. Inizierà così in quella classe dirigente, non a torto, la sindrome degli assediati.
Il socialismo internazionale aveva di che discutere. Meno massimalista di quello italiano, aveva colto la lezione della caduta di Kerenskij e quindi metabolizzato il pericolo rivoluzionario nei confronti anche della socialdemocrazia. I socialisti europei si spostarono quindi a destra scegliendo, chiaramente, vie democratiche e parlamentari. Quelli italiani, al contrario, si spostarono a sinistra isolando sempre più i riformisti.
Pietro, tornato a tempo pieno in Fiat, aveva vita dura. Il suo interventismo e soprattutto l’amicizia con Mussolini l’avevano isolato. Non avendo il carattere per lasciar correre, c’erano discussioni continue che a volte sfociavano in risse. D’altra parte Benito non contribuiva a fare molta chiarezza, essendo in quel periodo “tra color che son sospesi”. Non era certo facile gestire una posizione ancorata ai vecchi schemi del massimalismo socialista, con una nuova sensibilità verso gli strati borghesi.
Un giorno che si trovarono con Mussolini a casa di Mario, la moglie Teresina aveva preparato gli agnolotti. Ai tre si erano uniti Lelli, operaio della Fiat e amico di Pietro, e Pasini un collega di Mario, anche lui impiegato alla Reale Mutua. Benito era una buona forchetta, anche se dopo mangiato soffriva di dolori di stomaco che lo costringevano a poco edificanti e rumorosissimi rutti. Per la verità, allora ruttare non era considerato uno scandalo, almeno in certi ambienti popolari. A sinistra poi (facevano eccezione Turati e la Kuliscioff, borghesi raffinati) quasi tutti ruttavano, scoreggiavano e bestemmiavano liberamente.
Dopo aver bevuto il vino chinato e preso il caffè dalla napoletana, Mussolini entrò in argomento: «Come prevedevo i capi socialisti non hanno capito nulla delle novità prodotte dalla guerra. Guardano estasiati alla rivoluzione russa senza essere in grado di guidare quella Italiana. Il Re e i liberali sono forze in decomposizione. Io sono sempre più convinto che a noi spetti il compito di preparare una rivoluzione con i nuovi soggetti che stanno emergendo. Con i lavoratori più evoluti che hanno le palle piene dei socialisti, con la borghesia operosa, gli artigiani, i commercianti e anche con gli industriali non reazionari. Penso al tuo amico Olivetti, Pietro.
«La guerra – continuò Benito – ha provocato profondi cambiamenti. Pensate agli ufficiali e ai sottufficiali, non quelli di carriera legati al re, ma quelle migliaia promossi sul campo. Protagonisti della vittoria nonostante gli imbecilli degli alti comandi. Ora sono traditi dal governo, che non è in grado di farsi rispettare al tavolo dei vincitori, e dai socialisti che li insultano e li umiliano. A Milano si arriva a strappare le mostrine ai soldati in divisa! Sta crescendo una giusta rabbia che noi dobbiamo saper interpretare, guidare e fare nostra. Sto preparando un raduno a Milano dove proporrò la fondazione di fasci di combattimento sulla falsariga di quelli che nel ‘15 servirono a dare una spallata al pacifismo. Ci saranno i nazionalisti, Martinetti e i futuristi, i reduci e i vari esponenti degli industriali e degli agrari che sono per il cambiamento. Deve essere una cosa abbastanza ristretta e quindi vieni solo tu, Gioda. So – disse guardando Pietro e gli altri amici, – che voi sarete presenti con il cuore e la volontà assoluta.
«A proposito – continuò Mussolini, – quel volpone di Agnelli che fa? Ci sarà ancora grato del favore che gli abbiamo fatto nel ‘17?»
«Chi lo sa! Da lui possiamo aspettarci di tutto! – disse Mario – Comunque quella volta le castagne dal fuoco gliele abbiamo tolte.» Cosa era successo?
Dante Ferraris, proprio quello che Agnelli aveva delegato alla presidenza del Comitato, oltre a essere il vicepresidente della Fiat era fortemente legato ad ambienti nazionalisti. Se ne servì naturalmente per gli interessi dell’azienda, ma anche per rafforzare il proprio potere, dal momento che nel consiglio di amministrazione dell’azienda faceva la fronda ad Agnelli.
Il direttore de La Stampa di Torino, Frassati, organizzò una campagna nella quale si denunciavano i sovrapprofitti nelle commesse militari, da cui la Fiat non era immune. Giovanni Agnelli, pur essendo da sempre un giolittiano convinto e pur avendo più volte polemizzato con Ferraris, di fronte a un attacco diretto alla Fiat fece la classica carognata.
La campagna era orchestrata dal deputato liberale Grosso Campana, un fedelissimo dell’uomo di Dronero. Questi, mesi prima, visti i buoni rapporti di Agnelli con il suo gruppo politico, aveva chiesto alla Fiat un prestito per certi problemi personali e aveva dato in garanzia delle cambiali. Fin qui niente di particolarmente disdicevole, se non che per ragioni politiche l’onorevole Grosso aveva attaccato Ferraris e di conseguenza la Fiat.
Bisognava rispondere e far fermare la campagna. Agnelli pensò di fare una soffiata a Il Popolo d’Italia, giornale mai tenero con i giolittiani. Sapeva che il corrispondente de Il Popolo d’Italia a Torino era Gioda, e questo era amico di quel suo operaio, Giraudo, presente nel Comitato di Mobilitazione Industriale. Un pomeriggio Agnelli arrivando al Comitato, incontrò proprio Pietro e gli disse: «La Fiat ha bisogno di un favore dal tuo amico Gioda. Domani sera siete invitati a cena a casa mia.» Più che un invito, era un ordine.
Pietro, sorpreso, al termine del lavoro andò di corsa nell’ufficio di Mario informandolo dello strano invito. Mario, lui pure stupito, commentò: «Cosa diavolo vorrà? A suo tempo ha dato una mano a Benito per Il Popolo, non che fosse un amico, ma era interessato che entrassimo in guerra. Non credo che sarà un nostro alleato. Secondo me è in difficoltà per l’attacco de La Stampa sui sovrapprofitti. Non diamogli la soddisfazione di correre appena ci chiama. Fagli sapere che domani sono impegnato e che a me andrebbe bene la prossima settimana.» Pietro fece sapere la cosa alla segretaria di Agnelli e fu concordato l’appuntamento per il mercoledì della settimana successiva.
Quella sera Pietro e Mario si vestirono, come si dice a Torino, dla festa. Pietro aveva una cravatta Lavallière, come usavano allora. Con il senatore c’era il figlio Edoardo, in divisa dell’esercito. Aveva un importante incarico per il coordinamento, guarda caso, dei mezzi mobili dell’esercito. Durante la cena si parlò di tutto, della guerra, del Comitato e, immancabile in quei giorni, dei fatti russi. Agnelli li informò che le notizie che giungevano da ambienti vicini a lui, davano in difficoltà il governo socialdemocratico.
«Quel Lenin lì – disse Agnelli, – è peggio dei nostri massimalisti! Vuole espropriare le fabbriche e le campagne e mi sa che se continua così ci riuscirà. Secondo me, in Russia, gli Zar e la nobiltà hanno tirato troppo la corda, non so se le posizioni riformiste riusciranno a prevalere in un paese tanto arretrato.»
Dopo cena, in salotto per il caffè, Agnelli arrivò al punto. «L’onorevole Grosso sta svolgendo un attacco pretestuoso contro la Fiat e il mio amico Ferraris. Ci ha messo prima in difficoltà, schierandosi aspramente contro i liberali di Giolitti e dando troppa corda a certi ambienti nazionalisti. Io non sono riuscito a convincere Ferraris a essere più prudente. Adesso però l’attacco diretto è alla Fiat. I sacrosanti guadagni che stiamo avendo non finiranno nelle nostre tasche, ma nello sviluppo della fabbrica. Vi do una notizia, e siete tra i primi a saperlo, sto facendo progettare un nuovo stabilimento al Lingotto. Sarà il più grande e il più moderno in assoluto in Italia e tra i primi in Europa. Solo il mio amico Ford ha di meglio, ma noi ci stiamo avvicinando. Signor Gioda, ho bisogno di una mano.»
Edoardo a quel punto si alzò dicendo a Pietro: «Signor Giraudo, posso farle vedere i primi disegni dello stabilimento dove lei lavorerà fra pochi anni?» Pietro guardò Mario, afferrando al volo che doveva eclissarsi. Di tutte quelle piante e disegni Pietro capì ben poco, salvo quello che rappresentava in concreto l’edificio, un enorme stabilimento in vetro e cemento armato.
«Lo sta progettando l’architetto Bottino», disse Edoardo offrendo un altro cognac a un Pietro emozionato e un po’ brillo. Al termine della serata, uscendo da casa Agnelli, Pietro chiese a Mario: «Allora, cosa voleva da te?»
«Che carogna! – sibilò ridendo Mario, – mi ha dato una notizia riservata e vuole che la pubblichi sul Popolo. Mi raccomando Pietro, non dovrai parlarne con nessuno! Se pubblichiamo questa notizia è solo ed esclusivamente per i nostri interessi politici e non certo perché sia corretta!»
Pietro guardò l’amico con uno sguardo atteggiato a punto interrogativo.
«Agnelli qualche mese fa – chiarì Mario, – ha concesso un prestito di 15.000 lire all’onorevole Grosso. E c’è di più, le cambiali sono state scontate dalla banca Ceriana, notoriamente vicina alla Fiat. Se la notizia non venisse da Agnelli, non ci sarebbe nulla di male ad attaccare gli avversari, così però ci prestiamo a una manovra per bloccare un’inchiesta giornalistica contro i superprofitti, che anche noi abbiamo denunciato. Domani informo subito Benito, sarà lui a decidere il da farsi.»
«La nuova fabbrica del Lingotto è una cosa magnifica» disse Pietro ridendo, del tutto indifferente alle difficoltà in cui avrebbe potuto trovarsi l’onorevole Grosso se la notizia fosse diventata di pubblico dominio.
La sera in cui si trovarono a casa di Mario sia Pietro che Benito, quest’ultimo diede il suo assenso alla pubblicazione dello scoop, asserendo: «Si tratta indubbiamente di una mascalzonata, ma fa il nostro gioco. Agnelli a suo tempo dovrà esserci riconoscente.» In quell’occasione, dopo la buona cena, una delle figlie di Mario recitò una poesia davanti a un Benito divertito che dimostrò di essere non solo un capo carismatico, ma anche un amico sinceramente affezionato e una persona di grande compagnia. Le tante incertezze che probabilmente l’affliggevano non trasparivano dai suoi discorsi sicuri, né sembrava nutrire dubbi sulla sua decisione di abbandonare una carriera certa tra i socialisti per seguire un’intuizione che, in quegli inizi, non dava certamente segni di sbocchi sicuri. Pietro e Mario adoravano letteralmente Benito, e l’avrebbero seguito in capo al mondo: cosa che d’altronde faranno fino in fondo.
Inutile dire che lo scandalo, scoppiato a seguito della pubblicazione su II Popolo delle indiscrezioni fornite da Agnelli, fece cessare immediatamente la campagna de La Stampa.
Prima di lasciare la compagnia per tornare a Milano, Benito chiese a Gioda: «Hai notizie di Gramsci? Prima della guerra era sulle nostre posizioni, con quell’altro che gli scodinzolava sempre intorno, come si chiama?»
«Togliatti – rispose Pietro invece dell’amico. – Lui so dove trovarlo!»
«Bene, Pietro, dobbiamo parlare con loro. Abbiamo assolutamente bisogno di bilanciare i moderati che si stanno avvicinando alle nostre posizioni, con compagni che siano ideologicamente già con noi. Contattateli!» Questo era un ordine.
(Continua)