Gli anni formidabili dell’elettronica italiana (1)
La Divisione Commerciale Elettronica Olivetti: 1959-1962 e oltre
di Michele Pacifico
Ripensandoci ora, più di sessant’anni dopo, sono portato a concludere che nel mio caso tutto avvenne per una questione di amore e di calendario. Mi ero appena laureato in filosofia all’Università degli Studi di Milano, ero innamorato e mi volevo sposare. Quindi mi serviva uno stipendio; avrei voluto guadagnarmi da vivere facendo l’insegnante, ma il calendario non mi aiutava: avevo discusso la tesi a fine gennaio del 1960, l’anno scolastico nelle scuole superiori era già cominciato da mesi e quindi per trovare una supplenza come insegnante di storia e filosofia avrei dovuto aspettare l’inizio dell’anno scolastico successivo.
Un pesce fuor d’acqua
Mi rivolsi per un consiglio a un autorevole professore, descrivendogli il mio problema: come e dove trovare un lavoro senza aspettare altri otto o nove mesi? Annuì paternamente, prese il telefono e parlò brevemente con un signore. Poi posò il telefono e mi disse di chiamare un numero della Olivetti a Milano e di chiedere del Dottor Colombo, dicendogli che mi mandava lui. Ringraziai il professore e me ne tornai a casa un po’ perplesso: che cosa mai avrei potuto fare alla Olivetti e chi era il Dottor Colombo?
Un paio di settimane dopo ero in un ufficio della palazzina della Olivetti in via Clerici, a tu per tu col Dottor Colombo, che mi aveva dato l’appuntamento subito dopo la mia telefonata. Era un signore estremamente gentile e indaffaratissimo: la nostra conversazione era continuamente interrotta da telefonate brevi e concitate che avevano a che fare con un suo imminente viaggio negli Stati Uniti.
Mi spiegò che il suo mestiere era assumere laureati per la Olivetti e si scusò per le continue interruzioni: stava per essere trasferito a un altro incarico, con sede negli Stati Uniti e il colloquio che stavamo facendo era uno degli ultimi nella mansione che si accingeva a lasciare. Poi prese a farmi domande che non mi sembravano molto coerenti con quella che io pensavo dovesse essere una valutazione attitudinale: dimostrava grande interesse per i romanzi che avevo letto di recente, per le mie esperienze di politica universitaria, per i viaggi che avevo fatto (pochi, ma uno molto importante: a 17 anni ero stato tre mesi negli Stati Uniti). Mi chiese quali erano i film che più mi erano piaciuti, se andavo a teatro e perché avevo scelto di laurearmi proprio su W. V. Quine, un filosofo e logico americano noto soltanto agli addetti ai lavori.
La conversazione andò avanti una mezz’oretta: il Dottor Colombo sembrava davvero interessato alle mie risposte, che ascoltava fissandomi intensamente in silenzio, dietro occhiali che gli conferivano un aspetto più da professore universitario che da uomo d’azienda, poi mi tese la mano e mi congedò con molta cordialità, assicurandomi che ben presto sarei stato richiamato, non da lui, che era in partenza, ma da un altro ufficio.
Anche questa volta me ne tornai a casa un po’ perplesso, perché non avevo capito nulla di quell’incontro: era stata una conversazione garbata, gli avevo raccontato di me e dei miei interessi culturali e politici, ma lui non mi aveva chiesto che cosa sapessi fare né mi aveva spiegato perché mai una società industriale come l’Olivetti potesse essere interessata a un laureato in filosofia piuttosto che a un ingegnere.
Dopo un altro paio di settimane, quando ormai mi ero convinto che il Dottor Colombo mi avesse dedicato mezz’ora del suo tempo soltanto per fare una cortesia al professore che mi aveva segnalato, mi arrivò una telefonata dalla Olivetti. Era una segretaria, palesemente, che mi invitava a un colloquio con un certo signore, del quale non capii bene il nome, della Divisione Commerciale Elettronica.
Tornai in via Clerici e dissi al portiere che avevo un appuntamento con un certo signor Piola. Fra me e me pensavo: “Prima mi vede un laureato, il Dottor Colombo, poi per liquidarmi mi fanno parlare con un impiegato che non è neppure laureato”. Il portiere intanto chiamò l’ufficio e avvertì che c’era una persona per il Signor Piol. Ero io che avevo capito male il nome o si chiamava davvero Piol e non Piola come il calciatore? Raggiunsi una saletta di attesa e dopo un quarto d’ora, quando ormai ero più che certo che stessi lì a perdere tempo, si spalancò la porta e irruppe una specie di gigante, altissimo ed enorme, grandi occhiali e un luminoso sorriso. Mi stese la mano e mi spiegò che lui si chiamava Piol ed era il capo di una nuova struttura della Olivetti, la Divisione Commerciale Elettronica.
Soggiogato dalla sua mole e soprattutto dal grande senso di sicurezza di sé che promanava, gli chiesi intimidito che cosa facesse la Divisione Commerciale Elettronica. Prese a parlare con un vocione profondo e con un ritmo serrato e mi spiegò che la nuova organizzazione che lui stava mettendo insieme era destinata a immettere sul mercato un nuovo prodotto, un calcolatore elettronico di grande potenza. Lì per lì pensai che si riferisse a una nuova versione della Divisumma, una calcolatrice Olivetti che avevo visto in molti uffici e glielo dissi, ma si affrettò a precisare che no, che non di una calcolatrice si trattava, ma di un calcolatore, insomma una macchina ben più grande, grande come un autobus, destinata a rivoluzionare il mercato delle macchine per ufficio.
L’entusiasmo di Piol era contagioso, la sua descrizione delle meraviglie che si sarebbero realizzate con l’Elea (così si chiamava quella macchina grande come un autobus) mi faceva intravedere scenari da fantascienza e, non trovando modo di inserirmi nella sua parlata torrenziale, mi limitavo ad ascoltarlo annuendo. Terminò la sua presentazione, mi fece un paio di domande un po’ più operative di quelle che mi aveva fatto il Dottor Colombo: sapevo l’inglese? Ero disposto a trasferirmi e a viaggiare? Quindi si alzò in tutta la sua mole torreggiante, mi fece ancora uno dei suoi splendidi sorrisi e mi congedò dicendomi che si sarebbero fatti vivi loro.
Uscii dagli uffici di via Clerici convinto che l’Olivetti fosse popolata da persone garbate e poco inclini alla pragmatica ruvidità che secondo me doveva essere la regola nelle aziende: perché non dirmi subito e con franchezza che non facevo al caso loro?
Passò un’altra settimana, ormai eravamo a fine febbraio, quando ricevetti un’altra telefonata della Olivetti: questa volta era per un appuntamento con il Direttore del Personale, l’Ingegner Tufarelli. Ecco, ci siamo, mi dissi andando all’appuntamento, adesso mi diranno finalmente che non mi vogliono e così la faranno finita. Invece no: l’Ingegner Tufarelli si dimostrò ancora più garbato e gentile, cosa che non avrei ritenuto possibile, del Dottor Colombo e del Signor Piol: quando entrai nel suo ufficio si alzò dalla poltrona che stava dietro la scrivania, mi venne incontro, mi strinse la mano e si sedette accanto a me, su una delle due sedie per i visitatori che erano allineate davanti alla scrivania. Un gesto che mi parve di eccezionale signorilità. Mi disse che la Divisione Commerciale Elettronica era intenzionata ad assumermi, ma che condizionava l’assunzione al superamento di un periodo di addestramento di tre mesi, al termine del quale sarei stato assunto con una retribuzione di centomila lire al mese: la stessa somma, ma a titolo di borsa di studio e non di stipendio, mi sarebbe stata pagata mensilmente durante l’addestramento. Trasecolato, accettai l’offerta che mi sembrava principesca e stavolta tornai a casa non più perplesso, ma certamente sconcertato. Che cosa mai li aveva convinti, tutti e tre, che io potessi lavorare per la Olivetti? E per fare che cosa, poi?
I protagonisti
La struttura aziendale nella quale mi accingevo a entrare, completamente ignaro di tutto, nel marzo del 1960, era stata avviata l’estate precedente ed era la terza mossa di una strategia che risaliva al lontano 1949, quando la Olivetti aveva deciso di entrare nel mercato dei sistemi meccanografici per il trattamento dei dati, un settore contiguo a quello tradizionale delle macchine per ufficio, ma profondamente diverso nelle tecnologie e nelle logiche del marketing.
I sistemi meccanografici servivano per elaborare in modo uniforme dati contabili e amministrativi in grandi volumi. I dati elementari (importi di denaro depositati o prelevati, ore lavorate e così via) venivano trascritti mediante perforazioni su schede di cartoncino, che per questa ragione venivano chiamate “schede perforate”. Questa operazione si eseguiva con macchine dette “perforatrici”, dotate di una tastiera simile a quella di una macchina per scrivere, i cui tasti agivano su una serie di punzoni che trasformavano in perforazioni i numeri e le lettere che si battevano sulla tastiera. Ciascuna scheda poteva contenere al massimo 80 caratteri, più che sufficienti per registrare un’operazione contabile elementare.
Successivamente, le schede venivano inserite in macchine chiamate “selezionatrici”, che erano in grado di “leggere” i dati grazie a un sistema di spazzole di metallo che chiudevano un circuito quando le loro punte entravano nelle perforazioni. Le selezionatrici servivano per dare un ordine alle schede, per esempio disporre tutte le operazioni di prelievo o di versamento in successione in base al codice del materiale movimentato.
Dopo uno o più passaggi in selezionatrice, le schede così ordinate venivano introdotte in una macchina più complessa, detta “tabulatrice”, anch’essa attrezzata con spazzole per rilevare le perforazioni nelle schede. La tabulatrice era dotata di circuiti elettromeccanici, capaci di eseguire totalizzazioni, e di un meccanismo di stampa. Questa macchina elaborava, con passaggi successivi, i dati contenuti nelle schede perforate ed eseguiva con quei dati alcune semplici operazioni aritmetiche, stampando poi il risultato dell’elaborazione su lunghi fogli di carta piegati a fisarmonica, che venivano chiamati in gergo “tabulati”.
I sistemi a schede perforate o meccanografici erano nati agli inizi di quel secolo negli Stati Uniti per acquisire ed elaborare più agevolmente i dati del censimento del 1911. Successivamente i brevetti vennero rilevati da una società che prese il nome di International Business Machines, in sigla IBM, che creò con queste macchine un business altamente redditizio e di dimensioni mondiali. In tutti i paesi industrializzati esisteva una struttura commerciale IBM, e spesso anche una struttura produttiva, che annoverava fra i suoi clienti la gran maggioranza delle imprese industriali e commerciali, delle banche e delle società di erogazione di gas e di elettricità, che per la natura delle loro attività produttive o commerciali avevano bisogno di elaborare con frequenze giornaliere, settimanali e mensili grandi quantità di dati.
IBM non era naturalmente sola in quel mercato: altre imprese negli USA e in Europa producevano e distribuivano sistemi a schede perforate, contendendo a IBM il predominio del mercato. Fra queste, una società francese, chiamata Compagnie des Machines Bull, aveva ottenuto in patria dei buoni risultati e accettò di farsi rappresentare commercialmente in Italia da una società prestigiosa come l’Olivetti. Dall’intesa fra Olivetti e Compagnie des Machines Bull nacque nel 1949 una società per la commercializzazione dei sistemi meccanografici francesi che prese il nome di Olivetti-Bull.
Lo sviluppo della Olivetti-Bull non fu un pranzo di gala e neppure una festa in campagna. In certi momenti fu addirittura una cosa violenta, perché IBM non era affatto disposta a farsi portar via quote di mercato e spesso giocava con estrema pesantezza le sue carte: “Nessuno è mai stato licenziato per aver scelto IBM”, assicuravano con tono vagamente intimidatorio i venditori IBM mentre sviluppavano trattative con i loro clienti potenziali: direttori amministrativi di medie e grandi imprese industriali e commerciali o responsabili del trattamento dei dati di banche e assicurazioni. E quando si trattava di scegliere fra la proposta di Olivetti-Bull e quella di IBM il messaggio restava inciso nella mente dei loro interlocutori, che molto spesso optavano, per tranquillità, in favore del leader del mercato.
Poco dopo aver costituito la società, Adriano Olivetti mise a capo di Olivetti-Bull un giovane e grintoso manager che si era formato in un mondo radicalmente diverso da quello dell’industria meccanografica. L’Ingegner Ottorino Beltrami aveva poco più di trent’anni, era stato il più giovane comandante di sommergibili nella storia della Regia Marina. Decorato con due medaglie d’argento, si era congedato col grado di tenente di vascello dopo una grave ferita di guerra invalidante, che lo avrebbe costretto a continuare la sua carriera dietro una scrivania invece che sul ponte di comando di una nave da guerra.
Non era la prima volta (e non sarebbe neppure stata l’ultima) che Adriano metteva in casa Olivetti con posizioni di responsabilità un ufficiale effettivo congedato dalla Marina Militare: erano persone che avevano fatto studi rigorosi, sapevano di matematica, di meccanica e di elettromeccanica, avevano una solida esperienza nella guida degli uomini e una forte inclinazione a lavorare in modo organizzato.
La scelta dell’Ingegner Beltrami a capo di Olivetti-Bull diede ottimi risultati e gradualmente la società riuscì a ritagliarsi una sua dignitosa quota di mercato, grazie alla buona qualità delle macchine e alla caparbia tenacia dei commerciali e dei tecnici.
Nel 1953, Elserino Piol, che allora aveva 22 anni, si presentò ai test attitudinali della Olivetti-Bull. La selezione era per operatori meccanografici e naturalmente con la sua vivacissima intelligenza superò il test brillantemente. Ma quando lo mandarono a chiamare per confermargli l’assunzione si accorsero con loro vivo imbarazzo che era privo di due dita della mano sinistra a causa di un incidente di cui era rimasto vittima da ragazzo. L’operatore meccanografico deve fare alcune operazioni in modo sistematico e ripetitivo, una delle quali, di fondamentale importanza, è la preparazione delle schede perforate per l’alimentazione in una selezionatrice o una tabulatrice. L’operazione si chiama “smazzare” e consiste nell’impugnare saldamente con una mano un pacco di schede e con l’altra mano farle scorrere in modo da verificare che non siano rimaste attaccate per effetto della carica elettrostatica e per togliere la carica stessa. Questo allo scopo di prevenire la peggior jattura che potesse minacciare l’operatività delle macchine a schede: l’intasamento dell’alimentazione, che in Olivetti-Bull si chiamava “bourrage” alla francese.
Con una mano in quelle condizioni il giovane Piol non poteva “smazzare” agevolmente le schede e quindi non avrebbe potuto fare l’operatore. L’uomo del personale della Olivetti-Bull era imbarazzatissimo: il ragazzo aveva ottimi studi (perito aeronautico all’Istituto Feltrinelli, uno dei più autorevoli ITI di Milano) e ai test era andato benissimo: perché rinunciare ad assumerlo per una banalità fisica come quella? Gli venne un’idea: esisteva una mansione di “pannellista” per la quale non era necessario “smazzare” le schede. Se Piol fosse stato disposto a seguire l’addestramento di pannellista e si fosse qualificato, il posto sarebbe stato suo. E naturalmente Piol non soltanto superò il corso, ma divenne ben presto un prodigio dei pannelli.
Ma che cosa sono i pannelli? Sono l’antenato del software. La tabulatrice, la macchina principe fra quelle che elaboravano schede perforate, veniva pilotata nel suo lavoro da un pannello di alluminio della dimensione di un grosso libro, sul quale erano predisposti una serie di buchi in orizzontale e in verticale, che formavano una matrice rettangolare. Il pannellista aveva a disposizione una serie di cavetti di filo di rame isolato, dotati di due spinotti alle estremità. Il suo lavoro consisteva nell’infilare uno spinotto in uno dei buchi del pannello e l’altro spinotto in un altro buco, scelto opportunamente. I cavetti avevano la funzione di prendere il segnale elettrico in arrivo dalla lettura di una colonna di una scheda perforata e di deviarlo verso un dispositivo intermedio, un totalizzatore, per esempio. In questo modo, con un solo passaggio delle schede nella tabulatrice si potevano eseguire più operazioni. I pannelli erano vere e proprie opere d’arte, i cavetti formavano matasse inverosimilmente aggrovigliate, su un pannello un esperto riusciva a infilare decine di cavetti.
Il trionfo di Piol fu quando riuscì, lavorando giorno e notte nel centro meccanografico della Banca Toscana, a creare un mostruoso pannello che grondava cavetti da tutte le parti (ai quali aveva aggiunto altre diavolerie elettromeccaniche): grazie a quel pannello si riusciva a elaborare e a stampare l’estratto conto scalare con una sola passata di tabulatrice. Va considerato che, per un’operazione di quella complessità, di solito, anche dotandola di pannelli sofisticati, una tabulatrice doveva eseguire da tre a cinque passate (le “passate” erano letture ripetute degli stessi pacchi di schede: ogni passata comportava un rischio di errore e un ritardo, quindi meno passate voleva dire più velocità e meno errori).
La notizia circolò rapidamente nel mondo bancario e meccanografico e quando Ottorino Beltrami intavolò una trattativa con il Monte dei Paschi di Siena, gli dissero che sì, avrebbero preso il centro meccanografico dalla Olivetti-Bull piuttosto che dall’IBM a condizione che ad avviare i lavori mandassero quel ragazzo che si era tanto distinto alla Banca Toscana.
Il Monte dei Paschi firmò, Piol fece la sua bella figura e divenne così il beniamino di Beltrami, che ne intuì il notevole potenziale, che andava ben oltre il talento tecnico meccanografico, e lo candidò per la promozione a dirigente quando aveva soltanto 25 anni. Adriano Olivetti decideva personalmente le promozioni a dirigente sulla scorta delle candidature avanzate dai suoi diretti collaboratori e fece qualche obiezione per via dell’età e del fatto che Piol non era laureato, ma Beltrami fu irremovibile e Adriano acconsentì.
La Olivetti-Bull viveva in un mondo a parte, separato da quello prestigioso della Ing. C. Olivetti & C SpA, come si chiamava formalmente la mitica Olivetti di Ivrea.
Uffici sobri e spartani in anonimi palazzi della periferia ovest di Milano; pochi rapporti con Ivrea, che non aveva quasi nulla da offrire sul piano tecnico; più intensi i contatti con la Bull, che forniva macchine e know-how. Il personale tecnico e commerciale era formato per lo più da diplomati, ai quali si affiancarono alcuni laureati in ingegneria e in matematica quando, verso la fine degli Anni Cinquanta, la Compagnie des Machines Bull iniziò a produrre e a vendere, anche attraverso la sua affiliata italiana, i primi calcolatori elettromeccanici e poi elettronici destinati ad ampliare le capacità elaborative delle vecchie tabulatrici e a far uscire di scena i famosi “pannelli”.
Mentre la Olivetti-Bull si faceva tenacemente strada nel suo mercato, Adriano Olivetti avviava un’altra iniziativa, la seconda mossa strategica per portare la sua società a occupare spazi di mercato più vasti e più promettenti. La storia è già stata raccontata tante volte e quindi mi limiterò a sintetizzarla in poche righe.
Nel 1952 Adriano creò un laboratorio di ricerche elettroniche negli Stati Uniti, a New Canaan nel Connecticut. Il laboratorio aveva soprattutto lo scopo di monitorare gli sviluppi dell’elettronica applicata all’elaborazione dei dati e al calcolo scientifico, che negli Stati Uniti aveva cominciato a dare vistosi segni di vitalità subito dopo la fine della guerra. La fase pionieristica si era sviluppata dal 1945 al 1950, coinvolgendo i più prestigiosi centri di ricerca universitari e militari residenti nella East Coast e si era conclusa con la realizzazione nel 1951 del primo calcolatore elettronico utilizzabile per scopi gestionali e non più solo sperimentali, l’UNIVAC, prodotto dalla Remington Rand, il cui primo esemplare venne consegnato allo U. S. Census Bureau nel 1951, esattamente quarant’anni dopo il primo utilizzo delle macchine a schede perforate in quello stesso ente.
Due anni dopo la creazione del laboratorio Olivetti, nel 1954, spuntò un’occasione favorevole, che contribuì in maniera determinante a definire le sorti dell’industria informatica italiana. L’Università di Pisa aveva a disposizione una somma importante, stanziata dai comuni di Pisa, Lucca e Livorno, destinata alla realizzazione di un impianto per la ricerca sulle particelle atomiche, un elettrosincrotrone, che fu poi costruito a Frascati. Enrico Fermi, che si trovava in visita in Italia in quel periodo, fu consultato su un possibile impiego alternativo di quello stanziamento e suggerì che il denaro venisse impiegato per finanziare la costruzione di un calcolatore elettronico, che sarebbe stato utile per tutta la comunità dei ricercatori.
Informata del presidio che l’Olivetti aveva già da un paio d’anni creato su quel fronte, l’Università di Pisa definì con Adriano Olivetti un accordo di collaborazione economica e tecnica, in base al quale un gruppo comune di studiosi e tecnici universitari e aziendali avrebbe gettato le basi del nuovo sistema, per poi suddividersi in due linee di lavoro indipendenti, una più orientata alla ricerca e all’utilizzo universitario della nuova macchina (che si chiamò Calcolatrice Elettronica Pisana, in sigla CEP e fu portata a termine nel 1960) e l’altra linea di lavoro, più orientata all’utilizzo industriale, che sarebbe diventato il Laboratorio di Ricerche Elettroniche Olivetti.
A capo del gruppo dei ricercatori Olivetti di Pisa Adriano mise l’Ingegner Mario Tchou, che era stato il leader del gruppo di New Canaan. Figlio di un diplomatico cinese, ma nato a Roma, dove aveva studiato, Mario Tchou si era poi recato negli Stati Uniti, dove era stato reclutato per il gruppo di New Canaan mentre faceva lavoro di ricerca e di insegnamento alla Columbia University di New York.
L’Ingegner Tchou mise insieme un gruppo di lavoro molto variegato e multinazionale. Ecco come lo ricorda uno dei suoi partecipanti, l’Ingegner Piergiorgio Perotto, che entrò a farne parte nel 1957, provenendo dalla Fiat:
“I colloqui sostenuti in fase di selezione erano stati un po’ contrastati, tanto è vero che la lettera con la quale venivo assunto mi era arrivata come una sorpresa. I dirigenti che avevo incontrato mi erano sembrati persone di un altro mondo e sprizzavano alta cultura da tutti i pori; il contrasto con gli uomini Fiat, tutto fabbrica e dialetto e con modi di fare un po’ caserecci, era stato abissale. Per giunta il direttore del laboratorio, l’ingegner Mario Tchou [… ] dava l’impressione di coniugare alta tecnologia e cultura millenaria; e il clima del laboratorio, che avevo assaggiato durante una breve visita di qualche mese prima, ricordava quello di Los Alamos dove era stata costruita la bomba atomica.
Il laboratorio dell’Olivetti era situato in una villa nel quartiere di Barbaricina, ricco di verde, di case signorili e noto per le sue scuderie di cavalli da corsa. Nessuna targa o segno esteriore ne denunciavano al di fuori la natura. I personaggi che lavoravano nel laboratorio provenivano in buona parte dall’America e dall’Inghilterra e avevano lavorato nei centri di ricerca dove erano stati costruiti i primi calcolatori elettronici. Tutti, per una ragione o per l’altra, esibivano comportamenti classificabili nella categoria «genio e sregolatezza»; alcuni circolavano su vecchie automobili degli Anni 20 ricostruite, altri solo e rigorosamente su vecchie biciclette. Quasi tutti andavano in giro con abbigliamenti che definire trasandati o casual sarebbe stato riduttivo.”
L’unico ricercatore che sapesse come era fatto un computer era l’Ingegner Giorgio Sacerdoti, che aveva diretto l’installazione del secondo calcolatore arrivato in Italia nel 1955, il Ferranti Mark 1 di fabbricazione inglese, acquistato dall’Istituto Nazionale per le Applicazioni del Calcolo del CNR (il primo era arrivato nel 1954, acquistato dal Centro di Calcoli Numerici del Politecnico di Milano con fondi del Piano Marshall).
Il genio prevalse sulla sregolatezza, tant’è vero che nel giro di pochi anni, con forte anticipo rispetto ai compagni di cordata universitari, i ricercatori Olivetti riuscirono a far funzionare il primo prototipo a valvole del calcolatore di grandi dimensioni che si sarebbe chiamato commercialmente Elea. Era il 1957 e la macchina “Zero” o “1V”, come veniva chiamata in casa, era una realtà tangibile. Ma l’Ingegner Tchou si rese conto che era nata vecchia: ormai i componenti solidi, in particolare i transistor, erano diventati un prodotto industriale, destinato a soppiantare i vecchi e inaffidabili tubi a vuoto, per cui lanciò immediatamente un piano di lavoro per riprogettare la macchina utilizzando soltanto transistor e altri componenti solidi invece delle valvole. Il secondo prototipo, chiamato “1T” venne pronto nel 1958.
E fra la fine di quell’anno e l’inizio del successivo scattò la terza mossa strategica di Adriano Olivetti: il passaggio dal laboratorio al mercato, con la decisione di mettere in commercio l’Elea con un’agguerrita squadra di tecnici commerciali. Chiese a Ottorino Beltrami di mettergli a disposizione il suo uomo migliore e non senza riluttanza Beltrami acconsentì a privarsi di Elserino Piol, che alla giovane età di 28 anni venne incaricato di creare dal nulla la Divisione Commerciale Elettronica. Contestualmente, il Laboratorio di Ricerche Elettroniche veniva trasferito dalla villa di Barbaricina in un capannone industriale a sud di Milano, situato nel comune di Borgolombardo.
La presenza contemporanea nell’area di Milano di Olivetti-Bull, del Laboratorio di Ricerche Elettroniche e della Divisione Commerciale Elettronica non era casuale: nella mente di Adriano Olivetti Milano sarebbe dovuta diventare il polo di sviluppo della nuova Olivetti, tutta orientata all’elettronica, mentre l’impresa tradizionale, dedicata alle macchine per ufficio meccaniche, avrebbe continuato a svilupparsi a Ivrea.
Per dare un’ulteriore concretezza a questo disegno, Adriano aveva acquistato una vasta area edificabile in una zona industriale all’imbocco dell’autostrada Milano-Torino, nel comprensorio del comune di Pregnana Milanese, affidando il progetto edilizio del futuro polo dell’elettronica Olivetti all’architetto e urbanista francese Charles-Edouard Jeanneret, meglio noto col nome d’arte di Le Corbusier.